Black Italians

Mauro Valeri

Alla sua origine, il calcio professionistico si è caratterizzato per tre interdizioni: di classe (sport solo per ricchi), etnica (solo per inglesi), razziale (solo per bianchi). Nel corso di poco più di un secolo, queste interdizioni sono state messe in discussione e infrante. Le prime due già dopo pochi decenni, sebbene quella etnica sia stata prolungata dopo averla reimpostata in chiave nazionale. Nel caso italiano, la presenza di calciatori meridionali nella Nazionale maggiore è diventata una realtà solo alla fine degli anni ‘60.  Per quanto riguarda la terza interdizione, quella “razziale”, pur se ha fatto registrare un qualche cedimento, in Italia ha trovato una recente vitalità, poiché rivolta non solo ai “non bianchi” ma, più in generale, ai figli degli immigrati, che molti vorrebbero fuori dal campo di calcio. Lo vogliono i dirigenti della FIGC e della Lega Calcio, incapaci a capire che l’Italia è un paese d’immigrazione in cui però vige una legge sulla cittadinanza che rende i figli degli immigrati nati in Italia, stranieri almeno fino a 18 anni (e quindi stranieri anche nel calcolo dei pochi posti loro offerti dalle quote, per cui si trovano spesso a concorrere con un “campione venuto dall’estero”). Lo vogliono anche molti tifosi che, pur se hanno conquistato le curve di quasi tutta Italia, si sono trovati a dover fare i conti con una “rivoluzione nera” che, negli ultimi decenni, ha ottenuto, anche da noi, importanti risultati. Il primo è riassumibile nella frase: “Anche i neri sanno giocare al pallone”. Fino al golden age del Brasile di Pelé, questa affermazione era considerata, da molti in Italia, una sorta di blasfemia. Il secondo successo della “rivoluzione nera” è riassumibile nella frase: “I calciatori neri possono anche giocare in una squadra italiana”. E’ stata una fase piuttosto lunga - specie per la persistenza di un pregiudizio negativo contro i calciatori africani - e non ancora conclusa, perché molte tifoserie hanno accettato – spesso a malincuore – la presenza di calciatori neri nella propria squadra, ma continuano a fischiare quelli delle squadre avversarie. “L’unico nero buono è quello della mia squadra (e se molto forte)”. Oggi però siamo giunti anche alla rottura di quella che è l’interdizione più dura da abbattere e che possiamo riassumere nella frase: “I neri non possono giocare in Nazionale”. Finora in Nazionale maggiore hanno giocato due Black Italians, Fabio Liverani e Matteo Ferrari, entrambi con un genitore italiano. Uno dei prossimi candidati è Mario Balotelli che invece, per dirla con un linguaggio caro ai razzisti, non ha “sangue italiano”. E’ figlio dell’immigrazione. Contro di lui si sono scatenate le tifoserie, ma anche gli allenatori, uomini dell’intrattenimento sportivo, nascondendo il razzismo dietro richiami a comportamenti non richiesti ad altri calciatori, a cui sono stati anche concessi comportamenti ben più gravi. Quasi a ribadire che chi è nero, chi è “immigrato” (pur senza esser mai migrato), deve comunque dimostrare di essere doppiamente meritevole. Sorge spontanea la domanda: il calcio è strumento di integrazione o di discriminazione?



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