Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

03 dicembre 2013

Il clandestino cinese che ha sconfitto l’omertà
Corriere.it, 03-12-2013
Marco Gasperetti
La prima parola, le labbra che tremano, la gola secca per la tensione. Minuti di pausa e sudore. Poi Yan il clandestino ha iniziato a parlare. Si è alzato dalla sedia e in cinese al traduttore ha raccontato quei giorni terribili di sfruttamento nella fabbrica fantasma gestita da un gruppo di  connazionali: diciotto ore al giorno di lavoro in nero, dal lunedì alla domenica, dalle 7 del mattino sino alle 1 di notte. E poi sei ore di sonno in luridi giacigli, sempre nel laboratorio prigione. E’ stato il primo a rompere il muro di omertà e di reticenza che affligge la comunità cinese di Prato. Adesso vive al nord sotto protezione. Domani, mercoledì 4 dicembre, il tribunale di Prato pronuncerà la sentenza contro i suoi presunti sfruttatori. Il pm ha chiesto 1 anno e 7 mesi di condanna per sequestro di persona e sfruttamento della manodopera clandestina.
Si è pure infortunato, Yan (nome di fantasia per sfuggire a possibili ritorsioni), quando è stato costretto a recuperare materiale dalla pressa bollente e il macchinario gli ha schiacciato la mano. I suoi compagni, di notte, l’hanno lasciato davanti al pronto soccorso e i medici l’hanno salvato per miracolo e poi trasferito al centro grande ustionati di Pisa. Ed è stata la sua salvezza perché quella terribile avventura gli ha dato la forza, per la prima volta nella storia della tormentata immigrazione della città toscana, di presentarsi all’Ufficio immigrazione del Comune di Prato e nonostante fosse un «lavoratore invisibile» denunciare lo sfruttamento e rompere quel muro di omertà che da anni rende impenetrabile la Chinatown di Prato, oltre 30 mila cinesi ufficiali almeno altri 20 mila clandestini, e un business in nero da miliardi di euro. Lo hanno isolato, scomunicato, minacciato. Ma Yan si è fidato di un italiano, Giorgio Silli, l’assessore all’Integrazione, non si è fermato e adesso è in salvo. Grazie al lavoro dei servizi sociali del Comune, della questura e della procura di Prato, vive in un’altra città. E’ stato inserito in un programma «anti-tratta» che cerca di combattere la schiavitù del lavoro nero e ha vinto la sua battaglia. Ha un lavoro e come prevede la legge ha ottenuto un regolare permesso di soggiorno.
Yan è arrivato grazie a un’organizzazione clandestina gestita dalla mafia. «Mi avevano detto che se avessi avuto forza, coraggio e fossi stato ubbidiente – ha raccontato – avrei potuto cambiare la mia vita e quella dei miei familiari». Invece sono arrivate le catene, le minacce e la paura d’essere entrato in un labirinto senza uscita. «Non sapevo neppure una parola in italiano, non conoscevo nessuno, come potevo denunciare e a chi?», ha più volte ripetuto ai suoi salvatori. Due anni è durato il martirio. «Lavoravo 18 ore al giorno – racconta – e mi pagavano 1,40 euro l’ora, ma non potevo avere sconti sull’orario e neppure mezza giornata di festa.  Sveglia alle 7, al letto alle 1 di notte. Un mese riuscivo a guadagnare anche 800 euro al mese, ma era il padrone a decidere quanto dovevo mettermi in tasca, il resto erano sequestrati, tanto per non farmi scappare».
L’operaio lavorava a una pressa a caldo per etichette. «Per avere lo stipendio ne dovevo stampare centomila al giorno – continua – e questo voleva dire non staccarsi dalla pressa. Solo per andare nel bagno, pochi minuti. E si beveva poco, anche d’estate, per cercare di fare meno pipì. Eravamo chiusi a chiave in fabbrica, per uscire serviva il permesso, anche di notte». Le macchine erano vecchie e pericolose. «Lo avevo detto più volte a uno dei padroni – racconta – inascoltato. Poi l’incidente».
Una giorno la pressa a caldo si è bloccata, c’era del materiale dentro. «Il padrone mi ha detto di toglierlo a mani nude. L’ho fatto ma la macchina si è riattivata spappolandomi e ustionandomi la mano destra. Mi hanno accompagnato al pronto soccorso costringendomi a raccontare che ero stato vittima di un incidente d’auto. Mi hanno trasferito al centro grandi ustionati di Pisa. “Non ti azzardare a fare denuncia in questura perché noi abbiamo amici anche lì”, mi gridarono. Sono rimasto senza lavoro,  dormivo in strada. Sono andato dalla polizia e ho presentato denuncia».

 

Cologna: «Colpa del sistema Italia Fare autocritica»
Avvenire, 03-12-2013
Lucia Bellaspiga
?Capannoni dormitorio infestati da topi, dove decine di persone dormono, mangiano e lavorano 24 ore al giorno, in mezzo a rifiuti, cibo, escrementi. Questa la ditta di confezioni tessili andata a fuoco a Prato, cittadina che conta 4mila aziende cinesi del settore. Daniele Cologna, ricercatore di cinese all’Università dell’Insubria e tra i fondatori dell’agenzia di ricerca sociale "Codici", conosce come pochi altri l’immigrazione cinese.
Ma le leggi che regolano la sicurezza nei luoghi di lavoro e a volte spacca il capello in quattro, non è uguale per tutti?
Bella domanda. In realtà anche molte manifatture italiane non sono in regola, specie se poggiano sul lavoro degli immigrati. Chiediamoci: come mai dei cinesi di Prato si parla sempre molto, anche prima del rogo di sabato? Da quando il comparto moda è passato nelle mani di imprenditori cinesi, che non lavorano più in conto terzi come prima, di colpo ci siamo accorti delle loro condizioni disumane, ma questo è cinismo: la situazione lì era drammatica già 25 anni fa, eppure si tollerava tutto, perché era la base su cui poggiavano settori sofferenti della nostra manifattura... Topi e vermi non sono una novità, tant’è che molti cinesi sono scappati a gambe levate dalla manifattura, che infatti oggi copre solo il 30% delle aziende con titolare cinese, mentre il resto sono servizi (parrucchieri, bar, edicole...). Il vero problema è che in Italia il comparto della manifattura così com’è non può reggere, per essere minimamente lucrativo aggira le regole.
Anche per gli italiani, allora?
L’artigianato italiano che sta alle regole chiude, lo vediamo tutti i giorni. Oppure trova qualcuno su cui rivalersi, cioè gli immigrati, non solo cinesi: ad esempio i bangladeshi sfruttati in Veneto per la concia delle pelli, o gli africani in Puglia. La stranezza, insomma, è di Prato, non dei cinesi: il "sistema Prato" ha creato il fenomeno e facilitato il suo radicarsi. In una cittadina così piccola sarebbe facilissimo fare ricerche serie e produrre dati attendibili sul caso, eppure non si fa nulla, perché a qualcuno darebbe fastidio e non certo ai cinesi.
A chi? Siamo espliciti.
A chi ha convenienze inconfessate. È curioso che Prato dichiari la presenza di 40mila cinesi quando nessuno ha mai approfondito. È curioso anche che ora, a tragedia avvenuta, Comune e Regione si indignino e gridino allo scandalo: non sono loro ad amministrare? Il fenomeno non si estirpa a colpi di blitz ma studiandolo seriamente: il "pronto moda" a Prato non esisteva, è stato inventato dai cinesi (e dà lavoro soprattutto a loro, però non solo), ma se si è sviluppato proprio qui è per connivenze locali.
E ha messo in crisi il tessile preesistente?
Il tessile pratese era già in crisi. Semmai la concorrenza viene dalla Cina, non dai cinesi di Prato che invece tengono botta lesinando sui diritti dei loro lavoratori. E su questo davvero non si deve transigere.
Si è parlato di schiavitù...
Il sistema schiavizzante siamo tutti noi, dall’italiano che affitta loro capannoni a prezzi alti e può farlo proprio perché lavorano 19 o 20 ore al giorno, e lui lo sa, a chi compra le loro magliette a un euro per lo stesso motivo.
Si parla anche di "fabbriche clandestine"...
No, sono imprese registrate, le carte bollate ci sono, magari hanno ricevuto qualche multa e l’hanno pure pagata: il fatto è che sono anche loro parte integrante di come stiamo vivendo in Italia. Proprio come le nostre imprese autoctone, stanno alle regole "all’italiana", "più o meno": una stortura talmente connaturata al settore manifatturiero che nei loro bar o parrucchieri tutto questo sparisce.
Perché questa voragine nel manifatturiero?
Colpa nostra. Negli anni ’80 la manodopera immigrata è diventata importante, vedi l’edilizia e i tanti cantieri non a norma, le morti bianche di stranieri... È un vero miracolo che incidenti come quello di Prato non siano quotidiani.



Così muoiono i nuovi schiavi
«Come ad Auschwitz», accusa il presidente della Regione Rossi. «Una tragedia annunciata» dice il procuratore. La situazione era nota, ma tutti tacevano
A 36 ore dal rogo non è ancora chiaro chi siano i gestori cinesi della ditta «Teresa Moda», specializzata nell'esportazione di capi italiani a basso costo
il manifesto, 03-12-2013
Riccardo Chiari
PRATO. Tutte chiuse. «Per ferie». I padroni delle fabbriche-materasso del Macrolotto hanno capito subito l'aria che tira. Ancor più insostenibile, per loro, del puzzo di bruciato e di morte che si respira in via Toscana, dove i vigili del fuoco hanno continuato a lavorare per l'intera giornata cercando di bonificare il capannone andato a fuoco all'alba di domenica. A far capire la situazione valgono le parole del procuratore Piero Tony, che spiega come dopo 36 ore non sia ancora chiaro chi siano i gestori cinesi della ditta «Teresa Moda», dove sette operai cinesi sono bruciati vivi e altri due lottano fra la vita e la morte all'ospedale di Prato.
La strage che lo stesso magistrato considera annunciata («è successo quello che era prevedibile o comunque era da temere») è stata provocata con ogni probabilità da una stufetta elettrica andata in corto circuito. Tanto è bastato, secondo i pompieri, per trasformare in un enorme rogo il capannone, al cui interno lungo una parete erano stati costruiti veri e propri «loculi» sopraelevati, realizzati in cartongesso per dividere i diversi ambienti. Qui dormivano gli operai della ditta, specializzata nel pronto moda. La lavorazione non avveniva con macchine tessili ma utilizzava tessuti sintetici e cellophane per confezionare gli abiti, tutti materiali che hanno subito alimentato le fiamme.
Al Macrolotto, zona industriale della città costruita negli anni '80 con ampie strade per il passaggio dei tir e una sufficiente urbanizzazione, si snoda tutto il sistema industriale del pronto moda, che alimenta il mercato dell'abbigliamento europeo. Si tratta di un metodo di produzione dei vestiti che si basa sulla velocità di realizzazione dei capi - il just in time - e sulla loro quantità. Così si abbattono i prezzi dei capi, con il marchio Made in Italy anche quando le stoffe arrivano dall'Asia, venduti a grossisti di ogni paese d'Europa, con un incessante, quotidiano passaggio di autoarticolati.
Nel corso dei controlli, intensificati solo negli ultimi anni, è emerso come spesso, all'interno dello stesso capannone, ci sia un numero di ditte maggiore dell'unità immobiliare che le contiene: più aziende condividono uno stabile, oltre che macchinari e parte della mano d'opera. Quanto agli operai, di quelli controllati nel 2013 più del 25% è risultato senza o con i documenti non in regola. La percentuale delle irregolarità è salita a dismisura sul fronte degli abusi edilizi, igienici e di sicurezza dei capannoni, più della metà non era in regola.
Di fronte alle domande su un presunto lassismo nei controlli, il procuratore Tony segnala: «In un'area in cui la densità di imprenditoria straniera è la prima in Italia, la procura e le forze dell'ordine hanno compiuto in quattro anni 600 sequestri di capannoni. Pur nella penuria di organici, i controlli hanno riguardato 1.400 strutture». Ma nel labirinto delle ditte del Macrolotto, è come vuotare un lago con un secchiello: i dati della Camera di Commercio registrano quasi 5mila aziende gestite da cinesi a Prato, di cui almeno il 70% nel settore dell'abbigliamento, e la metà di queste è insediata proprio nella zona industriale, di cui via Toscana è uno dei centri nevralgici.
«Siamo in presenza del più grande distretto tessile sommerso - spiega Enrico Rossi - che si basa sullo sfruttamento di decine di migliaia di lavoratori, ridotti in schiavitù, che lavorano a un euro l'ora». Il presidente toscano chiede l'intervento del ministro Alfano e del premier Letta: «Il problema di questa enclave deve essere affrontato in chiave nazionale: il governo cinese deve essere chiamato in causa sia per costruire accordi in materia di lotta alla criminalità, che per contrastare e concertare la concessione dei visti in uscita dalla Cina, eliminando il più possibile la clandestinità. Poi la presenza dello Stato deve essere rafforzata, e occorrono interventi legislativi per esercitare un più rigoroso controllo sugli affitti e sulle cessioni». Intanto gli risponde il presidente Napolitano con una drammatica lettera al governatore della Regione Toscana in cui chiede di «mettere un freno a lavoro in nero e sfruttamento». Perché quanto fatto fino ad oggi non è servito a niente: «È un anno che parliamo con le persone indicate dalle autorità cinesi per cercare una soluzione - attacca il sindaco pratese Roberto Cenni - ma siamo a zero, solo chiacchiere».



Quelle imprese invisibili
IL DOSSIER | Un’economia parallela di cui si avvalgono anche le griffe italiane. Nessuno fa domande e per i diritti in quelle fabbriche si è tornati indietro di secoli.
l'Unità, 03-12-2013
Jolanda Bufalini
Tutti sanno ma nessuno vede, in Sicilia si chiamerebbe mafia, nei distretti campani del tessile, che Roberto Saviano ci ha fatto conoscere, si chiamerebbe camorra, a Barletta - dove morirono bruciate cinque ragazze - si chiama miseria. A Dhaka - dove morirono a migliaia nel crollo di una fabbrica di otto piani - si chiama fame, sfruttata dalle grandi griffe italiane ed europee. Ovunque è assenza di tutela del lavoro, sfruttamento, speculazione, delocalizzazione in casa nostra. E qui siamo nel triangolo delle confezioni fra Prato, Firenze e Pistoia, a 10 minuti di auto dalla cupola del Brunelleschi. «Abbiamo la schiavitù in casa», dice accorato Massimiliano Brezzo, segretario della Filctem-Cgil di Prato, «e lo Stato gira la testa dall’altra parte».
I furgoni entrano e escono da Prato, portano pezze, ritirano confezioni, nessuno li controlla. Dove vanno? In Italia, in Europa, una volta uscite non si sa da dove siano venute. Confezioni a basso prezzo che sfidano la crisi. Una attività silenziosa, parallela, che non disturba l’economia regolare, i pratesi producono tessuti di eccellenza, i cinesi confezionano capi di scarsa qualità.
E la manodopera è formata da schiavi, lavorano e dormono in un freddo capannone: il cartongesso che separa il dormitorio, la stufetta vicino ai filati sintetici, la bombola del gas per accendere i fornelli e cucinare. Il lavorante è in soggezione: la figura del padrone, il laoban (l’imprenditore) è un miraggio per il proprio futuro, da schiavo potresti diventare a tua volta imprenditore, ma intanto devi pagare i soldi che ti sono stati anticipati per il viaggio. Sei in Italia ma è come se fossi nella peggiore delle fabbriche delle zone franche cinesi, nessuno può liberarti, perché sei un clandestino, dietro l’angolo del capannone non c’è la libertà ma il foglio di via.
La ditta, non è un fantasma, è regolarmente iscritta alla Camera di commercio. Spiega Marcello Gozzi, direttore di Confindustria a Prato, che «una delle caratteristiche delle imprese cinesi è l’estrema mobilità, della ditta e della manodopera». Da Carpi a Prato, da Prato a Milano, da Milano a Roma. L’ impresa artigiana individuale che è andata a fuoco ieri mattina, aveva denunciato, nei primi sei mesi dell’anno, quattro dipendenti. Però, al momento dell’incendio, nel capannone dormivano almeno 10 persone. Se si lavora 12 ore al giorno e il contratto è part time, se la busta paga è regolare ma nessuno controlla quanto ti viene effettivamente in tasca, questo sembra non interessare a nessuno.
A Prato, alle scorse elezioni, ha vinto, per una manciata di voti e per la prima volta nella sua storia, il centrodestra. Una vittoria in cui è stata determinante la presenza cinese sul territorio. Non per la concorrenza, quella cinese e quella autoctona sono due economie che non si toccano. Per il fastidio, per la xenofobia, la paura dello straniero, la crisi d’identità. È arrivato un assessore sceriffo, Aldo Milone, ex poliziotto, ex Ucigos, ex servizi segreti.
La città è pattugliata come non lo era mai stata ma nel macrolotto dei cinesi la vita - se questa è vita - continua come prima. Il malessere di allora, le accuse alla sinistra di essere troppo tolleranti, hanno portato all’espolsione dell’illegalità di oggi, ai lager dove si dorme, si mangia e si lavora. Ci sono i sequestri ma dissequestrare una macchina da cucire costa un centinaio di euro. Massimiliano Brezzo spiega: «Il sindacalista non può entrare in fabbrica, su un terreno privato, senza autorizzazione, ci vuole lo Stato e non gli sceriffi». Se la guardia di finanza controllasse quei furgoni, «se si misurasse il consumo di elettricità, si avrebbe un quadro più chiaro di questo mondo sommerso». Soprattutto: «Lo Stato dovrebbe dare la possibilità al lavoro nero di emergere e questo non succederà mai con la paura di un foglio di via che rispedisce indietro l’immigrato». E Marcello Gozzi, direttore di Confindustria pratese: «La repressione non basta, c’è un’economia parallela che viaggia al di fuori delle leggi». Aggiunge Gozzi che ci sono anche imprenditori cinesi che rispettano la legalità e sono iscritti a Confindustria, «sono quelli che hanno un forte senso di radicamento nel territorio e sperano in una progressiva integrazione».
Spiega Valeria Fedeli, che oggi è vicepresidente del Senato ma è stata per molti anni segretario generale del sindacato dei tessili: «È un episodio di gravità inaudita. Negli ultimi anni siamo ripiombati indietro di secoli, è stato un errore accettare una delocalizzazione in loco di produzioni con basso valore aggiunto, ha significato incrementare questa realtà sotterranea». Fra il 2004 e il 2005, ricorda, si era fatto un lavoro importante, istituzioni, imprese e sindacati insieme. Ci si scontra con delle difficoltà, «perché la comunità cinese è chiusa e perché i controlli non sono organizzati» ma ci sarebbero gli strumenti: «Per esempio la tracciabilità, in Europa circolano legalmente merci senza etichettatura».



Calabria, soccorso il barcone con 121 migranti
Avvenire, 03-12-2013
Sono tutti salvi i 121 migranti, tra cui decine di donne e bambini, che da ieri erano a bordo di un barcone in avaria al largo di Crotone. Le operazioni di salvataggio sono state condotte dagli uomini della guardia costiera e della marina militare, che hanno trasportato gli oltre cento "disperati", presumibilmente di nazionalità siriana, al porto di Roccella Ionica.
Dalle prime notizie diffuse dalla prefettura di Reggio Calabria, le condizioni di salute dei migranti sono buone nonostante le tante ore vissute in condizioni di estremo disagio e di terrore sul peschereccio che ha rischiato seriamente di affondare per le avverse condizioni climatiche. Da ieri, infatti, le coste ioniche calabresi sono flagellate dal ciclone Nettuno che sta causando ingenti danni.
Il mare forza 8 e le forti raffiche di vento hanno impedito per ore ai soccorritori le operazioni di salvataggio dei migranti in balìa delle onde sulla "carretta del mare". La breve tregua data dal maltempo nella tarda mattinata di oggi, ha consentito il salvataggio di tutte le persone a bordo dell'imbarcazione, prima che le condizioni climatiche peggiorassero come previsto dagli esperti del meteo. I soccorritori, pur frenati dal maltempo, da ieri hanno comunque tenuto sotto stretto controllo il barcone ed hanno distribuito salvagente e viveri, riuscendo ad avvicinarsi al peschereccio nonostante le onde marine arrivassero anche a 10 metri di altezza.

 

Strage di Lampedusa. Candele accese a Montecitorio per non dimenticare
Flash mob per far diventare il 3 ottobre di ogni anno la “Giornata della Memoria e dell’Accoglienza”. Raccolte online 25 mila firme
stranieriinitalia.it, 03-12-2013
Elvio Pasca
Roma – 2 dicembre 2013 – Sono passati tre mesi da quando il mare ha inghiottito almeno trecentosessantasei vite a poche miglia da Lampedusa. Uomini, donne e bambini che, come migliaia prima di loro e come chissà quanti ancora, cercavano di raggiungere l’Italia per sfuggire alle guerre, alle persecuzioni, alla povertà.
Il loro ricordo brillerà nelle fiamme delle candele che domani 3 dicembre alle 18 verranno accese in piazza Montecitorio, a Roma, e in altre città d’Italia durante iniziative gemelle. Sarà un flash mob suggestivo, aperto a chiunque voglia partecipare, per sostenere la richiesta di far diventare il 3 ottobre di ogni anno la “Giornata della Memoria e dell’Accoglienza”.
Ad avanzarla è il Comitato 3 Ottobre, nato da un gruppo Facebook che già conta circa 10 mila membri e nel nome ha buona parte del suo programma: “Accoglienza”. “È uno spazio di confronto e riflessione. Noi crediamo che serva una task force umanitaria nel Mediterraneo che non lasci da soli sul campo le istituzioni e gli operatori. E vorremo creare una ricorrenza che coltivi il ricordo di ciò che è successo, perché non si ripeta” dice il capitano di vascello Vittorio Alessandro, un passato come portavoce della Guardia Costiera, che è tra i promotori.
La proposta di legge per l’istituzione della Giornata della Memoria e dell’Accoglienza è già nero su bianco in un appello che ha raccolto 25 mila firme online su Change.org. Domani pomeriggio verrà consegnata ai deputati perché la facciano camminare in Parlamento.
La "Giornata della Memoria e dell’Accoglienza”, si legge nel testo della proposta, servirà a “ricordare lo sterminio silenzioso e spesso invisibile che si consuma nel Canale di Sicilia e sulle rotte di terra percorse da popoli in fuga da persecuzioni, deportazione, prigionia, guerre e miseria, e tutti coloro che, anche a rischio della propria vita, salvano quella degli altri, offrono accoglienza e proteggono i migranti”.
Ogni 3 ottobre verranno “organizzate cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, a Lampedusa in particolare e in tutte le scuole di ogni ordine e grado, per ricordare quanto accaduto ed accade a chi è costretto a scappare dalla persecuzione per raggiungere l'Europa e la pace, a rischio della propria vita. Una memoria che riguarda il popolo italiano - oggi chiamato ad accogliere, ma che ieri emigrava in cerca di lavoro - e l'Europa intera, chiamata ai valori universali di Accoglienza. Memoria da conservare affinché eventi come quello del 3 ottobre 2013 non accadano mai più”.
“Purtroppo è fortissimo il rischio che svanisca la memoria di ciò che è accaduto, mentre assistiamo a una militarizzazione del Mediterraneo che si illude di risolvere il problema spostando la soluzione in alto mare o su un’altra sponda. Invece bisogna tenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica, sensibilizzandola a partire dalle scuole, per comprendere una situazione complessa, resistere e rispondere, coltivando l’accoglienza” sostiene Vittorio Alessandro. “Dobbiamo essere padroni di casa, ma padroni di casa accoglienti, verso gli altri e verso noi stessi”.
È in quest’ottica che domani le candele accese a Montecitorio ricorderanno le vittime del mare, così come i lavoratori cinesi morti all’alba di domenica tra le fiamme in un’azienda tessile di Prato. “Chi mette delle persone a lavorare e a vivere in un capannone come quello– ragiona il capitano - non è diverso da chi le fa salire su un barcone per un improbabile viaggio verso l’Italia. Commette lo stesso crimine, gioca con le loro vite e offende la dignità degli essere umani”.

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