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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

Il pugnale sacro che fa litigare Italia e sikh

Flavia Amabile
E’ un pericolo andare in giro con un coltellino da boyscout o con una delle piccole lame multiuso svizzere? Per il ministero dell’Interno in caso di questioni di culto si tratta di armi improprie e per questo ha negato ai sikh in Italia il riconoscimento della loro religione.


La vicenda va avanti dal 2005, l’ultimo rifiuto è arrivato a maggio ed è stata una delusione cocente. Harwant Singh, il loro presidente in Italia lo ammette. «Siamo tristi. Per carità, rispettiamo sempre l’Italia e le sue leggi, ma ci aspettavamo qualcosa dopo tutti questi anni di onesto lavoro svolto in questo Paese». Il deputato del Pd Andrea Sarubbi che segue la vicenda si dice «stupito»: «Mi sorprende che si neghi la personalità giuridica ad una comunità che è un simbolo di integrazione. Sono le colonne della produzione di parmigiano reggiano, tanto per fare un esempio».

I primi sikh sono arrivati in Italia negli Anni 80. Hanno scelto alcune zone del Nord e del Lazio, si sono rimboccati le maniche e hanno lavorato come sanno fare loro: testa bassa, nessun lamento, contenti di avere un’occupazione e di poter a poco a poco comprare casa, creare famiglie in tutto e per tutto italiane. Oggi sono 60 mila. «Pensiamo di abitare qui e di viverci per sempre aggiunge Harwant Singh -. Abbiamo sempre obbedito alle regole, siamo una comunità tranquilla, ma vorremmo che anche gli altri rispettassero la nostra religione».

Già, la religione. Oggi in Italia non esiste, è un’associazione come tante, pur essendo antichissima. Ai fedeli chiede alcuni obblighi da rispettare: i maschi non devono tagliarsi i capelli a partire dalla loro maggiore età e devono coprirli con un turbante. Altri simboli sono il pettine in segno di pulizia, i pantaloni, il bracciale d’acciaio e proprio il pugnale della discordia che loro chiamano kirpan.

In passato anche il turbante ha creato problemi. Nel 1995 il ministero dell’Interno ne ha autorizzato l’uso nelle foto delle carte d’identità e nel 2000 ha precisato che l’importante è lasciare il volto scoperto come per il chador.

Anche se a volte ancora si verificano alcuni problemi in aeroporto la questione è chiarita. Sul pugnale invece nulla da fare. Di fronte al primo rifiuto del Viminale. Il Consiglio di Stato ha confermato: il kirpan è illegale. Era il giugno 2010. Ad agosto 2011 i sikh sono tornati alla carica, obiettando che il pugnale viene indossato sotto una cintura, quindi non è estraibile. E poi che la loro religione non prevede lunghezze particolari e può essere inferiore ai 4 centimetri in modo da non rientrare fra le armi da taglio. A maggio l’ennesimo rifiuto del Viminale ha chiuso la questione dal punto di vista del ministero.

«Ora dobbiamo valutare come procedere ma andremo avanti – assicura Harwant Singh –. Possiamo fare ricorso al Tar entro 60 giorni o proporre un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica entro 120 giorni».

Prima di decidere il presidente dei Sikh in Italia incontrerà ancora esponenti del governo per tentare di capire se esistono margini per un parere diverso. «Per noi è importante.– spiega –. In tanti ci confondono con i talebani. Dobbiamo far capire di essere completamente diversi. Ma vogliamo anche che si rispetti la nostra religione in tutti i suoi aspetti». Come spiega Andrea Sarubbi: «Una società interculturale deve affrontare la dimensione delle fedi. Sono sfide complicate ma non possono essere eluse o annullate. Esistono e richiedono soluzioni».
la Stampa 23 luglio 2012

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