Gli immigrati e l'identità negata

Gli immigrati e l'identità negata
Luigi Manconi
Nel deserto della città terremotata scavalcando le transenne e invadendo le strade segnate dalle macerie, gli aquilani hanno “ripreso” le loro case. O meglio: ciò che ne resta. Come il fondale di un teatro o come le facciate di legno sul set di in un film western, l’improvvisa animazione di una folla di abitanti ha dato vita a una assenza e ha riempito i vuoti di un centro storico che ricorda un paesaggio post-bellico.
Gli assenti, gli aquilani dispersi nelle “casette” e negli alberghi, o in alloggi di fortuna sono tornati sulla scena con la “manifestazione delle carriole”. Manifestazione è appunto voce del verbo manifestare. Quando si manifesta, in genere, è una buona cosa. Significa, farsi vedere e far vedere, rendere pubblico, dare visibilità a ciò che è occultato o negato. Oggi manifesteranno altri assenti: finora occultati o negati. Lo sciopero degli immigrati è propriamente questo: è la manifestazione – fatta di molte manifestazioni – di un popolo che semplicemente non si vede. O che, peggio, si vede (viene visto) solo come un fattore di allarme sociale, e di angoscia collettiva. E che richiama immagini di invasione  o – in chi ha “un cuore grande così” – un sentimento di rimorso, che può avere effetti negativi non minori di quelli prodotti dalla paura sociale. Perciò è così importante, al di là del numero di quanti oggi vi parteciperanno, che il “primo marzo degli immigrati” abbia successo e dia vita ad altre giornate come questa. Ed è assai significativo che, a promuoverlo, siano state, tra gli altri, le comunità straniere: perché qui sta la sfida più ardua, che non si esaurisce certo in ventiquattro ore ma che, al contrario, da questo primo marzo può prendere le mosse. In gioco c’è, infatti, ciò che chiamiamo soggettività: l’identità individuale e collettiva, le biografie e le memorie, le culture e i vissuti e le aspettative. Gli immigrati sono da tempo nella società italiana, profondamente inseriti  nelle sue sfere di vita e nei suoi gangli economici: puliscono il culo dei nostri bambini e dei nostri vecchi e reggono settori come l’agroalimentare e l’allevamento, l’edilizia, la ristorazione, la siderurgia, la pesca e altri ancora. Sostengono  in misura rilevante il nostro sistema di welfare, surrogandolo attraverso il “lavoro di cura” e incrementandolo attraverso la contribuzione previdenziale. Sono lì, nelle case e negli uffici, nei mezzi di trasporto e nelle pizzerie, ma semplicemente non li vediamo. Ovvero non li “pensiamo”. Non è questione di buoni sentimenti e nemmeno di buone intenzioni. Fino a quando gli immigrati rimarranno una folla anonima e indistinta, senza nome e senza volto,  senza personalità e senza passato, ci appariranno molesti e minacciosi e la loro distanza da noi tenderà a crescere: e a renderci ancora più insicuri. Sapete perché in Italia non si è mai sviluppato un movimento come SoS Racisme in Francia? Molti i motivi, ma uno in particolare va considerato oggi. Lo slogan del movimento francese era: non toccare il mio amico. Ma in Italia quanti possono dire di avere -  e non in senso ideologico o  solidaristico - un amico immigrato?     
l'Unità del 1 marzo 2010
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