Immigrati, il lavoro. Come nascono i luoghi comuni

Osservatorio Italia-razzismo 7 maggio 2011

Una ricercatrice austriaca, Nicole Schneeweis, sta conducendo uno studio sul ruolo di integrazione svolto dalle comunità etniche nei paesi di arrivo dei migranti. Il quesito di partenza riguarda la possibilità degli stranieri di raggiungere lo stesso livello economico e sociale degli austriaci. È nota l’importanza delle reti di connazionali nella fase iniziale del soggiorno in un paese sconosciuto. 
Poter fare affidamento su chi vive nel paese di arrivo da più tempo, significa avere dei vantaggi nella ricerca di una casa, di un impiego e la possibilità di accedere con maggiore facilità alle informazioni necessarie per la regolarizzazione. E fin qui la comunità di appartenenza offre solo vantaggi. Ma il quesito posto dalla ricerca è riferito alla fase successiva a quella dell’arrivo, in cui la partecipazione, spesso totalizzante, alle attività e ai meccanismi di appartenenza della propria comunità, possono diventare un grave limite. Un limite per ciò che concerne le scelte personali. Per esempio, si sente spesso che i tunisini sono dei bravi pescatori oppure che i bengalesi sono ottimi venditori ambulanti. Questi luoghi comuni hanno un fondamento di verità. Infatti se non si estendesse il giudizio all’intera popolazione di tunisini o di bengalesi, rimarrebbe il fatto che molti tunisini e molti bengalesi effettivamente svolgono quel mestiere, e lo svolgono bene. Ora difficile immaginare che nei paesi di origine esistono delle scuole ad hoc di formazione per quelle attività. È più facile pensare che questa scarsa differenziazione lavorativa, all’interno del gruppo di connazionali, rimandi proprio alla maggiore facilità di trovare un impiego in quegli ambiti lavorativi. E il limite sta proprio in questo (e non solo). E se un bengalese volesse fare il pescatore?
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