Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

Menù

 

"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

10 - 17 agosto 2010

I principi e la realtà
Corriere della Sera 23 agosto 2010
E’un noto effetto distorcente dei meccanismi della rappresentanza il fatto che, spesso, i vertici di organizzazioni e istituzioni siano più condizionati e influenzati dall'attivismo delle minoranze militanti e organizzate che dagli orientamenti prevalenti nelle maggioranze disorganizzate. Qualcosa del genere sembra capitare, sui temi dell'immigrazione, anche alla Chiesa cattolica. Se il Papa non può non invocare (come ha fatto proprio ieri Benedetto XVI) il principio della fraternità fra gli uomini e il dovere di accoglienza nei confronti delle diversità, i problemi sorgono quando gli uomini di Chiesa intervengono nel merito, e nei dettagli, delle politiche dei singoli governi in materia di immigrazione. A giudicare dalle prese di posizione di una parte almeno dei vertici della Chiesa sembra che, spesso, essi siano più influenzati dall'attivismo delle minoranze cattoliche impegnate nel volontariato pro immigrati che dalle opinioni, se non prevalenti, certo fortemente rappresentate (secondo i sondaggi) fra i fedeli che frequentano le funzioni domenicali. Anche le più recenti dichiarazioni di esponenti delle gerarchie vaticane (da monsignor Agostino Marchetto a monsignor Giancarlo Perego) contro la linea dura sui rom del presidente francese Sarkozy e del governo Berlusconi (ribadita dal ministro degli Interni, Roberto Maroni nell'intervista al Corriere del 21 agosto) paiono riflettere questa tendenza.
A rendere i messaggi degli esponenti della Chiesa che più assiduamente si occupano di questi temi meno efficaci di quanto potrebbero essere, sono sempre stati, a parere di chi scrive, tre aspetti. In primo luogo, il mancato riconoscimento del fatto che se la Chiesa, nelle sue opere di assistenza e solidarietà, non può certo fare distinzione fra immigrati regolari e immigrati clandestini, gli Stati hanno compiti diversi e quella distinzione è per essi imprescindibile, non può non essere un cardine delle politiche statali sull’immigrazione. In secondo luogo, il fatto che quegli alti prelati parlino molto dei diritti degli immigrati e poco dei loro doveri. In terzo luogo, il loro apparente disinteresse per i problemi della sicurezza legati all'immigrazione. Dal momento che, nei vari Paesi europei, Italia inclusa, risultano esserci maggioranze nette a favore di politiche rigorose in tema di immigrazione clandestina e di impegno sulle questioni della sicurezza, appare evidente che queste preoccupazioni sono condivise anche da molti cattolici praticanti. Ma di ciò sembrano esserci, in genere, poche tracce nelle periodiche prese di posizione di quegli autorevoli esponenti vaticani. Nel caso specifico dei rom (quelli provenienti dall’Est, ovviamente, non i rom italiani o francesi), ci sono di certo alcune complicazioni in più. A rigore, non sono tutti clandestini. Sono in Italia, in Francia e altrove, per lo più, in quanto cittadini di Paesi membri dell’Unione Europea. E, inoltre, è vero (prima ancora delle regole europee lo proibisce la decenza e la civiltà) che non possono essere impostate da parte di uno Stato democratico politiche mirate contro un qualsivoglia gruppo etnico in quanto tale. Ma è anche vero, d’altra parte, che fra i rom non italiani si annida un numero assai alto di persone che, essendo prive di un lavoro regolare, vivono di furti e altre illegalità. E gli Stati sono tenuti a tutelare contro le loro azioni i propri cittadini. Con ciò il discorso si sposta dai problemi legati ai contesti nazionali a quelli del contesto europeo e, più precisamente, ai fallimenti dell’Europa. Si scontano i contraccolpi di un allargamento europeo che ha portato con sé diversi effetti perversi e non previsti. Ad esempio, la Romania ha trovato nell’ingresso nell’Unione un modo insperato per alleviare lo storico conflitto fra la maggioranza rumena e i rom: lo ha fatto agevolando l’emigrazione rom verso altri Paesi. Ha tamponato le proprie tensioni interne contribuendo ad aggravare quelle degli altri. C’è poi, in secondo luogo, il fatto che non solo non esiste ancora una vera politica europea che regoli l’immigrazione extracomunitaria ma non c’è neppure una gestione condivisa dei rapporti con certe speciali minoranze europee (come i rom, appunto), la cui convivenza con le maggioranze è da sempre problematica. L’impossibilità di una tale gestione condivisa dipende, a sua volta, da un fattore a monte: il carattere ancora troppo fragile e embrionale della «cittadinanza europea» e, quindi, l’assenza di un quadro chiaro e definito di diritti e di doveri del cittadino europeo in quanto tale. La parte del leone è lasciata tuttora alla cittadinanza nazionale. Il che significa che i governi democratici europei devono continuare, ciascuno per suo conto, a preoccuparsi soprattutto degli orientamenti dei propri cittadini, a garantirne la sicurezza, e a fare affidamento solo sul loro consenso. È inevitabile, stante la situazione odierna dell’Europa e non si può non accettarlo. Occorre solo vigilare sul fatto che ciò non si risolva mai in oltraggi alla dignità delle persone, quali che siano i loro gruppi di appartenenza.
Dal momento che, nei vari Paesi europei, Italia inclusa, risultano esserci maggioranze nette a favore di politiche rigorose in tema di immigrazione clandestina e di impegno sulle questioni della sicurezza, appare evidente che queste preoccupazioni sono condivise anche da molti cattolici praticanti. Ma di ciò sembrano esserci, in genere, poche tracce nelle periodiche prese di posizione di quegli autorevoli esponenti vaticani. Nel caso specifico dei rom (quelli provenienti dall’Est, ovviamente, non i rom italiani o francesi), ci sono di certo alcune complicazioni in più. A rigore, non sono tutti clandestini. Sono in Italia, in Francia e altrove, per lo più, in quanto cittadini di Paesi membri dell’Unione Europea. E, inoltre, è vero (prima ancora delle regole europee lo proibisce la decenza e la civiltà) che non possono essere impostate da parte di uno Stato democratico politiche mirate contro un qualsivoglia gruppo etnico in quanto tale. Ma è anche vero, d’altra parte, che fra i rom non italiani si annida un numero assai alto di persone che, essendo prive di un lavoro regolare, vivono di furti e altre illegalità. E gli Stati sono tenuti a tutelare contro le loro azioni i propri cittadini. Con ciò il discorso si sposta dai problemi legati ai contesti nazionali a quelli del contesto europeo e, più precisamente, ai fallimenti dell’Europa. Si scontano i contraccolpi di un allargamento europeo che ha portato con sé diversi effetti perversi e non previsti. Ad esempio, la Romania ha trovato nell’ingresso nell’Unione un modo insperato per alleviare lo storico conflitto fra la maggioranza rumena e i rom: lo ha fatto agevolando l’emigrazione rom verso altri Paesi. Ha tamponato le proprie tensioni interne contribuendo ad aggravare quelle degli altri. C’è poi, in secondo luogo, il fatto che non solo non esiste ancora una vera politica europea che regoli l’immigrazione extracomunitaria ma non c’è neppure una gestione condivisa dei rapporti con certe speciali minoranze europee (come i rom, appunto), la cui convivenza con le maggioranze è da sempre problematica. L’impossibilità di una tale gestione condivisa dipende, a sua volta, da un fattore a monte: il carattere ancora troppo fragile e embrionale della «cittadinanza europea» e, quindi, l’assenza di un quadro chiaro e definito di diritti e di doveri del cittadino europeo in quanto tale. La parte del leone è lasciata tuttora alla cittadinanza nazionale. Il che significa che i governi democratici europei devono continuare, ciascuno per suo conto, a preoccuparsi soprattutto degli orientamenti dei propri cittadini, a garantirne la sicurezza, e a fare affidamento solo sul loro consenso. È inevitabile, stante la situazione odierna dell’Europa e non si può non accettarlo. Occorre solo vigilare sul fatto che ciò non si risolva mai in oltraggi alla dignità delle persone, quali che siano i loro gruppi di appartenenza.


«Espellere anche cittadini Ue»: bufera politica su Maroni

Amelia Elia
Avvenire 21 agosto 2010
Il primo volo di rimpatri volontari – dietro compenso, trecento euro per adulto e cento euro per bambino – è partito per Bucarest giovedì. I decolli sono proseguiti il giorno successivo – venerdì hanno lasciato la Francia diretti a Timisoara 139 rom – e altre partenze sono previste per il 26 agosto: entro fine agosto saranno 850 gli stranieri espulsi dal suolo francese dall’inizio del 2010. Con gli indesiderati il presidente Sarkozy – aspramente criticato in patria e all’estero – non sta «facendo altro che copiare l’Italia», perché anche da noi si «usa da anni la tecnica dei rimpatri assistiti e volontari»: secondo Roberto Maroni, «Sarkozy ha ragione». E – dice il ministro dell’Interno – «è arrivato il momento di fare un passo un più».
Quale sia quel passo il ministro lo ha ampiamente spiegato in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera: avere «la possibilità di espellere anche i cittadini comunitari. Naturalmente solo chi viola la direttiva che fissa i requisiti per chi vive in un altro Stato membro». Cioè chi non è in grado di dimostrare di avere un «reddito minimo, dimora adeguata e di non essere a carico del sistema sociale del Paese che lo ospita. Molti rom sono comunitari – prosegue – ma non rispettano nessuno di questi requisiti».
Il ministro spiega che l’Italia chiese a Bruxelles la possibilità di attivare questa procedura, sentendosi rispondere negativamente dal commissario francese Jacques Barrot: «Adesso – promette Maroni – torneremo alla carica. Il 6 settembre ne discuteremo a Parigi in un incontro con i ministri dell’Interno di diversi Paesi europei».
Condivide appieno la posizione di Maroni il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, favorevole all’espulsione dei cittadini comunitari privi di requisiti per il soggiorno «Non è possibile – si legge in una nota del ministero – che il governo legittimi una situazione di palese illegalità e di non rispetto delle regole». La linea dura «è quello che ci vuole» anche secondo l’onorevole Isabella Bertolini, della Direzione Nazionale del Pdl: «Poco importa che sia comunitario o extracomunitario. Chi non ha titoli per rimanere in Italia – dice Bertolini – deve essere espulso». Dello stesso parere il sottosegretario agli Interni, Alfredo Mantovano, che preannuncia un’iniziativa dell’Italia perché si possano espellere anche i cittadini comunitari privi di casa e di reddito. «Ciò che non funziona – spiega Mantovano – è il meccanismo sanzionatorio, troppo blando». E Riccardo De Corato apprezza: «Al di là del buonismo e del benaltrismo puramente interessato di sociologi pseudointellettuali e di tanti esponenti del centrosinistra – sottolinea De Corato – chi sta nei campi irregolari vive prevalentemente di illeciti. Furti, racket dell’elemosina, prostituzione».
Quelle del ministro dell’Interno sono invece «dichiarazioni gravissime» secondo Sandro Gozi, capogruppo Pd nella commissione Politiche della Ue di Montecitorio, «perché mettono in discussione uno dei principi fondanti dell’Europa, cioè la libera circolazione delle persone. Maroni ha annunciato il tentativo della Lega di distruggere il concetto di Europa. Faremo una dura e ferma opposizione – promette Gozi – contro questa deriva leghista». «La politica immigratoria di questo governo – rincara la dose Roberto Di Giovan Paolo, senatore Pd – è fatta solo di espulsioni, respingimenti, negazione della cittadinanza a chi ne avrebbe diritto». Secondo il deputato Pd Enrico Gasbarra: «La Lega Nord mostra sempre più la sua vera natura. Vuole un’Italia egoista, divisa e prepotente».
«Tenga a bada il suo livello di testosterone e plachi le sue smanie xenofobe» è il suggerimento che Stefano Pedica, senatore Idv, rivolge a Maroni mentre il portavoce dell’Italia dei Valori, Leoluca Orlando, dichiara che «il governo fa un uso distorto, discriminatorio e razzista di principi incontestabili come il diritto alla sicurezza e il rispetto della legalità».




Sarkozy espelle i rom e respinge le critiche

Corriere della Sera 20 agosto 2010
I primi 70 rom espulsi dalla Francia sono arrivati in Romania. Altri 132 li seguiranno oggi. Critiche alla scelta di Sarkozy da Ue, Onu e Vaticano. «Parigi non ha lezioni da ricevere», ha replicato il ministro dell’Immigrazione. PARIGI — Il volo charter JOR46 Lione-Bucarest è partito ieri con più di tre ore di ritardo. Avrebbe dovuto riportare in Romania a spese del governo francese 79 zingari che avevano «volontariamente» firmato l'adesione al programma di rimpatrio dei rom illegali voluto dal presidente Nicolas Sarkozy. Non l'avessero fatto, dopo la demolizione dei loro campi, sarebbero stati probabilmente detenuti in qualche centro per immigrati clandestini e poi deportati comunque senza l'incentivo di 300 euro per ogni adulto e 100 euro ogni bambino ricevuto ieri. Su 79 firmatari se ne sono però presentati 70 e di questi, almeno 4 hanno già candidamente annunciato di voler tornare in Francia nel giro di pochi giorni. Sempre volontariamente.
Sin da queste prime battute il giro di vite di Sarkozy sembra avere il filetto spanato. L'idea di cancellare i 600 accampamenti abusivi di gitani in Francia è venuta al presidente dopo gli incidenti di metà luglio a Grenoble quando un rapinatore francese (di origini rom) è stato ucciso dalla polizia e la periferia della città è esplosa in tre notti di disordini e proteste. Da lì è partita la campagna di sicurezza del presidente che, secondo critici e avversari, aspettava solo l'occasione per rivestire i prediletti abiti del flic, del poliziotto, e tentare così di risollevare il proprio indice di gradimento in vista delle elezioni del 2012.
Il 30 luglio, simbolicamente proprio da Grenoble, Sarkozy ha annunciato un provvedimento (che verrà scritto e presentato a settembre) per togliere la cittadinanza francese ai figli di immigrati che infrangono la legge: gens du voyage (come vengono chiamati i 500mila francesi di origine rom), ma anche francesi con genitori algerini, tunisini, sudanesi, marocchini. In attesa della nuova norma che cambierebbe il concetto di cittadinanza proprio nel Paese che l'ha inventato nel 1789, il pugno dell'Eliseo è caduto sui rom più deboli, quelli non francesi. In agosto è stata smantellata la metà dei loro campi. Sarebbero stati questi i «centri di spaccio, sfruttamento della prostituzione e dei bambini» di cui ha parlato il presidente. Alcune famiglie rom sono state accolte in scuole da comuni amministrati dal Partito comunista e altri hanno vagabondato in cerca di terreni dove accamparsi o addirittura sono tornati da dove erano stati cacciati.
I sondaggi su come i francesi percepiscono queste misure «di sicurezza» non sono chiari. Il 6 agosto una ricerca pubblicata da Le Figaro assicurava a «Supersarkò» un 80% di consensi, ma 8 giorni dopo Marianne sosteneva che il 70% era contrario. Di certo ci sono due cose: le polemiche e il problema.
Mentre la Conferenza episcopale cattolica francese tace, dal Vaticano protesta Monsignor Agostino Marchetto, segretario del pontificio consiglio per i migranti e gli itineranti. «Non si possono prendere decisioni contro intere comunità» dice. La commissione Ue di Giustizia mette in guardia da «reazioni xenofobe e populiste che si innescano con la crisi economica». Ma Parigi è nella legalità. Fino al 2014 può infatti avvalersi della deroga concessa dall'Ue alla libertà di movimento dei cittadini di Romania e Bulgaria. Deroga che permette appunto queste deportazioni volontarie.
Per il presidente romeno Traian Basescu «quel che accade a Parigi dimostra la necessità di un programma europeo d'integrazione dei rom», richiesta già avanzata da Bucarest nel 2008 quando in Italia ci fu un'ondata di proteste anti zingari conclusa con un accordo con la Romania per il rimpatrio degli zingari condannati in Italia.
Parigi risponde facilmente alle accuse perché il problema è reale. Come in Italia anche in Francia è comune vedere bambini rom costretti all'accattonaggio. «Aspetto che la Commissione europea dimostri tutto il suo valore — ha dichiarato sarcastico il ministro dell'Interno Brice Hortefeux — con azioni concrete per l'accesso dei rom all'istruzione, al lavoro e all'alloggio».



«Sono per l’integrazione I bambini a scuola, gli adulti al lavoro»

Andre Galli
Corriere della Sera 20 agosto 2010
MILANO — Quelli delle ronde, nella sua città, la definirono così: «La destra non potrebbe partorire un uomo più a destra». Ma lei è di sinistra. Cosa ne pensa del Sarkozy anti-rom?
«Non giudico gli altri. Parlo per me. Sui rom sono a favore dell’integrazione. Bimbi a scuola, gli adulti al lavoro. Comunque, una cosa del genere, l’avevo già fatta». Ha cacciato i nomadi? «Erano gli anni Novanta. Ne arrivarono duecento dalla Serbia. Metà li convinsi a tornare. Le dirò di più: poi sono anche andato a trovarli, al loro paese».
Classe 1950, del Pd, Flavio Zanonato è sindaco di Padova.
Rimaniamo sui serbi. Fuggivano dalla guerra?
«Sì. A Padova si misero in un campo, il primo che trovarono. Ma presto quel campo si trasformò in un’area degradata, sporca, insicura... Non si poteva andare avanti». Fu lì che lì espulse? «Non parlerei di espulsioni. Misi a posto l’insediamento. Lo feci riqualificare, lo feci controllare, feci in modo che si vivesse in modo umano osservando le leggi. Dopo alcuni mesi, alcuni appunto rimpatriarono, altri decisero di restare».
Confessi: a quelli in partenza diede dei soldi come incentivo?
«Soldi? No... no. Al massimo un piccolo aiuto, niente di più».
Sindaco, saprà che nel corso dei secoli le popolazioni nomadi hanno subito persecuzioni, massacri e continui allontanamenti; possibile che l’Europa di oggi ancora non riesca a elaborare un piano comune d’accoglienza? «A me lo domanda? Peraltro i rom, nella nostra Italia, per buona parte sono proprio di nazionalità italiana, mica sono tutti romeni o bulgari».
A Padova, città nel bene e nel male simbolo dell’immigrazione, esiste una questione nomadi?



«Una decisione giusta, ma non è necessario dare soldi ai nomadi»

Andrea Galli
Corriere della Sera 20 agosto 2010
MILANO — Lei, immaginiamo, è totalmente a favore. «Non proprio». Sul serio? «Nel senso che non vedo la necessità di dare ai nomadi dei soldi. Se un soggetto deve essere allontanato perché non ha più i requisiti per rimanere, va via e basta».
Una delle prime cose che ha fatto, eletto sindaco di Verona, è stata chiudere un campo rom. Per la sua azione contro un altro campo rom — una raccolta di firme secondo il giudice propaganda di idee fondate sull’odio e sulla superiorità etnica e razziale — il 41enne leghista Flavio Tosi è anche finito condannato (in Cassazione).
La Romania e la Bulgaria sono nell’Unione europea. Questi nomadi potranno tornare liberamente in Francia.
«Premesso che l’entrata di Romania e Bulgaria nella Ue è stato un errore di Prodi...». Andiamo avanti. «Mi sembra ovvio che il piano di Sarkozy sia soltanto un deterrente. Sarkozy vuole scoraggiare i rom a scegliere la Francia e vuole portarli a preferire come meta altre nazioni.
Che ne so, la Germania, la Spagna».
Oppure l’Italia.
«L’Italia, certo».
E quindi, per dire, anche la sua Verona.
«Avevamo un insediamento e lo abbiamo chiuso. Per il resto, siamo molto chiari. Ben venga chi cerca casa e lavoro, ma gli altri no. Non vogliamo problemi».
Tosi, davvero, come giudica la scelta di Sarkozy? Quanto è facile, a volte, spostare l’attenzione dell’opinione pubblica sugli immigrati per, magari, nascondere altre magagne?
«Ha fatto quel ha fatto per il bene dei francesi».
Non ci vede nemmeno un filo di razzismo? «Il razzismo non c’entra». Un’ultima domanda: se fosse successo qua da noi?
«In Italia qualcosa è stato fatto, ma è difficile, molto difficile. La magistratura si metterebbe subito di traverso per difendere gli stranieri».



Ernesto Olivero: "I rifugiati diventino italiani o tornino a casa loro"

Guido Tiberga
La Stampa 20 agosto 2010
«Devono diventare italiani, altrimenti possono anche tornarsene a casa...». Nella sua stanza al Sermig, tra icone della Vergine benedette dai Papi e appunti autografi dei potenti d’Italia, Ernesto Olivero parla dei rifugiati somali con inaspettata durezza. Ragiona e procede per esempi, come gli capita spesso. «Sa perché le sto preparando un caffè? Perché sono gentile. Ma non lo farei mai se lei pensasse che questa tazzina è un segno della mia vigliaccheria...».
Non la seguo, Olivero. Che cosa vuol dire?
«Vede, noi qui siamo stati i primi ad accogliere persone venute da altri Paesi. Con amore e senza distinzioni, perché se uno straniero viene a Torino e nessuno ha il coraggio di mandarlo via, quello straniero diventa torinese come me e lei. Ma all’inizio, quando l’Arsenale era poco più di un rudere, qui stava scoppiando il caos. E allora ci siamo detti: o lasciano perdere tutto, o cerchiamo di capire questa gente. E per capirla dobbiamo andare a casa loro. Lo abbiamo fatto, abbiamo incontrato persone illuminate che ci hanno detto: voi italiani siete presuntuosi, e non capite niente...».
Perché?
«Perché accogliamo gli arabi come se fossero i veneti che venivano a Torino negli Anni Cinquanta. Non capiamo che sono diversi, che ad esempio per loro la gentilezza è sottomissione. Che persino il gesto semplice di offrire un caffè può essere equivocato».
Sta dicendo che con gli immigrati islamici bisogna essere duri per principio? Proprio lei?
«Sì. Proprio io che ospito centinaia di persone ogni giorno dico che accogliere non basta. Bisogna fissare le regole: dobbiamo comprendere queste persone, e spiegare che l’Occidente sarà in decadenza ma qualche passo lo ha fatto. Bisogna far capire che chi viene qui deve adeguarsi alla nostra Costituzione, o andarsene».
Senta, ma che cosa si deve fare se un rifugiato non vuole inserirsi e non può tornare a casa sua perché finirebbe perseguitato per motivi politici?
«Noi al Sermig abbiamo varato da poco l’Arsenale dei Ragazzi: giovanissimi di 17 etnie giocano insieme, studiano musica insieme. Hanno una sola regola: devono parlare italiano. Chi usa la sua lingua viene allontanato per una settimana».
Ma i bambini non sono rifugiati politici. Non si possono paragonare le situazioni...
«Quello che conta è essere chiari, fissare immediatamente le regole, tenere alla larga i demagoghi. Queste persone non possono pretendere di avere subito una casa, perché prima di loro ci sono centinaia di immigrati e anche di italiani che stanno aspettando. Bisogna ragionare prima, altrimenti ci si trova nell’angolo. E quando si sta con le spalle al muro ogni decisione finisce per essere sbagliata».
Il questore dice che dei quindici irriducibili di corso Chieri dovrebbero farsi carico associazioni come la vostra. Che cosa risponde?
«Che quando lo Stato ha fatto l’ultima sanatoria, noi abbiamo ospitato 2-3 mila immigrati al giorno. E aspettiamo ancora i 700 milioni di vecchie lire che ci avevano promesso. E comunque noi qui abbiamo già dei rifugiati somali usciti da via Asti. Lo Stato deve dare risposte, il volontariato agisce per amore, non perché qualcuno glielo ordina».
Olivero, qual è la sua posizione sulla moschea che si sta costruendo a Torino?
«Che è giusto, perché chiudersi è sbagliato. Ma prima bisogna chiamare i musulmani torinesi e dire loro: che cosa farete da domani perché in Iraq o in Arabia, se un prete dice Messa in un albergo non arrivi più la polizia ad arrestare tutti? Noi vorremmo aprire un Arsenale della Pace a Gaza: abbiamo chiesto di poter costruire una chiesa, non per convertire gli altri, ma per pregare noi. Non abbiamo mai avuto risposta. Bisogna ragionare prima di agire: ha visto Obama che ha approvato una moschea a Ground Zero?».
Certo, non è d’accordo?
«Secondo me ha agito con leggerezza».


Espulsione dei rom, la Commissione europea: Parigi deve rispettare la libertà di insediamento

Avvenire 19 agosto 2010
La Francia come ogni altro stato membro deve rispettare le regole» che garantiscono ai cittadini Ue i diritti relativi alla libertà di movimento e di insediamento. Dura presa di posizione della Commissione europea in merito alla decisone del Paese transalpino di espellere circa 700 persone di etnia Rom rimpatriandoli in Bulgaria e Romania. Matthew Newman, portavoce della titolare del portafoglio alla giustizia e cittadinanza Viviane Reding, ha sottolineato come «la Commissione segua da vicino e con attenzione la situazione, in particolare la commis-saria Reding e il commissario Lazslo Andor». Spetta però ai singoli Stati membri decidere cosa fare «caso per caso», prendendo in considerazione i singoli "dossier" di ogni cittadino. Se esiste la libertà di movimento e di insediamento, infatti, pas¬sati tre mesi un cittadino può restare sul suolo di un altro paese se rispetta una serie di condizioni, tra cui possedere mezzi per il proprio mantenimento e non costituire una minaccia per la sicurezza del paese. «Allo stesso tempo, la decisione delle au¬torità nazionali deve rispettare il principio di proporzionalità», ha ricordato il portavoce. Newman ha poi sottolineato anche come Bruxelles abbia «sempre sostenuto la necessità dell'inte-grazione di queste popolazioni» e come, per progetti di questo tipo, abbia già «stanziato per il periodo 2007-2013 fondi Ue in 12 Stati membri per un totale di 17,5 miliardi di euro». A Lourdes intanto, per il tradizionale pellegrinaggio di fedeli della popolazione romani come i Rom e altre etnie di zingari, è stato rinforzato il servizio di si-curezza per il timore che si possano verificare furti e zuffe. Nella città mariana, per i prossimi giorni, si attendono circa 10.000 di questi pellegrini in visita al Santuario.


Migranti in fuga dai Cie

Terra 19 agosto 2010
Dina Galano
Chiudete il Cie di Trapani», chiedeva a inizio anno la Ong Medici senza frontiere a conclusione della visita ispettiva all'interno dei centri di identificazione ed espulsione italiani. Le condizioni di trattenimento nella struttura, le peggiori in assoluto per mancanza di igiene e altri servizi essenziali, hanno condotto a una escalation di proteste da parte dei reclusi senza soluzione di continuità da quando, nell'estate scorsa, il soggiorno coatto è stato prolungato per legge a 180 giorni. Ieri è arrivata la notizia dell'ultimo tentativo di fuga dal Centro "Serraino Vulpitta": in 43 si sono calati dalle finestre del secondo piano e, forzando la cancellata, hanno lasciato le celle. Una quindicina di loro sono ancora ricercati dalla polizia. Il 6 agosto si era verificato un episodio simile, a metà luglio in 27 fuggirono dalla struttura e 15 non sono stati più rintracciati. Pochi giorni fa il Viminale ha annunciato l'intenzione di trasferire entro il 2010 gli irregolari in una struttura alla porte di Trapani, che però è ancora incompiuta. Ma intanto, a partire dal 5 agosto, il governo ha trovato un'altra risposta all'emergenza Cie, inviando a Trapani 50 militari delle forze armate. Della decisione si trova traccia all'interno dell'operazione "strade sicure" che ha rimpinguato la presenza delle forze armate per le vie cittadine: oltre mille uomini così sono stati mandati a controllare l'agosto dei Centri per gli immigrati. Senza troppo successo, verrebbe a dire, dato l'intensificarsi delle proteste e dei tentati-vi di evasione. Oltre al sovraffollamento delle strutture, infatti, per il segretario generale del sindacato di Polizia Siulp, Felice Romano, «con l'impiego dell'esercito la propensione a evadere da parte degli ospiti si è accentuata moltissimo perché i militari non sono abituati alla gestione di una detenzione non coercitiva come quella dei Cie». L'episodio siciliano, ha invece spiegato il sottosegretario all'Interno Alfredo Mantovano «è l'esito di una tensione che deriva dalle caratteristiche della struttura. Il periodo estivo è ogni anno quello in cui si registrano i maggiori tentativi di fuga o di fuga realizzata». Con ciò ammesso, il vice ha confermato le intenzioni del ministro Maroni: «L'obiettivo è di aprire in qualche mese dei Cie anche in regioni densamente popolate come la Campania, il Veneto, la Toscana e il Piemonte dove fino a questo momento non è stato possibile». Peccato che, interpellati, non si trovi governatore che si mostri entusiasta dell'iniziativa. Anche perché la situazione dei Centri è sempre più a rischio, al punto che gli investigatori di polizia hanno suggerito che dietro alle rivolte, talvolta perfino sincroniche in diverse strutture dello Stivale, esista una regia comune. Da Via Corelli a Milano, passando per il Cie di Gorizia, giù fino a quello di Brindisi. E ancora Trapani. Dovunque si tenta di fuggire. La scintilla delle rivolte è stato riaccesa dai recenti accordi tra Italia e i governi algerino e tunisino per velocizzare i rimpatri dei cittadini dei due Paesi. L'espulsione è la regola e ogni tentativo di spiegare le proteste in termini di autocombustione estiva pare riduttivo.



Proseguono gli sbarchi di migranti

Cento curdi su uno yatch di lusso
RIACE (REGGIO CALABRIA)
Le "carrette del mare" hanno lasciato il posto a motoscafi, barche a vela e yatch. Quei vecchi barconi che venivano abbandonati sulle spiagge adesso non si vedono più. I trafficanti di esseri umani hanno cambiato strategia, ma l’obiettivo è sempre lo stesso: lucrare sulla disperazione altrui, dando l’illusione di una vita migliore a disperati in fuga dai loro Paesi di origine, vendendo a caro prezzo il trasporto verso l’Italia. È stato così anche la notte scorsa, quando 122 migranti sono sbarcati sulla costa ionica reggina, tra Riace e Camini.
Cinquantuno uomini, 36 donne e 35 bambini, una decina dei quali con meno di due anni, sono arrivati dopo un viaggio di cinque giorni. Non più su una «carretta del mare», ma su uno yatch di 18 metri. Su questo i clandestini non hanno avuto dubbi. Le testimonianze sono state concordi. Il viaggio è stato compiuto su una «nave di lusso», dopo il pagamento di un «biglietto» che variava dai 3 ai 5.000 euro. Lo yatch si è fermato a 50 metri dalla riva ed uno degli scafisti ha raggiunto la costa a nuoto. Quindi ha steso un cavo col quale ha effettuato il trasbordo degli immigrati con un gommone lasciato sulla riva. La testimonianza degli immigrati non fa che confermare una tendenza che in Calabria è emersa nelle ultime settimane.
Il 21 luglio scorso, dopo lo sbarco di una ventina di afghani, sono stati bloccati due scafisti a bordo di un motoscafo con motori da 200 cavalli in grado di raggiungere i 55 nodi di velocità. Alla vigilia di Ferragosto sono stati arrestati gli scafisti dello sbarco di una decina di immigrati afghani e iracheni sulle costa crotonese. I due erano a bordo di una barca a vela di 15 metri. E sempre la notte scorsa, quasi in contemporanea con lo sbarco nel reggino, altri due scafisti, di nazionalità ucraina (anche questa è una novità), sono stati arrestati per avere trasportato sulla costa crotonese una ventina di clandestini a bordo della loro barca a vela di 12 metri. Uno stratagemma, quello di utilizzare imbarcazioni da diporto, utilizzato per ingannare i pattugliatori delle forze dell’ordine, soprattutto nel periodo estivo, quando lungo le coste calabresi sono decine le imbarcazioni di questo tipo. Le condizioni dei migranti sono buone.
Soltanto un uomo, una donna incinta e due bambini sono stati ricoverati in ospedale per segni di disidratazione, ma le loro condizioni non sono gravi. Tutti gli immigrati sono di etnia curda provenienti da Iraq, Afghanistan, Siria e Turchia. Tra loro anche un ragazzo di nazionalità russa che insieme ad una connazionale si stava allontanando con uno zaino contenente un binocolo e una decina di telefoni cellulari. I controlli, però, non hanno dato esito ed è stato accompagnato anche lui nella struttura messa a disposizione dal Comune di Camini, in attesa del trasferimento del gruppo nel Centro di accoglienza di Bari. E mentre per la Caritas lo sbarco conferma che «il traffico nel Mediterraneo non è finito ma continua anche se con rotte e gestioni differenti», il sindaco di Riace, Domenico Lucano, che dell’accoglienza ha fatto la bandiera del suo paese (ospita oltre cento immigrati di varie nazionalità), si è detto pronto ad accogliere le ultime vittime degli scafisti. Disperati spesso in fuga da guerra e miseria, anche se a bordo di uno yatch.



La moschea aiuterà l’Islam dei moderati

Corriere della Sera 18 agosto 2010
L’imam promotore dell’iniziativa è moderato: la sua visione della religione è l’incubo di Bin Laden
Dall’ 11 settembre del 2001 in poi, liberali e conservatori concordano che la vera e duratura soluzione al problema del terrorismo islamico sarà vincere la battaglia delle idee e screditare l’Islam radicale, ovvero quell’ideologia che spinge i giovani a cercare la morte massacrando esseri innocenti. La guerra al terrore sarà vinta quando una versione moderata dell’Islam, compatibile con i valori della modernità, prenderà il sopravvento sulla visione del mondo propagandata da Osama Bin Laden e i suoi seguaci. Il dibattito sull’opportunità di costruire un centro islamico a pochi isolati di distanza dal World Trade Center continua a ignorare un punto fondamentale. Se vogliamo favorire la diffusione di un movimento riformista nell’Islam, è probabile che l’impulso iniziale venga lanciato proprio da un istituto come questo. È nostro compito incoraggiare i movimenti che portano avanti il progetto, non demonizzarli. Se questa moschea venisse eretta in un Paese straniero, con ogni probabilità potrebbe contare sui finanziamenti del governo americano.
L’imam Feisal Abdul Rauf, principale promotore dell’iniziativa, è un religioso musulmano moderato. È vero, ha espresso un paio di opinioni sulla politica estera americana che mi sembrano eccessivamente negative, ma si tratta pur sempre di punti di vista come se ne leggono tanti ogni giorno sull’Huffington Post. Sull’Islam, suo principale argomento, tuttavia, le opinioni di Rauf sono chiare: non perde occasione per condannare ogni forma di terrorismo. Ribadisce la necessità che i musulmani convivano pacificamente con le altre religioni, evidenziando gli aspetti comuni a tutte le fedi. Reclama pari diritti per le donne e si oppone alle leggi islamiche che in qualunque modo penalizzano i non musulmani. Nel suo ultimo libro, What's right with Islam is what's right with America, sostiene che gli Stati Uniti rappresentano anzi la società islamica ideale, perché incoraggiano la diversità e garantiscono la libertà individuale e religiosa. La sua visione dell’Islam corrisponde all’incubo più terrificante di Bin Laden.
Rauf fonda le sue tesi sull’interpretazione del Corano e di altri testi sacri. Se ai miei occhi di non credente tutto ciò appare piuttosto cavilloso, occorre tener presente tuttavia che la stragrande maggioranza dei fedeli musulmani è disposta ad accogliere solo gli argomenti corroborati dalla dottrina. Il dibattito ben più vasto suscitato dalla proposta del centro islamico a Ground Zero verte, a mio avviso, sulla libertà religiosa in America. Molto è stato scritto a questo proposito e mi limito a raccomandare la lettura del discorso pronunciato da Michael Bloomberg. Le parole eloquenti, coraggiose e attentamente calibrate di Bloomberg dovrebbero essere incluse nel programma di educazione civica di tutte le scuole americane, e con ogni probabilità lo saranno.
Il discorso di Bloomberg si staglia in netto contrasto con l’inspiegabile decisione della Anti-Defamation League di schierarsi pubblicamente con coloro che si oppongono alla costruzione del centro islamico a Ground Zero. La Lega si prefigge, nel suo statuto, di «metter fine per sempre a ogni ingiustizia, discriminazione e forma di ridicolo perpetrate contro una qualunque fede religiosa o associazione di cittadini», eppure il suo presidente, Abraham Foxman, ha affermato che occorre rispettare il dolore dei familiari delle vittime dell’11 settembre, anche se rischia di apparire prevenuto nei confronti dell’Islam. «La loro sofferenza giustifica prese di posizione che altri potrebbero interpretare come irrazionali o intolleranti», sostiene Foxman. Innanzitutto, i familiari delle vittime dell’11 settembre non hanno espresso un parere concorde sulla moschea. Ricordiamo che non pochi musulmani sono rimasti uccisi nell’attentato alle Torri Gemelle. Conta anche il dolore dei loro familiari? Ma occorre chiedersi soprattutto se Foxman sia convinto che il pregiudizio e l’intolleranza diventino accettabili se espressi dalle vittime. Il dolore dei palestinesi, allora, giustifica il loro antisemitismo?
Cinque anni fa, la Anti-Defamation League mi ha tributato un importante riconoscimento, l’Hubert H. Humphrey First Amendment Freedoms Prize. Sono stato onorato nel riceverlo da un’organizzazione che ho sempre ammirato. Oggi, tuttavia, la mia coscienza mi impone di restituire sia la splendida targa che i 10.000 dollari che la accompagnavano. Invito caldamente la Lega antidiffamazione a rivedere la sua posizione: saper riconoscere gli errori è il primo passo per ristabilire la propria credibilità.
(Traduzione Rita Baldassarre)



Un sacrilegio scegliere Ground Zero

Corriere della Sera 18 agosto 2010
Un luogo è reso sacro dalla diffusa convinzione che vi sia avvenuto qualcosa di miracoloso o di trascendente (come Lourdes o il Monte del Tempio), o da una vicenda di grande nobiltà e sacrificio o dal sangue di martiri e dalla indescrivibile sofferenza di innocenti (come Auschwitz). Quando diciamo che Ground Zero è un luogo sacro, intendiamo dire che appartiene a chi vi ha sofferto e vi è morto e questo obbliga noi, i vivi, a conservarne la dignità e la memoria, non permettendo che sia dimenticato, banalizzato o violato. Per questo, nel 1993, la proposta della Disney di costruire un parco tematico sulla storia americana vicino al campo di battaglia di Manassas venne respinta da un ampio fronte di dissenzienti (più saggi di me, che allora, ottusamente, non vidi alcun rischio nell’iniziativa), preoccupati che la Guerra Civile vi sarebbe stata banalizzata. Per questo la torre panoramica commerciale costruita sul limitare del sito di Gettysburg è stata demolita dal Park Service. Per questo, pur non avendo nulla contro i centri culturali giapponesi, l’idea di collocarne uno a Pearl Harbor sarebbe offensiva. Ed è per questo che papa Giovanni Paolo II aveva ordinato alle monache carmelitane di lasciare il loro convento di Auschwitz. Non voleva in alcun modo sminuire la profonda missione che si erano date, pregare per le anime dei morti, stava piuttosto inviando loro un messaggio di rispetto: questo posto non vi si addice, appartiene ad altri. Anche se la vostra voce è sincera, meglio lasciar regnare il silenzio.
Anche il sindaco di New York, Michael Bloomberg, che ha accusato chi si oppone alla moschea a Ground Zero di calpestare la libertà religiosa, ha chiesto ai responsabili della proposta «di mostrare una particolare sensibilità per la situazione». Eppure, come ha acutamente osservato l’editorialista Rich Lowry, il governo non dovrebbe dire alle Chiese come comportarsi, o indurle a mostrare «particolare sensibilità» verso qualcuno o qualcosa. Bloomberg ha così inavvertitamente avvalorato le posizioni, che criticava, ammettendo che Ground Zero è effettivamente un luogo diverso da qualsiasi altro. Quel che Bloomberg sottintende è chiaro: se la moschea fosse controllata da islamisti radicali «poco sensibili» che giustificassero o celebrassero l’11 settembre, non ne appoggerebbe la costruzione.
Ma perché poi? Secondo l’aperta visione della libertà religiosa manifestata dal sindaco, che diritto abbiamo di dettare i messaggi trasmessi da una moschea? Peraltro, sul piano pratico, non abbiamo nessuna garanzia di quel che potrebbe accadere in futuro. Le istituzioni religiose, nel nostro Paese, sono autonome. Chi può garantire che la moschea un giorno non assumerà un Anwar al-Aulaqi — mentore spirituale del killer di Fort Hood e dell’attentatore del giorno di Natale, che è stato imam della moschea della Virginia frequentata da due dei terroristi dell’11 settembre?
Un Aulaqi che predica in Virginia è un problema di sicurezza. Un Aulaqi che predica a Ground Zero è un sacrilegio. O forse il sindaco in questo caso interverrebbe — violando lo stesso Primo Emendamento che pomposamente pretende di difendere — ponendo un veto sul clero della moschea?
I luoghi hanno un peso. Questo luogo in particolare. Ground Zero è il luogo del più grande omicidio di massa della storia americana — commesso da musulmani di una particolare ortodossia islamica, per la cui causa sono morti e nel cui nome hanno ucciso.
Naturalmente questa setta rappresenta solo una minoranza dei musulmani. L’Islam non è più intrinsecamente islamista di quanto la Germania di oggi sia nazista — ma, nonostante l’innocenza della Germania attuale, nessun tedesco ben intenzionato potrebbe pensare mai di proporre un centro culturale tedesco, ad esempio, a Treblinka.
E questo fa pensare alle buone intenzioni dell’imam Feisal Abdul Rauf. È l’uomo che ha definito la politica degli Stati Uniti «una componente del crimine» dell’11 settembre, e quando recentemente gli è stato chiesto se Hamas sia un’organizzazione terroristica, ha risposto: «Non sono un politico... La questione del terrorismo è molto complessa».
L’America è un Paese libero dove si può costruire quello che si vuole — ma non ovunque. Per questo motivo abbiamo regolamenti urbanistici. Non si possono aprire negozi di liquori accanto a una scuola, e se una casa non rispetta la normativa urbanistica, non può essere costruita. Sono restrizioni di natura estetica, ma ve ne sono altre che rispondono a motivazioni più profonde e riguardano il decoro comune e il rispetto per il sacro. Nessuna torre commerciale su Gettysburg, nessun convento ad Auschwitz — e nessuna moschea a Ground Zero. La si costruisca dove si vuole, ma non lì.
Il governatore di New York si è offerto di trovare uno spazio per realizzarla altrove. Per una moschea che cerchi sinceramente di gettare un ponte, come sembra augurarsi Rauf, l’offerta andrebbe accettata.
(Traduzione di Maria Sepa)



Una moschea a tre condizioni

Khaled Fouad Allam
Il Sole 24 Ore 18 agosto 2010
Chi è potuto andare a Ground Zero, sul sito dove una volta erano erette le Twin Towers, è preso da una strana sensazione; perché a chi lo guarda, dopo l'attentato, tornano subito in mente le immagini della distruzione e della morte di più di tremila persone. Ma questo non fu un attentato come gli altri, lì quell'undici settembre 2001 la storia del mondo cambiò radicalmente. Quell'attentato fu perpetrato in nome di un'interpretazione sbagliata dell'Islam: ovvero il cosiddetto fondamentalismo islamico, o radicalismo islamico. Un gruppo, al Qaeda, un nome, bin Laden: da allora simbolo del terrorismo più criminale.
Questo attentato non solo provocò morti e cambiò il corso della storia, ma gettò il discredito nell'opinione pubblica mondiale su una questione che già covava nel suo interno, i rapporti tra l'Islam e l'Occidente. Così, dopo l'undici settembre, i rapporti fra l'Islam e l'Occidente conobbero una tensione estrema, creando in tal modo la tentazione d'innescare un processo di colpevolezza collettiva. Per fortuna le società civili in Occidente in gran parte seppero distinguere il terrorismo politico che utilizza l'Islam come modo di legittimazione dal resto della comunità dei credenti musulmani.
Lo stesso presidente Bush affermò allora in un suo discorso che non bisognava fare di ogni erba un fascio. Nonostante tutto ciò la tensione dei rapporti fra Islam e Occidente resta ancora palpabile perché non risolta, perché con essa vengono mescolate moltissime problematiche: l'immigrazione, l'integrazione, la costruzione di una società multiculturale o multietnica, la gestione delle nuove minoranze, eccetera.
È sullo sfondo di questo dibattito molto contraddittorio e opaco, a quasi dieci anni dal triste attentato delle Twin Towers, che si dibatte sull'opportunità o meno dell'edificazione di una moschea vicino a Ground Zero: lì migliaia di persone, di tutte le religioni e nazionalità, hanno perso familiari o persone care. Non si può dunque non capire il totale disappunto e la rabbia di fronte alla volontà di costruire una moschea nelle vicinanze di quel luogo. Molti opinion-maker sottolineano il fatto che non è nelle competenze di Obama la decisione di approvazione o meno dell'edificazione di questo centro islamico. In Europa in particolare, la divisione di chi è pro e di chi è contro investe da una parte i difensori della società multiculturale e spesso dall'altra quelli che la combattono. Ma in realtà per ciò che riguarda gli Stati Uniti, il modo di trattare la diversità culturale è totalmente diverso da quello europeo, semplicemente perché è la diversità che è all'origine della genesi dello stato-nazione americano; come giustamente l'editorialista Piero Ostellino afferma: «La prova è che è stato eletto un presidente degli Stati Uniti prodotto della società multiculturale (padre africano e madre americana): Obama».
Però per capire la decisione di Obama forse bisognerebbe ricondurre tutto ciò al suo discorso del Cairo di un anno e mezzo fa, quando pose la questione del riconoscimento dei rapporti fra Islam e Occidente sia dal punto di vista storico che nel suo assetto oggi mondiale: egli sottolineò anche che il primo paese che riconobbe l'indipendenza americana fu un paese musulmano, la monarchia marocchina.
C'è dunque una certa continuità nel discorso di Obama, nella visione dei rapporti fra Islam e Occidente: per lui questa questione è centrale anche se è consapevole delle difficoltà, delle critiche che potrebbero cadergli addosso, dal rischio che questa decisione potrebbe comportare per le prossime elezioni politiche di novembre. Per lui il compito di una democrazia moderna nell'era globale è quella di sollevare le contraddizioni e di cercare di risolverle.
A mio avviso la delicatezza della situazione è tale che comunque nel caso si costruisse questa moschea, questa non sarà mai una moschea come le altre, perché lì ci fu un attentato e il mondò cambiò. Suggerisco dunque alcune proposte. Per prima cosa, ogni moschea ha un nome particolare, quindi sarà importante il nome che le verrà dato. Secondo, ogni moschea ha un suo cortile interno: lì dovrebbe essere edificato un monumento che ricordi ciò che è successo in nome di un'interpretazione errata e criminale dell'Islam. Infine, giuridicamente ogni moschea è costituita da una fondazione pia, tramite la quale i fedeli musulmani versano doni: opportuno sarebbe che questa fondazione dedicasse i suoi doni alle vittime e ai parenti delle vittime dell'attentato delle Twin Towers dell'undici settembre 2001.



Il minareto americano e i timori di casa nostra

GAD LERNER
la Repubblica 17 agosto 2010
"È UN segno di decadenza dei popoli quando gli dèi cominciano ad essere comuni... Quanto più forte è un popolo, tanto più il suo dio è particolare". Questo abbassamento di Dio a semplice attributo della nazionalità, finalizzato a indicare il popolo russo come l' unico popolo "portatore di Dio", costituisce motivo di tormento per Fedor Dostoevskij. "C hi non è ortodosso non può essere russo", scrive Dos t o e v s k i j , a n i mando un dialogo cruciale de "I demoni": "Credo nella Russia, credo nella sua ortodossia... Credo nel corpo di Cristo... Credo che il nuovo avvento sarà in Russia... Credo... - si mise a balbettare Satov, in preda all' esaltazione". È un afflato religioso di segno opposto quello che ha sospinto Barack Hussein Obama a pronunciarsi in difesa della costruzione di un centro comunitario islamico a Lower Manhattan, in prossimità di Ground Zero. Il discorso con cui Obama ha motivato la sua scomoda scelta, è stato innanzitutto il discorso di un credente. Fin dagli inizi della sua attività sociale e politica a Chicago egli ha rivendicato l' impegno pubblico come sviluppo conseguente della fede evangelica. Celebri sono i suoi richiami biblici, l' immaginarsi come un Giosuè chiamato a proseguire il cammino dei patriarchi dopo la schiavitù e la traversata del deserto. Guidando un popolo che è unico non certo perché esibisca l' idolo di un dostoevskijano "dio particolare" quale requisito d' appartenenza, ma al contrario perché capace di sommare le sue diversità. Anche la mia Pasqua ebraica è allietata dalle fotografie provenienti dalla Casa Bianca, dove il presidente americano figura come ospite e gusta il pane azzimo del seder insieme ai collaboratori. Così come lo vediamo ogni anno rompere il digiuno del Ramadan islamico partecipando alla cena dell' Iftar, celebrare il Natale cristiano e il Diwali indù. Sarà un bel giorno, temo lontano, quello in cui si celebreranno pure al Quirinale analoghe cerimonie di concittadinanza. Lungi dal proporre ambigui modelli di sincretismo, esse favoriscono il riconoscimento della funzione pubblica imprescindibile delle religioni, e di certo non offendono i non credenti. La laicità dello Stato non ne subisce alcuna minaccia. Lo ha spiegato Obama venerdì, nel suo breve ma storico discorso dell' Iftar: "Ad attestare la saggezza dei nostri fondatori, l' America è rimasta un Paese profondamente religioso: una nazione dove persone di confessioni diverse sono capaci di convivere pacificamente, nel rispetto reciproco, in netto contrasto con i conflitti religiosi tuttora in atto in altre parti del mondo". Certo anche gli Stati Uniti, colpiti nove anni fa dall' attentato fondamentalista alle Torri gemelle, sono attraversati da una pulsione reazionaria tendente a plasmare la falsa tradizione di un "dio particolare" d' America - ad uso riservato di protestanti, cattolici, ortodossi e ebrei - contrapposto agli dèi altrui e quindi negatore del Dio comune. Ma a New York sono in attività cento moschee islamiche e nessuno, dopo l' 11 settembre 2001, si è mai sognato di proporne la chiusura. Al contrario, il sindaco (ebreo) della metropoli, Michael Bloomberg, ha fin da subito condiviso il progetto di edificare vicino a Ground Zero un centro culturale e religioso islamico che il proprietario dell' area, un cittadino americano di madre polacca e padre egiziano, vuole intitolare alla mitica Cordoba, città-simbolo di una convivenza armoniosa tra fedi e saperi nella Spagna medievale. New York ci appare così distante anni luce dalla nostra Milano, dove una volta ancora il Ramadan deve celebrarsi in una tensostruttura provvisoria visto che le autorità cittadine si rifiutano di consentirvi l' edificazione di una moschea. Litigano per accaparrarsi i fondi dell' esposizione universale convocata nel 2015, pensando seriamente che un incontro definito, appunto, "universale" possa svolgersi là dove si nega un' adeguata sede di culto a una religione che conta più di un miliardo di fedeli. Può darsi che il presidente Obama sia spaventato dalle divisioni suscitate tra gli americani dal suo discorso. Domenica ne ha minimizzato le conseguenze, precisando che le sue affermazioni di principio non vanno considerate un' interferenza nella decisione sul Centro Cordoba, spettante alle autorità cittadine. Ma prima che sopravvenissero i vincoli della realpolitik, è dal patrimonio della sua fede personale che Obama ha attinto l' ispirazione profetica. Sto parlando della fede in un Dio che apre gli occhi e i cuori, aiutandoci a ben distinguere fra l' islam nel suo insieme e al Qaeda. Un Dio fiducioso nelle virtù benefiche della preghiera e della riflessione culturale. Perché non credere che i musulmani riuniti in quell' edificio vicino al luogo-simbolo della memoria insanguinata di New York, ne potranno trarre ispirazione alla saggezza e alla condivisione del lutto? Destinati come già sono a vivere nella metropoli comune, lo spirito americano di cui Obama è un testimone li instrada a partecipare della sua contrizione. Chi viceversa si batte per un divieto che violerebbe la legislazione americana sulla proprietà privata e sulla libertà di culto, anteponendole motivi d' opportunità, sposa una visione staticae disanimata della religione. Sfiduciato e privo di fede, considera il monoteismo islamico perduto e riduce il suo grande misteroa mero fanatismo. Con la stessa miopia che in passato portò altri intolleranti a negare i diritti delle medesime confessioni che oggi pretende di cooptare nel suo falso "dio particolare" d' America. Non a caso fra i più accaniti condottieri della crociata contro "la moschea di Ground Zero" spiccano gli esponenti dei Tea parties che insistono nel chiamare Obama col suo secondo nome, Hussein, sostenendo che il presidente sia un infiltrato di al Qaeda al vertice degli Usa. Farneticazioni minoritarie disseminate come vox populi per gli ignoranti, da parte di chi non digerisce ancora l' accadimento dirompente rappresentato dall' elezione di un meticcio con sangue afroamericano alla Casa Bianca. Il corrispettivo italiano, lo conosciamo bene. Siede nei banchi del nostro governo. Definisce "imam" l' arcivescovo di Milano solo perché in assenza di una voce pubblica disposta a fronteggiare il pregiudizio nei confronti dei musulmani, osa chiedere che essi possano pregare in luoghi degni edificati a questo fine. Ma soprattutto il corrispettivo italiano degli avversari di Obama esprime in versione caricaturale, sia pure inconsapevole, la bestemmia slavofila narrata da Dostoevskij: secondo cui il sacro risiederebbe nel popolo stesso, in quanto legittimo portatore della tradizione quand' anche essa si sia distaccata, storicamente, dal Vangelo. Cittadinanza e battesimo come sinonimi; buoni a fronteggiare l' Altro, a prescindere dal credere e tanto meno dal testimoniare nei comportamenti di vita. Non a caso anche l' ebraismo si divide sulla vicenda della "moschea di Ground Zero". Da una parte i favorevoli, come il sindaco Bloomberg, che agli argomenti di natura costituzionale affiancano il richiamo ai principi fondamentali della Torah; dall' altra i contrari, guidati dall' Anti-Defamation League, i cui argomenti sempre meno derivano dalla Legge fondativa dell' ebraismo, affidandosi piuttosto a una sorta di nuova religione della Shoah. Il loro argomento è storicoemotivo: autorizzereste la costruzione di un centro culturale tedesco dentro Auschwitz? (Mia risposta personale: a duecento metri di distanza, perché no?) Si tratta di esponenti mossi da finalità politiche, che vorrebbero però assolutizzare col ricatto morale, rivestendo arbitrariamente i panni dei portavoce delle vittime. Nella visione di costoro l' ebraismo, sul finire del suo quinto millennio, cercherebbe fondamento sempre meno nei principi biblici, e sempre più su una supposta rappresentanza degli sterminati. Temo questo abuso del senso di colpa, già manifestatosi ampiamente sui mass media statunitensi a proposito del Centro Cordoba di Manhattan, e che avvicinandosi il decennale dell' 11 settembre 2001 vedrà scatenarsi la competizione per la "legittima" rappresentanza politica dei tremila caduti nell' attentato. Ignoro se sia concessa a un presidente degli Stati Uniti la possibilità di promuovere, nell' esercizio delle sue funzioni, una visione profetica. È difficile, improbabile. Ma quando dice sì a un impegno incrollabile per la libertà religiosa e afferma "Ecco, questa è l' America!", noi sappiamo che Obama indica anche il destino di quel mosaico che è il mondo contemporaneo, una volta attraversata la stagione di conflitti che di religioso non hanno proprio nulla.



Il minareto americano Usa, chi ha paura delle moschee

Federico Rampini
la Repubblica 17 agosto 2010
«Questa è l' America, un Paese cristiano, non musulmano. Quella gente ci odia, leggete cosa gli insegna il Corano: che noi infedeli dobbiamo essere uccisi». Zorina Bennett, 50 anni, è accampata su un' aiuola di fronte all' Islamic Center di Temecula, cittadina californiana a un' ora di autostrada a sud-est di Los Angeles. La Bennett ha portato il suo cane Meadow al picchetto di protesta: un gesto di sfregio per la comunità islamica che vuole costruire in quel sito una nuova moschea, e considera i cani impuri. Da un mese, ogni weekendi due gruppi tornano ad affrontarsi,a scambiarsi accuse e slogan. Fred Carlson, camionista, posteggia il suo Tir di fronte al centro islamico e urla che l' islam è «una religione medievale» e i suoi seguaci saranno affidabili «solo se denunciano il terrorismo senza riserve». Diana Serafin, pensionata 59enne e seguace del Tea Party, è in prima fila tra i manifestanti di Temecula. «Come mamma e nonna - dice - sono spaventata. Al ritmo con cui fanno i figli loro, fra vent' anni i musulmani ci schiacceranno. Il loro obiettivo è mandare al Congresso dei rappresentanti che facciano rispettare la legge del Corano. Non voglio che i miei nipoti vivano in un Paese simile». A 3.873 chilometri da Ground Zero, gli inviati del New York Times e del Los Angeles Times accorrono a Temecula, «l' altra moschea» la cui costruzione è un focolaio di tensioni. Nel microcosmo di questa cittadina gli animi s' incendiano come a Manhattan. (segue dalla copertina) Nel fronte favorevole alla moschea di Temecula non ci sono solo gli abitanti locali di religione islamica. C' è David French, pastore metodista, sceso in campo per difendere il progetto: «Gli avversari - dice - non sono rappresentativi di questa città, sono una frangia di fanatici, soffiano sulla paura della gente». Con lui è schierato Larry Sussler, mormone: «Io conosco i musulmani di qui - dice - è gente per bene, inserita professionalmente, bravi cittadini e veri americani». La sorpresa è proprio questa. Il Temecula Islamic Center esiste da dieci anni, nell' area industriale della cittadina, e non ha mai avuto problemi in precedenza. L' idea di aprirvi una moschea, a fianco del centro culturale, era parsa pacifica. Che differenza poteva fare una moschea in più, in un Paese che ne annovera 1.900? Molti sono stati presi alla sprovvista dalla mobilitazione locale del Tea Party, l' ala movimentista e radicale della destra repubblicana, i cui militanti picchettano il centro islamico per impedire che avanzi il progetto di moschea. «È pura e semplice ignoranza», commenta Salam Al-Marayati che dirige il Muslim Public Affairs Council di Los Angeles. E aggiunge, sereno: «Paura e febbre isterica sono come la schiuma alla superficie dell' acqua, passeranno». Di tutt' altro tenore è la reazione dell' imam Mahmoud Harmoush, docente alla California State University di San Bernardino: «Le famiglie musulmane di Temecula hanno sempre versato donazioni generose alle organizzazioni filantropiche locali, si sono mobilitate per mandare aiuti a New Orleans dopo l' uragano Katrina, hanno partecipato alle celebrazioni di Thanksgiving insieme ai cristiani. Nessuno sembrava far caso alla loro presenza. Adesso di colpo il progetto della moschea fa esplodere tutta questa ostilità». Harmoush come altri musulmani è stupefatto e impaurito dal clima che si respira in questi giorni, da scontro di civiltà. Un clima che Barack Obama ha involontariamente esasperato. Le parole che il presidente ha pronunciato venerdì alla Casa Bianca, durante la cena spezza-digiuno del Ramadan, avallando il progetto di moschea a Ground Zero, hanno gettato carburante sull' incendio. La spaccatura del Paese era già evidente, però. Ben prima che Obama scendesse in campo per Ground Zero, la controversia sulla moschea di Manhattan non era affatto l' unica. L' America di oggi si lacera su tante "Temecula". In Florida una Chiesa protestante vuole celebrare il prossimo 11 settembre bruciando in piazza il Corano. Sul sito Internet di questa Chiesa, che si fa chiamare «colomba», il Dove World Outreach Center, si legge che nessuna nuova moschea deve sorgere in America, e le scuole islamiche già esistenti vanno chiuse. «L' islam è il diavolo e il nuovo nazismo», sostiene il suo pastore che viene spesso intervistato dalla Cnn. Nell' Oklahoma il Parlamento locale ha approvato un referendum per impedire espressamente che la sharia coranica possa un giorno diventare legge dello Stato. Per quanto sia poco probabile un simile evento in Oklahoma, i legislatori non hanno esitato: quel referendum s' ha da fare. Altre proteste dilagano dal Tennessee, dove centinaia di manifestanti hanno sfilato in corteo contro un progetto di nuova moschea a Murfreesboro, al Wisconsin dove è scoppiata una vera e propria rissa tra pastori protestanti e imam, sempre su un piano di costruzione di un luogo di culto islamico. L' America si scopre in preda a una larvata guerra di religione, proprio lei che ne sembrava immune. Ancora poco tempo fa il «modello americano» sembrava stagliarsi come un' eccezione mondiale. Questo Paese non ha mai avuto al suo interno segnali di ostilità nelle comunità islamiche paragonabili alle rivolte dei giovani di origine maghrebina nelle banlieues di Parigi. A differenza degli attentati di Londra o di Mumbai, i terroristi che hanno ordito attacchi sul suolo degli Stati Uniti non godevano di appoggi e simpatie nelle comunità locali. Impegnati in guerre lontane in Afghanistan e in Iraq, gli americani si sentivano rassicurati di non dover combattere anche una «guerra interna». Ora l' immagine armoniosa del melting pot, della capacità d' integrazione di tutte le etnie immigrate, vacilla paurosamente. E l' intervento di Obama non ha migliorato le cose. Il New York Times mette in evidenza l' analisi impietosa di Ross Douthat sulla spaccatura verticale che divide due Americhe: «C' è un' America dove non conta che lingua parli, quale Dio preghi, o quanto sono profonde le tue radici locali. In questa nazione la fedeltà alla Costituzione conta più delle differenze etniche, linguistiche e religiose. Ma esiste anche un' altra America, che considera se stessa una cultura e una civiltà, non solo un elenco di principi politici. Questa nazione parla inglese, non spagnolo o cinese o arabo. Trae le sue norme sociali dall' etica della diaspora anglosassone, originariamente protestante, poi capace di integrare cattolici ed ebrei in un consenso giudeo-cristiano. Questa America pretende che i nuovi arrivati dell' immigrazione adottino le sue norme, e velocemente. Questa nazione sospetta che l' islam sia incompatibile con il suo modo di vita». Douthat ricorda che la pressione per l' assimilazione ai valori della prima diaspora anglosassone è stata efficace: ha costretto i mormoni ad abbandonare la poligamia e le minoranze cattoliche a sposare senza riserve la laicità dello Stato e la liberaldemocrazia. Nel confronto plurisecolare tra queste due Americhe, Obama ha fatto la sua scelta di campo senza indugi. Non ha «autorizzato» la costruzione della moschea di Ground Zero - una decisione che spetta solo alle autorità locali - però ha voluto affermare con nettezza «il diritto di costruire un luogo di preghiera» per i musulmani a Ground Zero. Di fronte al divampare delle accuse, nei giorni successivi il presidente non ha ritrattato nulla. Ma alcuni suoi consiglieri hanno tentato di smorzare il senso delle sue parole. E con rare eccezioni, dal partito democratico un silenzio imbarazzato ha accolto la dichiarazione del presidente. La destra è convinta che Obama la pagherà cara. I repubblicani sono saltati sull' occasione, vogliono trasformare Ground Zero in un tema dominante nelle elezioni legislative di novembre. Un tema ideale, perché secondo i sondaggi quasi il 60 per cento degli americani disapprova la costruzione della moschea vicino al sito delle Torri gemelle. Ogni candidato democratico sarà chiamato a pronunciarsi: dovrà sconfessare il suo presidente,o rischiare l' impopolarità, questa è la tattica che la destra userà da qui a novembre. Newt Gingrich, leader storico del partito repubblicano, suggerisce una linea dura: «Questo presidente flirta con l' islamismo radicale. Le moschee sono il simbolo di una religione bellicosa e trionfante. Costruirne una vicino all' attacco dell' 11 settembre è come mettere una svastica nazista vicino al museo dell' Olocausto». Il presidente dei senatori repubblicani John Cornyn accusa il presidente di aver «perso ogni contatto con l' America profonda». Perfino uno stratega del partito democratico come Martin Forst, con più cautela, ammette che la nobile uscita di Obama può essere un autogol: «I suoi principi sono lodevoli, ma qualche volta vorrei che questo presidente fosse un po' più politico e un po' meno professore».



Fuga dai centri per gli immigrati Dietro le rivolte una regia comune

SANDRO DE RICCARDIS
la Repubblica 17 agosto 2010
MILANO - Ancora rivolte nei Centri di identificazione ed espulsione, un' altra ondata di rabbia ed esasperazione da Nord a Sud: prima la fuga di dieci immigrati dal centro di Restinco, alle porte di Brindisi, la sera di Ferragosto; poche ore dopo i disordini nei Cie di via Corelli a Milano e Gradisca d' Isonzo, Gorizia, con altri reclusi che fanno perdere le proprie tracce. Rivolte che si ripetono ad appena un mese da quelle scoppiate contemporaneamentea Milanoe Gradisca, lo scorso 18 luglio, quando tre stranieri riuscirono a scappare da via Corelli. Con modalità che per le forze dell' ordine rivelano un' unica regia, anche se a esasperare gli animi è la proroga di mese in mese alla detenzione subita dagli stranieri, irregolari ma incensurati. A Milano i disordini iniziano all' una di ieri notte con 18 ospiti del centro - 17 nordafricani e una trans brasiliana - che salgono sul tetto e tentano la fuga. Solo un algerino di 21 anni riesce a superare il muro di cinta e sparire nelle campagne. La fuga dei 17 finisce invece contro scudi e manganelli della polizia: cinque stranieri restano feriti, tre vengono ricoverati in ospedale per contusioni riportate nel tentativo di saltare dai tetti, sei agenti sono lievemente contusi. Per tutti i rivoltosi scatta la denuncia per danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale. Negli stessi minuti, la rivolta, ancora più violenta, esplode a Gradisca, dove sono 25 gli immigrati che forzano le porte di un campetto di calcio e fuggono. Otto vengono bloccati subito, sei sono rintracciati ieri mattina, undici ritrovano la libertà. Con l' approvazione del pacchetto sicurezza che ha portato a sei mesi il tempo massimo di detenzione, molti clandestini si vedono prolungare la loro permanenza proprio quando pensavano di tornare liberi. Così scoppiano le rivolte, destinate ad aumentare. Già questa mattina, solo al tribunale di Milano sono previste nove proroghe. «Finché ci saranno carceri dove si è detenuti per sei mesi senza aver commesso alcun reato, gli stranieri non poLA RABBIA L' esasperazio ne è per la sproporzione fra l' illecito e i tempi di reclusione tranno far altro che tentare di fuggire» accusa Mauro Straini, legale di stranieri in via Corelli. «L' esasperazione nasce dall' enorme sproporzione tra l' illecito amministrativo e i tempi di reclusione» aggiunge Domenico Tambasco, avvocato d' ufficio di sei clandestini ai quali è stata concessa la proroga venerdì. Intanto le violenze a Milano spaccano il centrodestra con il vicesindaco Riccardo De Corato che polemizza col ministro degli Interni Roberto Maroni per il suo rifiuto a creare un nuovo centro a Malpensa, mentre il deputato del Pd Emanuele Fiano definisce via Corelli un «istituto paracarcerario, le cui caratteristiche porteranno a nuove violenze».



Rom e integrazione. Missione possibile

Mazza Luca
Avvenire di martedì 17 agosto 2010
nei campi nomadi per organizzare corsi di igiene e formazione rivolti in particolare a mamme e bambini e lezioni di primo soccorso Roma sarà la città pilota DA MILANO LucA MAZZA Dosta! Lo dice l'Unione europea, che ormai da molto tempo chiede alle istituzioni italiane di adottare misure concrete. Ma rappresenta il grido di tutte le persone che rispettano ed hanno a cuore la vita di ogni essere umano. Dosta è una parola rom e significa «basta». Basta con l'ingiustizia. E basta con la violazione dei diritti umani ai danni di una pop lazione che troppo spesso fa notizia solo in casi di cronaca nera. Adesso per sembrano aprirsi strade nuove e scenari interessanti per quanto riguarda la questione relativa all'integrazione dei rom. Politiche di intervento concrete. LaCri, infatti, hafirmato in questi giorni un protocollo con la Croce rossa romena, che permetterà l'invio in Italia, allafine dell'estate, di almeno sei operatori dell'Est, che entreranno nei campi nomadi (soprattutto in quelli dove la presenza romena è particolarmente significativa) insieme ai colleghi italiani per iniziare a porre le basi per un progetto di integrazione. Roma sarà la città pilota, se il piano dovesse funzionare si estenderà nei prossimi mesi anche in altre città italiane. Uiniziativa è rivolta a tutti, ma in particolare ai giovani, nati in Italia, aperti al futuro, pi interessati alla prospettiva d i integrazione anche perché meno legati a tradizioni e costumi molto radicati nelle precedenti generazioni.
Marco Squicciarini, responsabile nazionale della Cri per le attività di accoglienza e assistenza alle popolazioni Ram e ai soggetti senza fissa dimora, e Anna Maria Pulzetti (Cri provinciale) stanno lavorando da mesi a questo progetto. «Per arrivare a realizzare politiche di integrazione valide e durature nel tempo sostiene Squicciarmni è indispensabile, oltre ad avere a disposizione delle strutture adeguate e con accesso a luce ed acqua, fornire a queste persone una serie di strumenti (conoscenze e assistenza sanitaria in primis) che permettano loro di essere una risorsa per la società in cui vivono». Si partirà con l'oranizzazione di appositi corsi all interno delle strutture. Sono in programma lezioni di primo soccorso, di igiene per mamme e bambini e corsi di formazione. In futuro potrebbero essere organizzati anche corsi di avvia- mento al lavoro, con mestieri socialmente utili. Gli interventi della Cri prestano particolare attenzione al problema della difficile convivenza tra le comunità rom di diversa provenienza per evitare lo scoppio di tensioni che possano lacerare la coesione sociale.
La Croce Rossa ha avuto nei mesi scorsi anche un ruolo importante nella chiusura di un campo non autorizzato come il Casiino 900 di Roma. In questi giorni, sempre nella Capitale, si sta procedendo allo sgombero del campo abusivo de La Martora'. verranno a breve realizzate altre tre strutture lontane dai centri abitati e che si andranno ad aggiungere alle otto autorizzate già presenti nell'hinterlarid romano. Il sindaco Alemanno ha garantito che «dal 2011 ci saranno solo campi controllati».
Iniziative come quelle promosse dalla Cri, in ottica integrata e con azioni sussidiarie all'intervento dello Stato, si aggiungono a quelle messe in campo anche dalle istituzioni locali. A Roma, ad esempio, nei mesi scorsi è nato Retis , un progetto di inclusione sociale per i nomadi. Il via a settembre Firmato nei giorni scorsi accordo di collaborazione con la Croce Rossa romena Verranno inviati in Italia una serie di operatori che insieme ai colleghi italiani entreranno *** avviamento ;1] COMMISSARIO CRI;0] Rocca: le distanze si colmano con dialogo e scuola «Il nostro motto è Bridging the gap . E il ponte per colmare le differenze e le distanze pu essere costruito solo attraverso il dialogo, la conoscenza e la cultura». Ci crede nel progetto di integrazione dei Rom, Francesco Rocca, commissario straordinario della Croce rossa italiana. Un'iniziativa ambiziosa ma allo stesso tempo possibile da attuare, che trova le sue fondamenta nel lavoro svolto negli ultimi mesi dai volontari della Cri all'interno dei campi nomadi. «Nella chiusura del Casilino 900 racconta Rocca gli operatori sono intervenuti insediamento per insediamento per convincere la popolazione Rom che la chiusura di un centro abusivo non doveva essere interpretata con il : messaggio del tornatevene a casa , ma come un passo per un futuro diverso, e quindi migliore». Il commissario della Cri racconta come e quando nasce l'idea del progetto: «In occasione dell'assemblea generale della Federazione internazionale della Croce Rossa a Nairobi, in Kenya, ho incontrato il presidente della Croce Rossa romena. Si è creata subito una certa sintonia e sono state gettate le basi per questo accordo di collaborazione». Per Rocca questa è un'iniziativa che non va in contrasto con la percezione di ìnsicurezza dei cittadini, anzi. «Se i nomadi sono integrati nella società, sono anche potenzialmente meno pericolosi e le persone avvertiranno una maggiore sicurezza» Quello dell'awiamento al lavoro sarà un step successivo: «Ora siamo in una situazione di emergenza sociale conclude Non è possibile che nel 2010 ci siano ancora campi abusivi e popolazioni che vivono senza acqua potabile ed elettricità. Adesso è questa la priorità».

(Lu. Ma.) ***


Rom e integrazione missione possibile

Avvenire 17 agosto 2010
LUCA MAZZA
Dosta! Lo dice l'Unione euro¬pea, che ormai da molto tempo chiede alle istituzio¬ni italiane di adottare misure con¬crete. Ma rappresenta il grido di tutte le persone che rispettano ed han¬no a cuore la vita di ogni essere umano. Dosta è una parola rom e si¬gnifica «basta». Basta con l'ingiusti¬zia. E basta con la violazione dei diritti umani ai danni di una popola¬zione che troppo spesso "fa notizia" solo in casi di cronaca nera. Adesso però sembrano aprirsi strade nuove e scenari interessanti per quanto ri-guardala questione relativa all'inte-grazione dei rom. Politiche di inter-vento concrete. La Cri, infatti, ha fir¬mato in questi giorni un protocollo con la Croce rossa romena, che per¬metterà l'invio in Italia, alla fine del¬l'estate, di almeno sei operatori del¬l'Est, che entreranno nei campi no¬madi (soprattutto in quelli dove la presenza romena è particolarmen¬te significativa) insieme ai colleghi italiani per iniziare a porre le basi per un progetto di integrazione. Roma sarà la città pilota, se il piano doves¬se funzionare si estenderà nei pros¬simi mesi anche in altre città italiane. L'iniziativa è rivolta a tutti, ma in particolare ai giovani, nati in Italia, aperti al futuro, più interessati alla prospettiva dell'integrazione anche perché meno legati a tradizioni e co¬stumi molto radicati nelle prece¬denti generazioni. Marco Squicciarini, responsabile na¬zionale della Cri per le attività di ac¬coglienza e assistenza alle popolazioni Rom e ai soggetti senza fissa dimora, e Anna Maria Pulzetti (Cri provinciale) stanno lavorando da mesi a questo progetto. «Per arriva-re a realizzare politiche di integra-zione valide e durature nel tempo -sostiene Squicciarini - è indispen-sabile, oltre ad avere a disposizione delle strutture adeguate e con ac-cesso a luce ed acqua, fornire a queste persone una serie di strumenti (conoscenze e assistenza sanitaria in primis) che permettano loro di essere una risorsa per la società in cui vivono». Si partirà con l'organizzazione di appositi corsi all'interno delle strutture. Sono in programma lezioni di primo soccorso, di igiene per mamme e bambini e corsi di formazione. In futuro potrebbero essere organizzati anche corsi di avvia¬mento al lavoro, con mestieri socialmente utili. Gli interventi della Cri prestano particolare attenzione al problema della difficile convivenza tra le comunità rom di diversa provenienza per evitare lo scoppio di tensioni che possano lacerare la coesione sociale.
La Croce Rossa ha avuto nei mesi scorsi anche un ruolo importante nella chiusura di un campo non au-torizzato come il Casilino 900 di Roma. In questi giorni, sempre nella Capitale, si sta procedendo allo sgombero del campo abusivo de "La Martora". Verranno a breve realizzate altre tre strutture lontane dai centri abitati e che si andranno ad aggiungere alle otto autorizzate già presenti nell'hinterland romano. Il sindaco Alemanno ha garantito che «dal 2011 ci saranno solo campi controllati».
Iniziative come quelle promosse dalla Cri, in ottica integrata e con azioni sussidiarie all'intervento dello Sta¬to, si aggiungono a quelle messe in campo anche dalle istituzioni locali. A Roma, ad esempio, nei mesi scorsi è nato "Retis", un progetto di inclusione sociale per i nomadi.





Moschea al naso a Ground Zero

Marco d'Eramo
il Manifesto 15 agosto 2010
Sì al centro islamico nel «luogo sacro» dell'11 settembre. Tra le proteste degli ultrà, il presidente cerca di ritrovare la vena che lo portò alla Casa Bianca
Lo scontro di civiltà si sta combattendo dentro gli Stati uniti, e la battaglia è tra cittadini statunitensi. È quanto si può trarre dalla vicenda della «Moschea di Ground Zero» a favore della quale venerdì sera (le prime ore di ieri in Italia) ha gettato tutto il proprio peso e la propria autorità il presidente degli Usa, Barack Obama, che parlava a esponenti musulmani durante una cena offerta alla Casa bianca per celebrare il Ramadan, il mese del digiuno islamico.
Ricapitoliamo: un imam, Abdul Faisal Rauf, e un promotore immobiliare, Sharif Gamal, hanno presentato all'inizio di quest'anno il progetto di un Centro islamico di 13 piani, da costruire al posto di un vecchio edificio pericolante a tre isolati da Ground Zero, là dove prima degli attentati dell'11 settembre 2001 sorgevano le Torri Gemelle.
L'edificio in vetro e cemento (da 100-150 milioni di dollari) dovrebbe ospitare un centro culturale, una sala da 500 poltrone, una scuola di cucina, uno spazio espositivo, palestre, piscine, campi di basket, ristorante, biblioteca e studi cinematografici. Gli ultimi due piani dovrebbero ospitare uno spazio di preghiera sormontato da una cupola. L'edificio da demolire - che un tempo ospitava una fabbrica tessile, la Burlington Coat - era stato comprato per 4,8 milioni di dollari dalla Soho Properties, la società di Sharif Gamal, 38-enne promotore newyorkese, occhi azzurri, madre polacca e padre egiziano.
All'inizio Gamal voleva costruirvi un condominio. A convincerlo a lanciare un centro culturale islamico è stato l'imam Abdul Faisal Rauf, un laureato in fisica alla Columbia University, che predicava in una piccola moschea di Tribeca e che da molti anni è fautore del dialogo interreligioso. Gamal e Rauf hanno così lanciato il Cordoba Institute che vuole migliorare le relazioni tra Ovest e Islam.
L'idea del centro islamico l'hanno plasmata sul modello del centro ebraico 92Y (sulla 92-sima strada nel quartiere di Yorkville), un punto di riferimento nella vita culturale newyorkese. Secondo Gamal e Rauf, la prossimità a Ground Zero ne farebbe un monumento alla libertà religiosa negli Usa. Di quest'opinione è anche il sindaco Michael Bloomberg, che sin dall'inizio ha appoggiato quella che è ormai chiamata la Moschea di Ground Zero, anche se ne dista più di 200 metri. Il Centro è stato appoggiato da varie associazioni newyorkesi, da organismi interconfessionali, da rabbini e da familiari delle vittime dell'11 settembre.
Ma altri si sono opposti con ferocia. Intanto l'immancabile Sarah Palin, l'ex candidata repubblicana alla vicepresidenza Usa nella campagna di due anni fa, e con lei il leader (ormai usurato) della «rivoluzione repubblicana» del 1994, Newt Gingrich. Non poteva mancare nel coro il senatore del Connecticut Joe Lieberman, democratico che vota sempre repubblicano ed esponente dell'ala più conservatrice dell'ebraismo Usa. Contro il progetto si è pronunciata infatti anche la potente Anti-Defamation League (Adl, un'associazione ebraica che si prefigge di «combattere bigotteria, pregiudizio e razzismo»), che per prima ha tirato in ballo il paragone con Auschwitz: infatti ha comparato questo centro islamico con il convento che le suore carmelitane costruirono nel 1984 appena fuori dal perimetro del lager di Auschwitz e che papa Giovanni Paolo II convinse a spostare di qualche centinaio di metri: l'Adl si dice favorevole alla costruzione di un centro islamico a New York, ma contraria alla sua ubicazione che avrebbe - dicono - un effetto boomerang e aizzerebbe le ostilità invece di favorire il dialogo. Contro l'Adl hanno polemizzato altri esponenti ebrei, tra cui il premio Nobel per l'economia e columnist del New York Times Paul Krugman. Questa settimana l'autorevole columnist conservatore Charles Krauthammer ha rielaborato il paragone dicendo che è come se si volesse costruire un centro culturale tedesco dentro Auschwitz.
In realtà quando il consiglio di quartiere è andato ai voti, su 40 vi sono stati 29 favorevoli alla moschea, 10 contrari e un astenuto. La settimana scorsa infine, è stato rimosso l'ultimo ostacolo al progetto di centro islamico quando è stata respinta la richiesta di catalogare la fabbrica della Burlington Coat come monumento storico (per impedirne la demolizione).
Quel che la «Moschea» sta tirando fuori è qualcosa che percorre da tutta l'estate gli Usa e cioè il rigurgito (non si può parlare di rinascita, visto che non si era mai estinto) del vittimismo bianco e cristiano. I bianchi sarebbero vittime di tutti: dei neri, visto che il progetto politico di Obama è - secondo questi neovittimisti - «farla pagare ai bianchi per il loro schiavismo passato»; dei latinos che «ci invadono dalla frontiera sud» e che andrebbero fermati a suon di fucilate dalle ronde di vigilantes; vittime i cristiani lo sono anche dei terroristi islamici che «nei loro paesi non ci consentono di costruire chiese mentre riempiono i nostri di moschee».
Insomma è l'ideologia dei Tea parties, che ricicla il vecchio razzismo della John Birch Society. Un esempio è Pamela Geller, esuberante blogger 51-enne di estrema destra, membro del gruppo Stop Islamization of America. Come altri esponenti dei Tea Parties, per Geller «la Moschea è un monumento ai dirottatori dell'11 settembre». Geller è famosa da quando ha diffuso in rete un suo videoblog da una spiaggia d'Israele in cui in bikini denunciava Hamas e Hezbollah. Geller ha costellato gli autobus di New York di poster rivolti ai musulmani in cui li invita ad «abbandonare la falsità dell'Islam». Geller è quindi la tipica Tea Party che insiste nel chiamare Obama col suo secondo nome (Hussein), che sostiene abbia frequentato le madrasse (scuole coraniche) durante la sua infanzia in Indonesia e che sarebbe un infiltrato di al Qaeda negli Usa. Infatti è coautrice di un libro su Obama, Post-American Presidency, che descrive «il suo internazionalismo socialista, i suoi legami con gli odiatori dell'America e gli antisemiti, il suo razzismo esasperato. Sta tradendo Israele, attaccando la libertà di parola e rifiutando di compiere passi concreti per fermare il programma nucleare iraniano».
È quindi questa frangia di opinione pubblica che Obama ha preso frontalmente di petto venerdì sera, anche contro il parere dei suoi consiglieri. Fino alla sua uscita infatti, il portavoce della Casa bianca, Robert Gibbs, era stato straordinariamente reticente, trincerandosi dietro un conflitto di competenze (che sono della città di New York, non dello stato federale). È un atto coraggioso da parte di Obama, se si tiene conto che, secondo l'ultimo sondaggio della Cnn, il 68% degli americani è contrario a una moschea nello vicinanze di Ground Zero. Tanto che la discrezione di Gibbs è stata adottata anche dalla stragrande maggioranza dei parlamentari democratici.
Ma esponendosi, Obama ottiene due risultati. Da un lato attenua l'immagine di politico sempre pronto al compromesso che gli si è attaccata addosso in questi due anni, e si presenta come uomo di princìpi: «Come cittadino, e come presidente, credo che i musulmani hanno lo stesso diritto di praticare la loro religione quanto ogni altro in questo paese. Capisco le emozioni generate da questo tema. Ground zero è certo un terreno sacro. Ma questa è l'America, e il nostro impegno per la libertà religiosa deve essere incrollabile. Il principio per cui persone di tutte le fedi sono benvenute in questo paese e non saranno trattate diversamente dallo stato è essenziale a quel che noi siamo».
Dall'altro lato Obama cerca di rimotivare i suoi giovani sostenitori che non sono più così entusiasti come due anni fa e rischiano di astenersi alle elezioni di metà mandato tra poco più di due mesi. Con questo gesto Obama cerca di ricostituire un Noi progressista ridefinendosi in contrapposizione ai Tea parties.













Share/Save/Bookmark
 


 

Perchè Italia-Razzismo 


SPORTELLO LEGALE PER RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO

 

 


 

SOS diritti.
Sportello legale a cura dell'Arci.

Ospiteremo qui, ogni settimana, casi, vertenze, questioni ancora aperte o che hanno trovato una soluzione. Chiunque volesse porre quesiti su singole situazioni o tematiche generali, relative alle norme e alle politiche in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza nonché all'accesso al sistema di welfare locale da parte di stranieri, può farlo scrivendo a: immigrazione@arci.it o telefonando al numero verde 800905570
leggi tutto>

Mappamondo
>Parole
>Numeri

Microfono,
la notizia che non c'è.

leggi tutto>

Nero lavoro nero.
leggi tutto>

Leggi razziali.
leggi tutto>

Extra-
comunicare

leggi tutto>

All'ultimo
stadio

leggi tutto>

L'ombelico-
del mondo

Contatti


Links