Espulsioni. Il limbo dei clandestini per molti è già inferno
di Elisabetta Zamparutti

Il Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria è una via di mezzo tra un carcere di tipo americano e un giardino zoologico. Alti cancelli di ferro fanno accedere a dei bracci lungo i quali si affacciano delle «gabbie» allineate ai lati di un ampio e lungo cortile. Ogni «gabbia» è formata da un cortile di asfalto, spesso attraversato da fili su cui sono appesi dei panni ad asciugare. Si entra in un’anticamera che ha lungo il lato destro panche di ferro colorate di giallo, un tavolo e, in alto, un televisore attaccato al muro; sull’altro lato ci sono i bagni con lavello in acciaio, gabinetto alla turca e doccia. Lo spazio per dormire è di circa sei metri per sette, in tutto otto letti, anche questi di ferro dipinto di giallo con i soliti materassi in gommapiuma. Sulla porta del camerone dove si dorme c’è un condizionatore d’aria dal quale spuntano bottiglie di plastica piene d’acqua. «Lo usano come frigorifero», ci spiega il diretto- re, un medico umanamente attento a quanto accade all’interno della struttura che ospita 128 donne e 144 maschi assistiti dalla Croce Rossa e sorvegliati dalle forze dell’ordine. Quello che colpisce a Ponte Galeria non è il sovraffollamento, ma la promiscuità di situazioni. Ci sono pregiudicati e incensurati: quelli che provengono dal carcere, quelli che hanno chiesto asilo politico e dovrebbero stare da un’altra parte, quelli che sono stati fermati e trovati con il permesso di soggiorno scaduto, quelli che il permesso non lo hanno mai avuto, quelli in regola divenuti da un giorno all’altro fuorilegge per via della nuova legge e quelli assolutamente in regola. Come Ben Hassoun Abdessamad, un ragazzo di origine marocchina che è giunto in Italia nel 2001, ha trovato subito lavoro e si è sposato nell’aprile scorso. Aveva un regolare permesso di soggiorno, ma gli è stato ritirato dopo una querela ricevuta dalla suocera italiana. Così, improvvisamente, è diventato un «clandestino». Vado a visitare il Centro insieme a Massimiliano Jervolino, delegato della Provincia di Roma per i diritti umani, perché è in corso una protesta. Una cinquantina di reclusi ha ammucchiato i materassi contro le gabbie per impedire ai crocerossini di sistemare un nuovo arrivato di origini rumene con la gamba in cancrena. Inoltre, è appena entrato in vigore il nuovo pacchetto sicurezza che innalza da 60 a 180 giorni i limiti di permanenza. La notizia è arrivata nel Centro come una mazzata e la disperazione giunge fino all’autolesionismo.

GLI ULTIMI CASI


Un uomo e una donna si sono feriti a una coscia e a un piede davanti alle telecamere di sorveglianza. Un altro uomo si è inferto lesioni in diverse parti del corpo prima di essere bloccato dal personale di polizia. Un tunisino si è bevuto due bottiglie di shampoo e ha ingoiato una lametta da rasoio dopo aver ricevuto la notifica di una proroga di altri 60 giorni del trattenimento per l’identificazione e l’espulsione. Al centro di Ponte Galeria ha già passato due mesi, proveniente da Venezia, dove ha scontato una pena di sei mesi di carcere  per non aver ottemperato all’ordine di allontanamento dal territorio italiano.

DIGNITÀ DEGRADATA


Dopo aver superato gli uffici del personale, si entra nella zona della reclusione. Le «gabbie» sono aperte dalle 8 alle 24 e appena entriamo i trattenuti si avvicinano e ci chiedono chi siamo. Poi, corrono nelle stanze a prendere le carte che li riguardano e le storie sì affollano. Said Marouen è un marocchino che dice di essere venuto in Italia per sposarsi con una ragazza con la quale non riesce neppure a fare i colloqui. Un altro marocchino, Said El Harrama, ha lavorato come stagionale per nove mesi ma poi gli è scaduto il permesso ed è stato portato a Ponte Galeria. Eugeni Siromenco, un russo con precedenti penali, non riesce a vedere i bambini che vivono in Italia. Cador Haivsemu è arrivato a giugno dalla Siria per chiedere asilo e, quindi, non dovrebbe stare in un Cie, come pure Davide Maharashvili, in fuga dall’Ossezia, che non si capacita del fatto che la sua domanda è bloccata perché non trovano più la documentazione. Toujani Mayhem ha venticinque anni, è arrivato in Italia dalla Libia nove mesi fa ed è al terzo tentativo di «identificazione ed espulsione» qui a Ponte Galeria, dopo quelli di Lampedusa e di Crotone. Zoppica e quelli intorno gli alzano la maglietta per farmi vedere i lividi sui fianchi. La versione ufficiale è che stava tentando un’evasione. I suoi compagni dicono che è vero che è uno che si arrampica, ma questa volta secondo loro è stato pestato dalle guardie. Salha Ben Mahmud racconta di aver lavorato per tre mesi come giardiniere nel carcere di Verona e di non aver ancora ricevuto il compenso dovuto. Djamel Bansaada ha una certa età e non vede l’ora di tornare in Algeria, il suo Paese natale che, però, tarda a riconoscerlo come suo cittadino. Casi come questo non sono pochi. Così, se il prolungamento dei tempi di reclusione contribuisce a degradare la dignità umana dei trattenuti, non sembra aver per nulla risolto il problema della identificazione, precondizione all’espulsione, che dipende dalla collaborazione delle rappresentanze dei Paesi di provenienza. Con il risultato che, trascorsi i sei mesi in questi centri che stanno diventando delle vere e proprie carceri ma senza le garanzie e le possibilità positive che pure esistono per i detenuti, la persona trattenuta viene rimessa in libertà, se così si può definire quella sorta di limbo che è la condizione di clandestino a vita, di apolide senza diritti e senza tutele.


Oggi, 30 settembre 2009
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