Se si finge di combattere i mercanti di schiavi e si dimenticano i profughi
L’Unità del 18 giugno 2009

Quelli che, dal ministro dell’Interno in giù, gestiscono le politiche per l’ immigrazione all’insegna di  “basta con il buonismo”, manifestano due atteggiamenti. Il primo è una sorta  di compiacimento nell’esercizio di un “cattivismo” che pretende di rovesciare luoghi comuni “solidali” ritenuti prevalenti nell’opinione pubblica. È un compiacimento fatto di machismo bullesco, e di aggressività maramalda (bastava ascoltare a Radio Radicale le voci del raduno della Lega, domenica scorsa).  Intrecciato  a questo, c’è un atteggiamento solo in apparenza opposto. Quasi che il “cattivismo”, infine al potere, si vergognasse di se stesso fino a presentarsi come il suo contrario. Per argomentare non solo la presunta efficacia, ma anche la bontà di misure come la rilevazione delle impronte digitali ai bambini rom, o norme altrettanto odiose,  viene addotta una motivazione ispirata al perseguimento del bene dei destinatari di quei provvedimenti. È accaduto anche in occasione dei  respingimenti in mare. Quella misura è destinata a combattere la “moderna tratta degli schiavi” (Silvio Berlusconi): la motivazione è tanto insidiosa quanto falsa. Qui non ci sono schiavi. Ci sono persone che nelle condizioni date – indubbiamente le più terribili – cercano di trovare una via d’uscita: la sola possibile. Chi organizza la loro “tratta” è, in genere, un criminale, ma quegli immigrati non sono né loro complici né loro proprietà. Subiscono le condizioni imposte dai mercanti per una ragione elementare: perché non esistono altre vie, legali e sicure, per raggiungere la loro meta. Il governo, nel concentrare l’ostilità sui “mercanti di schiavi”, ottiene la cancellazione delle vittime, accreditando l’idea di farlo in nome e a tutela delle vittime stesse.


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