Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

Menù

 

"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

9 maggio 2011

 

Immigrati, il lavoro. Come nascono i luoghi comuni
Osservatorio Italia-razzismo 7 maggio 2011
Una ricercatrice austriaca, Nicole Schneeweis, sta conducendo uno studio sul ruolo di integrazione svolto dalle comunità etniche nei paesi di arrivo dei migranti. Il quesito di partenza riguarda la possibilità degli stranieri di raggiungere lo stesso livello economico e sociale degli austriaci. È nota l’importanza delle reti di connazionali nella fase iniziale del soggiorno in un paese sconosciuto. Poter fare affidamento su chi vive nel paese di arrivo da più tempo, significa avere dei vantaggi nella ricerca di una casa, di un impiego e la possibilità di accedere con maggiore facilità alle informazioni necessarie per la regolarizzazione. E fin qui la comunità di appartenenza offre solo vantaggi. Ma il quesito posto dalla ricerca è riferito alla fase successiva a quella dell’arrivo, in cui la partecipazione, spesso totalizzante, alle attività e ai meccanismi di appartenenza della propria comunità, possono diventare un grave limite. Un limite per ciò che concerne le scelte personali. Per esempio, si sente spesso che i tunisini sono dei bravi pescatori oppure che i bengalesi sono ottimi venditori ambulanti. Questi luoghi comuni hanno un fondamento di verità. Infatti se non si estendesse il giudizio all’intera popolazione di tunisini o di bengalesi, rimarrebbe il fatto che molti tunisini e molti bengalesi effettivamente svolgono quel mestiere, e lo svolgono bene. Ora difficile immaginare che nei paesi di origine esistono delle scuole ad hoc di formazione per quelle attività. È più facile pensare che questa scarsa differenziazione lavorativa, all’interno del gruppo di connazionali, rimandi proprio alla maggiore facilità di trovare un impiego in quegli ambiti lavorativi. E il limite sta proprio in questo (e non solo). E se un bengalese volesse fare il pescatore?

 

 

Barcone sugli scogli nella notte. Tutta Lampedusa impegnata nei soccorsi

Corriere della Sera 9 maggio 2011

Felice Cavallaro
Si morde le labbra il tenente Marco Persi. Per soffocare l’emozione nel ricordare la catena umana che nella notte più lunga di Lampedusa ha permesso di salvare 527 vite umane, comprese 24 donne incinte, compresi 12 bambini atterriti. Alcuni di pochi mesi appena. Lanciati in acqua e presi al volo o afferrati fra le onde da questo coraggioso finanziere e da altri militari, dagli angeli delle organizzazioni umanitarie, anche da una giornalista e dai volontari accorsi sulla frastagliata costa parallela alla pista dell’aeroporto, a due passi dal molo commerciale, l’ansa rocciosa di Cavallo Bianco dove, dieci minuti dopo le 4 del mattino, s’è incagliato l’ennesimo barcone arrivato dalla Libia. Tutti salvi. Epilogo felice di una tragedia evitata per la tenacia e l’altruismo di decine di uomini e donne pronti a rischiare la vita a due passi da quella che fu chiamata la collina della vergogna. Non si distinguevano le divise della Finanza, dei Guardacoste, dei Carabinieri, le mute nere dei sommozzatori, le pattine blu dell’Organizzazione per i rifugiati, quelle gialle di Save the Children, le tute della Croce rossa e dei Vigili del fuoco, tutti uguali, come tanti semplici cittadini. Tutti in fila, alcuni in acqua come il tenente della Finanza Davide Miserendino, tuffatosi 12 volte per aiutare somali, nigeriani, libici che annaspavano saltando nel buio dal barcone piegato su se stesso. Proprio lo stesso natante che Malta stava soccorrendo. E invece, come spesso capita, le motovedette maltesi avrebbero solo indicato la direzione Lampedusa. Di qui l’operazione aggancio con un mezzo della Finanza affiancatosi al barcone per consentire il salto di tre uomini. Tutto avveniva intorno alle 3, mentre a Lampedusa approdava un’altra motonave con 842 migranti giunti da Tripoli. Motonave gemella di quella affondata per sovraccarico venerdì davanti alle coste libiche con centinaia di dispersi. Uno scenario dell’orrore che ha convinto i finanzieri a pilotare con i propri uomini l’ultimo barcone di una notte senza fine. Ma quando erano a dieci metri dagli scogli, si è spezzata la catena del timone. Pochi attimi e la prua è finita sulle rocce, la chiglia incastrata nel fondale, la fiancata piegata, i 500 migranti spinti verso fuori, le mani aggrappate ai ferri, uomini, donne e bambini schiacciati gli uni sugli altri. Sono state le loro grida a richiamare chi li attendeva al molo. «Sentivamo le voci, ma non potevamo vedere nessuno e ci siamo arrampicati fra i sassi in cima, scoprendo il disastro di una barca dove tutti rischiavano di morire» , racconta l’inviata dell’Adnkronos, Elvira Terranova, il taccuino gettato via per soccorrere i primi bambini e restare incollata a Severin, il nigeriano di 4 mesi che s’è trovata fra le braccia, inzuppato, terrorizzato, subito coccolato, avvolto in una termocoperta, alla ricerca di genitori che non ha trovato per due ore: «Erano diversi i bimbi senza mamme, uno l’ha preso il tenente Miserendino, un altro il commissario Empoli, io stringevo quella creatura chiedendo ad ogni donna... Gli cantavo le canzoncine, lo accarezzavo, ma i suoi occhi interrogavano tristi. Poi, un grido. Era la madre che ringraziava Dio e mi abbracciava. E il piccolo è tornato a sorridere. Mentre io piangevo...» . E’ così che Madeline, approdata dal Camerun col marito nigeriano, ha riconquistato la felicità. Come tutti i suoi compagni di viaggio che vedono arrivare pescatori, casalinghe, ragazzi di ogni età per portare vestiti, cibo, giocattoli a un popolo che stende jeans e tuniche fra le aiuole. Come Loredana, la banconista del Bar Royal che corre col suo scooter blu per dare una mano, attorniata dai dieci bambini che chiedono di fare un giro. E un funzionario di polizia lascia fare, compiaciuto dal clima di festa, dopo l’inferno della notte. Anzi dal clima di solidarietà che riempie il cuore al maresciallo Angelo Mottola, un toscano di base a Palermo, che fa giocare Junior, 6 anni, da lui strappato alle onde fra gli scogli, le mani escoriate. E tutti a ringraziare. Come Juilet, una nigeriana che tiene stretta la sua Tracy, due anni, un velo di sconforto pensando al marito morto sotto i bombardamenti a Tripoli. È la storia dei due afgani che fanno domande senza risposta: «Perché bombardate Tripoli dove noi da anni lavoravamo e da dove adesso scappiamo?» . Non ha la risposta il tenente Persi tornando emozionato nel pomeriggio davanti a quel peschereccio inclinato. Una sola certezza: «È uno dei giorni più belli della nostra vita» . Anche per chi ha salvato. 
 
 
 
«Allarmi ignorati Morti in mare di fame e sete»
Corriere della Sera 9 maggio 2011
Michele Farina 
«Non ci era rimasto più niente — racconta Abu Kurke, 24 anni, che scappava da un conflitto etnico in Etiopia— niente cibo, niente acqua, niente carburante. Niente» . Un barcone di migranti nel Mediterraneo, 72 disperati alla deriva per sedici giorni. Partiti da Tripoli il 25 marzo, si sono salvati in 9. Gli altri non sono mai arrivati a destinazione: Lampedusa. Morti di fame e di sete e di stenti, a scaglioni, una manciata al giorno. Un barcone fantasma come tanti, anzi no: perché i 72 migranti di cui il quotidiano britannico The Guardian ha ricostruito la storia si son visti passare sotto gli occhi la salvezza. Prima un elicottero militare. Poi addirittura una portaerei. «A un certo punto, il 29 o il 30 marzo, siamo finiti a ridosso di una portaerei. Era così vicina che è impossibile che non ci abbiano visto» , raccontano i sopravvissuti. E prima ancora, un elicottero con la scritta «Army» era apparso sopra la barca in difficoltà. I piloti avevano divise militari. Hanno lanciato ai naufraghi bottiglie d’acqua e scatole di biscotti. Hanno fatto segno di aspettare: i soccorsi arriveranno presto. L’elicottero se n’è andato, non è arrivato più nessuno. E anche la portaerei della Nato — che il Guardian dopo una serie di controlli incrociati ha identificato nella francese Charles de Gaulle — non hamosso un dito, una scialuppa, niente. Possibile? Un mare affollato di unità navali Nato che operano «per proteggere i civili» in Libia. E che poi se ne infischiano di soccorrere dei disgraziati in mare, gente che muore nella loro scia? Sembra incredibile. Laura Boldrini dell’Unhcr (l’agenzia Onu per i rifugiati) ha detto al Corriere di non avere informazioni specifiche su questo incidente. Secondo i dati Onu tre barconi con un totale di 800 persone hanno fatto naufragio nelle ultime settimane. Uno in più, secondo la ricostruzione del Guardian: 60 morti fantasma, tra cui due bambini molto piccoli (uno aveva un anno). «Ci era rimasta una bottiglia d’acqua dell’elicottero — racconta ancora Abu Kurke—. L’abbiamo tenuta per i piccoli, quando i genitori sono morti. Ogni mattina ci svegliavamo con qualche cadavere in più. Lo tenevamo a bordo per qualche ora e poi lo buttavamo in acqua. Anche i bambini non ce l’hanno fatta» . Alla fine la barca naufraga sulle spiagge libiche vicino a Misurata. I 9 sopravvissuti vengono tenuti per 4 giorni dalla polizia di Gheddafi. Ora sono nascosti in una casa di Tripoli, pronti a riprovare la via del mare Il Guardian ha raccolto testimonianze e cercato conferme. Dopo 18 ore di navigazione cominciano i problemi. La barca perde carburante. A bordo 47 etiopi, 7 nigeriani, 7 eritrei, sei ghanesi e 5 sudanesi. Venti donne. Il capitano ghanese chiama al satellitare padre Moses Zerai, un sacerdote eritreo che dirige a Roma una ong per i diritti dei rifugiati, prima che il telefono si scarichi definitivamente. Padre Moses ha detto al Guardian: «C’è chi non si è assunto le proprie responsabilità e questo ha portato alla morte di 63 persone. Un crimine che non può restare impunito» . Secondo il giornale Padre Moses ha allertato la guardia costiera italiana, ricevendo l’assicurazione che l’allarme sarebbe stato lanciato e tutte le autorità competenti informate. È a questo punto che appare l’elicottero. Di quale nazionalità? Nessun Paese ammette di averlo mandato. Un elicottero fantasma per un barcone fantasma. Il Guardian riporta le parole di un portavoce (non identificato) della Guardia Costiera italiana: «Abbiamo avvertito Malta che la barca si stava dirigendo verso la loro zona di "recupero"e diffuso un messaggio di allerta alle varie unità navali: cercare il barcone con l’obbligo di tentare un salvataggio» . Le autorità maltesi dicono di non sapere nulla. Il messaggio di allerta rimane inascoltato, mentre il ghanese al timone del barcone fantasma decide di andare avanti con soli 20 litri di carburante: Lampedusa è vicina, ce la faremo senza aiuti. «Errore fatale» scrive Jack Shenker. L’Italia è lontana, il carburante finisce come l’acqua. E’ il 27 marzo. L’ultima possibilità di salvezza è un colpo di fortuna: una portaerei Nato. Era davvero la De Gaulle? Le autorità francesi hanno inizialmente negato che fosse in zona in quei giorni. Il Guardian ha mostrato notizie di agenzia che dimostravano il contrario. A quel punto un portavoce della Marina si è rifiutato di commentare. Per lui ha parlato un collega del comando Nato: «Nessuna delle nostre unità ha ricevuto una richiesta di aiuto da quel barcone. Salvare vite umane è una nostra priorità».
 
 
 
Il Quirinale elogia la prova d’accoglienza
Corriere della Sera 9maggio2011
Alessandra Arachi  
È sera tardi quando dal Colle del Quirinale viene diramata la dichiarazione. Il presidente Giorgio Napolitano ha seguito con viva partecipazione l’incredibile epopea dei naufraghi arrivati ieri a Lampedusa. E lo si percepisce dalle sue parole, dirette. Intense. Ha scritto il capo dello Stato: «Desidero esprimere sincera ammirazione per le forze dell’ordine e per i volontari che hanno salvato centinaia di profughi africani, uomini, donne e bambini, giunti in condizioni disperate nei pressi di Lampedusa» . Il presidente Napolitano ha saputo che lo sforzo per salvare i profughi è stato collettivo e, soprattutto, spontaneo, molti i cittadini comuni che si sono buttati in mare per improvvisate operazioni di salvataggio. Il capo dello Stato fa sapere di guardare con apprensione a questa nuova ondata di sbarchi, e rivolge un suo appello all’Europa: «In questi giorni partono dalla Libia imbarcazioni al pericolo del naufragio e della morte, per iniziativa di trafficanti criminali senza scrupoli e nella complicità di autorità irresponsabili. L’Italia sta dando prova di solidarietà e spirito di accoglienza; tocca all’Europa fare la sua parte e operare perché la Libia si dia un governo consapevole delle sue responsabilità» . Da Bruxelles è stata Cecilia Malmström, commissaria europea agli Affari interni, che ieri ha seguito la tragedia sfiorata nel mare di Lampedusa, ad intervenire. E in una nota ha voluto prendere l’impegno per garantire l’intervento concreto dell’Unione europea. Ha detto la Malmström: «Sto seguendo costantemente il deterioramento della situazione umanitaria in Libia. E i resoconti di uomini, donne e bambini dell’Africa subsahariana, costretti ad abbandonare il Paese dal regime di Gheddafi, sono particolarmente preoccupanti.» . P e r q u e s t o C e c i l i a Malmström ritiene che «ci sia bisogno di un’azione concertata per facilitare la rilocazione e l’insediamento dei nordafricani in cerca di protezione internazionale» . La commissaria europea garantisce che «l’Unione europea è pronta ad assicurare anche aiuto finanziario: ricordo che il prossimo 12 maggio la questione dell’immigrazione verrà affrontata in una riunione apposita con i ministri dei 27 Stati membri» . Cecilia Malmström ha voluto infine esprimere la sua «ammirazione» alle autorità italiane per il salvataggio degli oltre cinquecento rifugiati arrivati ieri a Lampedusa. 
 
 
 
E il Colonnello farà partire migliaia di profughi
Corriere della Sera 9maggio2011
Fiorenza Sarzanini 
Migliaia e migliaia di persone ammassate sulle spiagge e nei porti libici in attesa di essere caricate sui barconi e spedite in Italia. Disperati che arrivano dall’Eritrea, dalla Somalia, molti dal Ciad che riescono a partire anche senza pagare gli scafisti. Le informazioni che arrivano da Tripoli, assicurano che siano proprio i soldati fedeli a Gheddafi a gestire il traffico. L’esercito che per ordine del Colonnello consuma la vendetta contro il governo Berlusconi, accusato di «slealtà» per la scelta di partecipare alla Coalizione e impegnarsi anche nei bombardamenti. E dunque non c’è bisogno di versare neanche un dollaro o un euro per avere un posto a bordo perché l’obiettivo di chi smista i migranti è un altro. È stato lo stesso raìs ad indicarlo dopo l’annuncio fatto da Berlusconi che anche il nostro contingente avrebbe partecipato ai raid: «Vi porteremo la guerra in casa» . Una minaccia resa ancor più concreta dopo l’attacco contro la sua residenza e la morte del figlio Saif-al Arab, della moglie di quest’ultimo e dei loro bambini. Uno scenario che, come ricorda il ministro Roberto Maroni, «avevamo ampiamente previsto e giustificava la nostra contrarietà a partecipare a questa guerra» . Il patto stretto tra Viminale e Regioni nelle scorse settimane prevede l’accoglienza fino a 50 mila profughi. La regola rimane quella di 1.000 profughi per ogni milione di abitanti. Ma appare fin troppo facile prevedere che a questo ritmo la cifra possa essere raggiunta in tempi brevi. E allora bisognerà tornare a trattare, trovare nuove soluzioni per l’assistenza di questi stranieri perché, come ricorda lo stesso titolare dell’Interno, «stanno scappando proprio perché lì si continua a combattere e non possono essere in alcun modo rimpatriate» . Ci sono donne e bambini che hanno bisogno di un alloggio e di una sistemazione a lunga scadenza. E poi c’è soprattutto il problema delle vittime, di coloro che vengono imbarcati su mezzi di fortuna e affondano addirittura a poche miglia dalla costa. Stranieri trattati da Gheddafi come «scudi umani» in questa sua sfida contro l’Italia. Quando i numeri sono imponenti, come è accaduto sabato scorso, arriva notizia del naufragio. Ma il sospetto è che imbarcazioni più piccole spariscano senza che nessuno ne sappia nulla. Le ultime notizie ottenute attraverso i canali diplomatici e di intelligence parlano di almeno 500 mila stranieri tuttora presenti in Libia e determinati ad abbandonare il Paese. La maggior parte starebbe cercando di rientrare nelle proprie terre d’origine, sia pur sapendo di andare incontro a un futuro di stenti. Moltissimi altri vorrebbero tentare invece la traversata del Mediterraneo per raggiungere Lampedusa. Ed è su questo che l’esercito farebbe leva per convincerli a utilizzare pescherecci in pessime condizioni, talvolta addirittura senza che ci sia uno scafista alla guida. Mezzi di fortuna affidati a uno degli uomini che si trovano tra i gruppi di disperati accampati sulle spiagge e che non è neppure in grado di seguire la rotta. Una situazione che preoccupa i responsabili del Dipartimento Immigrazione guidato dal prefetto Rodolfo Ronconi e convince Maroni sulla necessità di tornare a bussare alla porta dell’Europa. Il ministro sarà giovedì a Bruxelles e chiederà nuovamente che ci sia una partecipazione dell’Unione alla gestione di questa emergenza. L’incubo di queste ore riporta indietro a oltre un mese fa quando l’isola era invasa e le Regioni — ma anche i Comuni — — facevano muro rispetto all’accoglienza. «Adesso— dichiara Maroni— il trattato con la Tunisia funziona e il flusso da quel Paese sembra essersi arrestato» . Al Viminale sperano che le autorità di Tunisi mantengano gli impegni ma sul resto non si fanno illusioni. E la posizione di Maroni è netta: «Se la guerra non finirà in fretta, rischiamo un’invasione» . 
 
 
 
«Migranti usati senza scrupoli dal regime del rais»
Intervista a Laura Boldrini
l'Unità 9 maggio 2011
Questi ultimi, drammatici sviluppi stanno trasformando il Mediterraneo in una sorta di gigantesca roulette russa, dove i migranti non hanno più scelta, e per cercare di mettersi in salvo dalla guerra in Libia, devono accettare qualsiasi condizione, anche salire a bordo di imbarcazioni da rottamare». A lanciare l'allarme è Laura Boldrini, portavoce in Italia dell'Alto commissariato dell'Orni per i rifugiati (Unhcr).
Imbarcazioni calano a picco con il loro carico di esseri umani, altre sono soccorse in extremis. Cosa c'è alla base di questa situazione sempre più drammatica nel Mediterraneo? «È chiaro che le persone vogliono fuggire dalla guerra e dalla violenza che segnano la Libia. Chi può fugge via terra e raggiunge i confini con la Tunisia, l'Egitto, il Niger: oltre 720mila persone hanno lasciato la Libia per riversarsi nei Paesi confinanti. Altri fuggono via mare, anche se finora quelli che hanno attraversato il Mediterraneo sono una piccola minoranza, non più di diecimila persone. Il problema è che chi organizza i viaggi, sfrutta il bisogno di queste persone e non si fa scrupoli, fornendo loro vecchi e fatiscenti legni, non adatti alla traversata». In questa "guerra dei barconi" che ruolo ha Muammar Gheddafi? «Gheddafi ha più volte minacciato l'Europa, paventando massicci arrivi di migranti e quanto sta accadendo sembra in linea con quanto da lui annunciato. Quello che preoccupa maggiormente è il fatto che la vita di queste persone non venga tenuta minimamente in considerazione. Da un lato c'è il bisogno delle persone di mettersi in salvo, persone che sentono di non avere più nulla da perdere; dall'altro lato siamo alle prese con un'organizzazione del flusso nelle mani di chi non viene più ostacolato dalle autorità. L'ennesimo incidente in mare conferma come il regime libico sta usando i profughi senza scrupoli».
C'è poi il problema dell'omissione colpevole dei soccorsi... «La prima barca arrivata nella notte a Lampedusa, era partita dalla Libia dopo quella che ha fatto naufragio con 600 persone a bordo a pochi metri dalla costa libica. I colleghi dell'Unhcr hanno raccolto testimo-nianze di persone che dicono di aver visto quella imbarcazione spezzarsi e capovolgersi. I morti sarebbero decine, tra cui alcuni neonati».
Cosa fare?
«Bisognerebbe impedire che queste persone vengano mandate allo sbaraglio in carrette in disuso: impedire questo gioco al massacro già in Libia, perché non si può accettare l'idea che per mettersi in salvo dalla guerra e dalla violenza, bisogna mettere in conto di morire in mare. L'altro punto cruciale, è far sì che vi sia un maggiore coordinamento tra tutti i mezzi navali, sia commerciali che militari, che operano nel Mediterraneo, allo scopo di salvare vite umane. Una imbarcazione stipata di persone è di per sé una imbarcazione da soccorrere, perché in ogni momento potrebbe accadere una tragedia, tanto più alla luce di questi ultimi, drammatici sviluppi».
Cosa chiede l'Unhcr al governo italiano? «Innanzitutto vorrei ringraziare gli uomini della Guardia di Finanzia e della Guardia costiera che anche ieri sera hanno evitato una tragedia non esitando a mettere a repentaglio la loro stessa vita per salvare i naufraghi. È importante continuare nell'accoglienza, come è avvenuto in questi mesi, tanto più che oggi la maggior parte delle persone che arrivano in Italia provengono dalla Libia. Non si può pensare di fare un intervento militare senza poi farsi carico delle con¬seguenze umanitarie. Un discorso che non vale solo per l'Italia»
 
 
 
L'appello del Papa da Venezia «Niente paura degli stranieri»
il Messaggero 9 maggio 2011
Alvise Fontanella
A colpire, è il silenzio. Non è la prima volta che centinaia di migliaia di persone, nel Parco di San Giuliano -700 ettari di verde sul limitare della Laguna, i campanili di Venezia all'orizzonte - si stringono intorno ad un palco: qui ogni principio d'estate si tiene l'Heineken, uno dei maggiori rock festival d'Europa. Ma ora, intorno alla struttura alta 30 metri che riecheggia i mosaici d'oro della basilica di San Marco, dodici immensi settori sono disposti a ventaglio, distesi sulla collina. Le note del canto d'attesa si spengono, ed ecco, l'impressionante silenzio di trecentomila persone riempie l'aria. Una marea immensa di cappellini bianchi e gialli - i colori vaticani - riempie lo spazio intorno, c'è aria di gioia e di festa, ma non un applauso, non grida, non slogan rumorosi: solo compostezza, partecipazione, raccoglimento. I trecento mila sono qui a Mestre per pregare.
A porgere il saluto al Papa è naturalmente Angelo Scola, il Patriarca di Venezia, molto attento a rappresentare tutte le diverse sensibilità, tanto da correggere a braccio il testo preparato. Il Papa nell'omelia addita ai fedeli tre figure esemplari nate dalle terre della Serenissima: due papi, il trevigiano san Pio X e il bergamasco Giovanni XXIII, e poi il trevigiano Giuseppe Toniolo, rifondatore dell'Azione Cattolica, artefice del reinserimento dei cattolici nella vita politica italiana, «la cui beatificazione è ormai prossima». Al benestante Triveneto; il Papa insegna che non le industrie, non il denaro, ma «questi luminosi testimoni del Vangelo sono la più grande ricchezza del vostro territorio». «Seguite i loro esempi e i loro insegnamenti - raccomanda il successore di Pietro - coniugandoli con le esigenze attuali».
Ma il messaggio del Papa, ai veneti di oggi, è centrato sull'accoglienza e sull'integrazione degli immigrati. Nelle sue parole, riecheggia il «Non abbiate pau¬ra», il commovente grido che tutti ricordiamo di Papa Wojtyla. «Abbiate fiducia» scandisce Papa Ratzinger con voce forte e commossa: la stessa civiltà del¬la Venetia è nata dall'incontro tra popoli e culture diverse. «Nei secoli passati - ricorda Benedetto XVI - le vostre Chiese hanno conosciuto una ricca tradizione di santità e di generoso servizio ai fratelli. Attorno ad Aquileja si ritrovarono uniti popoli di lingue e culture diverse, fatti convergere non solo da esigenze politiche ma soprattutto dalla fede in Cristo e dalla Civiltà dell'Amore ispirata dall'insegnamento evangelico. Le Chiese generate da Aquileja sono chiamate oggi a rinsaldare quell'antica unità spirituale, in particolare alla luce del fenomeno dell'immigrazione e delle nuove circostanze geopolitiche in atto». A quelle stesse «circostanze geopolitiche» guarda una preghiera dei fedeli non prevista inizialmente, ma inserita all'ultimo momento: «Per la pace dei popoli del Nordafrica». Al rito della Consacrazione, il Papa pronuncia con un fil di voce, lentamente, le solenni parole latine del rito, quasi Un colloquio tra lui e il Signore che si fa pane per tutti. Intorno, trecentomila persone e non si sente un respiro. Poi centinaia di ombrelli bianchi accompagnano le centinaia di diaconi con le ostie consacrate.
Nel pomeriggio il giro in gondola a Venezia. Le campane a festa e il saluto di migliaia di persone dietro le transenne hanno accompagnato il tragitto con la speciale Papamobile di Papa Benedetto XVI dalla Basilica di San Marco al molo dove lo attendeva la dogaressa, la grande gondola bianca che fu dei Dogi condotta da quattro campioni del remo. L'imbarcazione, seguita da un corteo di otto gondole, ha attraversato il Bacino e portato il Pontefice alla Basilica della Salute, dove è in programma l'incontro con il mondo della cultura e dell'economia.
 
 
 
Violenta perquisizione al cara di Salinagrande
FortressEurope 9 maggio 2011
Gabriele Del Grande 
Spogliati, perquisiti e costretti a restare seduti sotto la pioggia per alcune ore. Con tanto di manganellate per chi non era d'accordo. I protagonisti del maltrattamento da parte delle forze dell'ordine sono i tunisini ospitati nel centro di accoglienza per richiedenti asilo politico (Cara) di Salinagrande, in provincia di Trapani. I fatti risalgono allo scorso 25 aprile. All'origine della perquisizione ci sarebbe stata una rissa scoppiata la sera prima tra due tunisini. L'indomani mattina agenti delle forze dell'ordine avrebbero fatto irruzione nelle camerate alle sei del mattino, buttando giù dal letto i tunisini ospitati nella struttura, una cinquantina, e scortandoli nel cortile, dove - secondo diverse testimonianze raccolte - sarebbero stati fatti spogliare, perquisiti e quindi costretti a rimanere a terra per alcune ore, mentre altri agenti perquisivano le camerate. Diversi testimoni oculari hanno raccontato di un agente che avrebbe strappato un Corano. Un altro ragazzo tunisino sostiene inoltre che durante la perquisizione gli siano spariti dei soldi che aveva lasciato nella camerata. A denunciare l'accaduto è un gruppo di tunisini ospiti del centro in attesa dei loro permessi di temporanei di soggiorno per motivi umanitari, che ho incontrato oggi 8 maggio nei pressi del Cara.
 
 
 
 
Petizione al Ministero dell’Interno del Governo Italiano per la chiusura del Centro di Identificazione ed Espulsione di S. Maria Capua Vetere (CE)
Il sopralluogo nella caserma dismessa Ezio Andolfato del CIE di S. Maria Capua Vetere, avvenuto lunedì 2 maggio al seguito di due senatori, ci ha permesso di constatare le condizioni igienico-sanitarie in cui si trovano le 102 persone di nazionalità tunisina lì recluse in seguito alle disposizioni governative per affrontare l’emergenza dei profughi del Nord Africa. Usiamo il termine reclusione pur sapendo che queste persone vivono in una situazione peggiore di quella della media carceraria italiana: in 10-12 nella stessa tenda, su materassi senza brandine, controllati a vista da polizia e carabinieri, circondati da una doppia rete di recinzione, costretti a chiedere il permesso per utilizzare i bagni, ospitati all’interno di una struttura militare dismessa e quindi logisticamente non adeguata. In attesa di una valutazione del diritto ad una forma di protezione umanitaria, queste 102 persone sono costrette nel CIE illecitamente, tra forzature burocratiche ed abusi, in condizioni igienico-sanitarie degradanti. Mentre gli addetti della Croce Rossa e i funzionari delle forze dell’ordine sanno di essere lì per gestire l’assurdo, la condizione di queste 102 persone viola ogni tipo di diritto e offende il principio democratico su cui è fondata la nostra Repubblica. In seguito ai recenti cambiamenti geopolitici del sud del Mediterraneo, l’attuale governo italiano ha delegato ad una politica esclusivamente d’immagine la questione dell’aumento dei flussi migratori da quell’area, puntando su roboanti misure segregazioniste verso i profughi di regimi che fino a ieri si reggevano sul consenso di paesi più ricchi come la stessa Italia. Presumendone la pericolosità sociale e non riconoscendo a questi migranti  lo status di profughi, il Ministero dell’Interno ha delegato la gestione dell’emergenza umanitaria a tecnici e forze dell’ordine, esponendoli a performance spesso grottesche, senza il supporto di un’adeguata visione politica per affrontare le mutate condizioni che stanno interessando l’area del sud del Mediterraneo.
Le 102 persone recluse nel CIE di S. Maria Capua Vetere, come quelle degli altri centri analoghi sparsi sul territorio, vivono la contraddizione di un’incapacità politica, pagata con la violazione di diritti umani e civili e l’umiliazione del corpo della Croce Rossa e di quelli di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza costretti a coprire, anche con il ricorso ad abusi documentati, l’incapacità degli organi centrali del Governo.
 Per queste ragioni noi chiediamo ad artisti, intellettuali e personaggi pubblici capaci di attirare l’attenzione su questa vergognosa situazione, di sottoscrivere la presente petizione al Ministero dell’Interno del Governo Italiano per :
L’immediata chiusura del Centro di Identificazione ed Espulsione di S. Maria Capua Vetere al fine di riservare un trattamento democratico delle persone lì senza motivo detenute e cessare l’umiliante situazione che, lungi dall’affrontare l’emergenza attuale, sta soltando creando un assurdo meccanismo di uomini trasformati in bestie e in aguzzini.
La valutazione equa, condotta caso per caso da parte degli organi incaricati, del riconoscimento di protezione umanitaria per le 102 persone recluse con un’illecita procedura che viola l’articolo 13 della Costituzione.
Chiediamo inoltre che la stessa disposizione di chiusura venga estesa agli altri Centri di Identificazione ed Espulsione in cui i profughi della recente emergenza del Nord Africa sono reclusi senza le necessarie condizioni igieniche e sanitarie e senza il rispetto delle procedure previste dalla legge.
 
Promotori
Maurizio Braucci, Goffredo Fofi, Alessandro Leogrande, Roberto Saviano
http://www.firmiamo.it/liberimigranti
 
Share/Save/Bookmark
 


 

Perchè Italia-Razzismo 


SPORTELLO LEGALE PER RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO

 

 


 

SOS diritti.
Sportello legale a cura dell'Arci.

Ospiteremo qui, ogni settimana, casi, vertenze, questioni ancora aperte o che hanno trovato una soluzione. Chiunque volesse porre quesiti su singole situazioni o tematiche generali, relative alle norme e alle politiche in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza nonché all'accesso al sistema di welfare locale da parte di stranieri, può farlo scrivendo a: immigrazione@arci.it o telefonando al numero verde 800905570
leggi tutto>

Mappamondo
>Parole
>Numeri

Microfono,
la notizia che non c'è.

leggi tutto>

Nero lavoro nero.
leggi tutto>

Leggi razziali.
leggi tutto>

Extra-
comunicare

leggi tutto>

All'ultimo
stadio

leggi tutto>

L'ombelico-
del mondo

Contatti


Links