Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

27 febbraio 2015

In difesa del multiculturalismo
la Repubblica, 27-02-2015
Corrado Augias
Caro Augias, ho letto di recente su Repubblica la lettera di una signora che propugnava il multiculturalismo. Secondo gli etologi, gli esseri viventi che conducono vita sociale hanno insiti meccanismi associativi. Quando sono attivati, l`aggressività tra i componenti il gruppo cade a zero, mentre è massima nei confronti degli "estranei". Peri babbuini ad esempio cade a zero l`aggressività interna in presenza di un ` leopardo, il gruppo si compatta per combattere in màniera cooperativa il pericolo. Sempre secondo gli etologi, negli umani questi meccanismi sono attivati non solo dal nemico, ma anche da tutto ciò che rientra in ciò che chiamiamo cultura: lingua, religione, abiti, tradizioni, usanze, pratiche, credenze varie. Ecco perché ritengo che il multiculturalismo sia destinato al fallimento. L`unica via è l`integrazione. Cito il caso di Sonia Maino ( Gandhi) che, deciso di andare a vivere in India, adottò abiti e costumi indiani e ha avuto la luminosa vita che sappiamo.
Rodolfo Pescador, Massa - Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.
Il principio esposto dal signor Pescador è noto e applicato non solo tra i babbuini. Possiamo ritenerlo addirittura un metodo di governo. Non c`è stato al mondo potere in difficoltà che non abbia scovato- o inventato -un nemico esterno per diminuire il peso e i rischi dei contrasti interni. Scendendo molto di livello anche i compagni di classe che si coalizzano contro chi appare diverso per abiti, colore della pelle, tendenze sessuali, applicano senza saperlo e a fini abietti lo stesso principio. Un grande Paese di immigrati come gli Stati Uniti ha coltivato per anni il sogno di essere un immenso crogiolo. Georges Perec scrisse un libro su Ellis Island (Archinto ed.) dove si legge: «Ellis Island è stata una specie di fabbrica per la confezione di americani, un luogo per trasformare gli emigranti in immigranti, una fabbrica in stile americano, rapida ed efficiente come uno stabilimento per le salsicce di  Chicago. Si metteva un irlandese o un ebreo ucraino o un italiano delle Puglie da una parte e dall`altra dopo vaccinazione, disinfestazione, esame degli occhi e delle tasche-usciva un americano bell`e fatto». Il sogno del crogiolo s`è dissolto; oggi si parla piuttosto di "insalatiera": molte verdure diverse e variopinte tutte però nello stesso contenitore. Noi siamo diversi dai babbuini (non un granché, quel tanto che basta ) perché abbiamo imparato a domare gli istinti conia cultura. L`istinto per esempio imporrebbe ai maschi validi di saltare addosso senza tante storie alla femmina più appariscente. I pochi che lo fanno sono giustamente messi in galera. Il multiculturalismo, nel mondo com`è, è il solo modo che abbiamo, faticoso che sia, per sopravvivere senza azzannarci gli uni con gli altri.



Stoltenberg (Nato): "No a pregiudizi verso gli immigrati"
"Cercare di essere sempre più inclusivi"
stranieriinitalia.it, 27-02-2015
Roma, 27 febbraio 2015 - "Sono sempre i singoli ad essere responsabili degli atti criminali, non interi gruppi di persone". Per questo "e' importante evitare e combattere i pregiudizi e cercare di essere sempre piu' inclusivi". Insomma bisogna "combattere il terrorismo ma senza creare tensioni".
Questa la posizione del Segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg sul delicato tema delle paventate inltrazioni dei gruppi jihadisti tra la massa di disperati che sbarcano sulle coste Sud dell'Italia, vittime dei traffici degli scafisti. Un tema toccato, nel corso di un breve incontro con la stampa, al termine dell'incontro con il ministro della Difesa, Roberta Pinotti.
Stoltenberg ha ricordato i casi legati ai foreign fighters e agli atti terroristici di Parigi e Copenaghen compiuti da singoli individui non certo legati al mondo dell'immigrazione con la "composta" reazione da parte dei parigini.



Lo squarcio libico: cosa succede se si rompe una maglia nella catena dei controlli migratori europei?
L'Huffington Post, 27-02-2015
Ferruccio Pastore
Direttore del centro di ricerca europeo e internazionale sulla migrazione, FIERI
Nell'ultimo quarto di secolo, dalla liquefazione del blocco sovietico in poi, la strategia migratoria europea si è sviluppata, faticosamente ma, tutto sommato, abbastanza linearmente, lungo due assi fondamentali: progressiva liberalizzazione dei movimenti intra-europei est-ovest, accompagnata da una crescente chiusura verso i flussi extra-europei in direzione sud-nord.
In una prospettiva di lungo periodo, l'unica capace di correggere le distorsioni prodotte dalla ipermediatizzazione dell'attualità, bisogna riconoscere che entrambe queste linee di azione strategica hanno avuto successo. L'apertura a est ha prodotto un'area di libera circolazione per oltre mezzo miliardo di lavoratori, contestata da più parti ma, per ora, non seriamente minacciata.
Un'efficace cintura di controlli migratori
Quanto alla chiusura a sud, mediante la costruzione di un complesso apparato di controllo migratorio mirato innanzitutto a limitare e selezionare gli arrivi dal Nord Africa e dal Medio Oriente, anch'essa ha conseguito in gran parte i risultati voluti. È forse paradossale dirlo oggi, quando gli allarmi sui temuti esodi dalla Libia in disfacimento echeggiano da ogni parte. Eppure, da un punto di vista storico, è innegabile che i grandi investimenti fatti dai governi e dalle istituzioni europee per 'mettere in sicurezza' la frontiera mediterranea siano stati a lungo ripagati da risultati tangibili. Nonostante i gap socio-economici immensi e crescenti tra le opposte rive del grande mare tra i tre continenti, gli arrivi diretti per quella via sono rimasti per decenni contenuti nell'ordine delle decine di migliaia.
Certo, ci sono state impennate e turbolenze. Noi italiani ricordiamo bene, per esempio, la crisi delle piramidi albanesi (1997) che diede l'impulso decisivo alla riuscita missione civile e militare 'Alba'. Un altro momento caldo fu nel 2011, quando il collasso del regime di Ben Ali e l'abbattimento di quello di Gheddafi con il sostegno decisivo della Nato produssero un afflusso straordinario di 60 mila migranti nel sud Italia, a fronte però di un esodo di proporzioni decuple dalla Libia verso Egitto e Tunisia.
Tuttavia, l'apparato di controllo migratorio europeo, il cui impianto fondamentale era già definito nella convenzione di Schengen del 1990, ha complessivamente conseguito gli obiettivi politici e operativi che si prefiggeva. Quelle che erano emerse man mano come le più importanti rotte per le migrazioni irregolari per via marittima verso l'Unione europea sono state sigillate una dopo l'altra: a fine anni Novanta, quella adriatica dall'Albania meridionale verso la Puglia; negli anni successivi quelle che solcavano il Mediterraneo in partenza dalla Turchia e dall'Egitto verso il Mezzogiorno; poi quelle che collegavano il Marocco settentrionale all'Andalusia, e più tardi ancora quelle tra Marocco meridionale, Mauritania, Senegal e le isole Canarie. E così via, finché, da alcuni anni a questa parte, la rotta libica verso la Sicilia è rimasta l'unico corridoio di human smuggling su larga scala davvero problematico.
La crescente blindatura del Mediterraneo non ha impedito che proseguisse un'emigrazione importante dal Nord Africa, con i paesi rivieraschi del Sud Europa (Spagna e Italia in primis) che emergevano sempre più massicciamente come destinazione primaria. Ma l'angustia crescente dei canali di ingresso legali ha fatto sì che queste migrazioni trans-mediterranee avvenissero sempre più spesso in condizioni di illegalità, nonché di forte precarietà e subalternità dei successivi percorsi di integrazione economica. Peraltro, proprio questa combinazione di illegalità diffusa e conseguente debolezza giuridico-politica dei lavoratori migranti ha rappresentato uno dei fattori decisivi del favore che i mercati del lavoro sud-europei (e non solo) hanno a lungo mostrato verso questo tipo di immigrazione.
Inoltre, la scarsità delle opportunità di immigrazione legale ha avuto un potente effetto propulsivo rispetto allo sviluppo di una ricca e articolata galassia di mercati criminali, da quello dei documenti falsi e dei visti (veri, ma venduti sottobanco) a quello delle traversate, dalla compravendita dei contratti di lavoro fittizi a quella delle pezze d'appoggio confezionate ad hoc per consentire agli acquirenti di beneficiare delle periodiche regolarizzazioni di massa.
Outsourcing della sovranità
Con il senno di poi, appare evidente come l'efficacia complessiva dell'apparato europeo di controllo delle frontiere mediterranee - pur con i suoi tanti, sgradevoli 'effetti collaterali' (così sono state percepiti a lungo anche i naufragi e le morti in mare) - si reggesse su un fattore, assolutamente decisivo, di ordine politico: la presenza sulla riva sud di stati forti (perlopiù regimi post-coloniali di matrice nazionalista e più o meno laica, progressivamente trasformatisi in crudeli e ottuse dittature personali e/o claniche) e disponibili a negoziare con noi europei un robusto supporto pratico alle cosiddette strategie di 'esternalizzazione' dei controlli migratori. Questo sistematico outsourcing della sovranità ovviamente implicava, anzi esigeva, deroghe massicce a un buon numero di principi fondamentali dello stato liberaldemocratico di diritto. Ma, per parecchi anni, nonostante i campi di concentramento per migranti nel deserto libico e lo stillicidio inarrestabile di morti in mare, le esigenze di Realpolitik migratoria prevalsero.
Furono dapprima le corti a mettersi di traverso. Nella primavera del 2009, le vedette della Guardia Costiera italiana - mettendo in atto gli accordi Berlusconi-Gheddafi dell'anno precedente - avevano inaugurato la pratica di intercettare, prendere a bordo e riconsegnare a forza alla polizia libica migranti e profughi. L'ondata di proteste, a livello interno e internazionale, indusse il governo italiano a sospendere questi pushback illegali. Ma lo stop definitivo giunse da una storica sentenza della Corte europea dei diritti umani (Hirsi Jamaa and Others v. Italy) che, nel 2012, condannò l'Italia per violazioni del divieto di trattamenti inumani e degradanti, del diritto universale di agire in tutela dei propri diritti e del divieto di espulsioni sommarie e collettive.
Uno squarcio di segno ben diverso nel rozzo, ma efficace, sistema di controllo migratorio europeo si aprì nel 2011, quando i regimi nordafricani su cui quel sistema si reggeva crollarono, sotto i colpi delle rivolte interne e degli interventi internazionali. Ne seguì un'altalena di reazioni: dapprima, il panico mediatico per i possibili esodi; poi - dopo un afflusso concentrato e massiccio, ma certo non 'biblico', nella primavera-estate 2011 - un rapido ristabilimento dell'ordine, basato su frettolosi negoziati con le nuove autorità che sembravano aver vinto la sfida della transizione, sia a Tripoli che al Cairo. Ma anche questo assetto, nuovo solo in apparenza, non durò. Mentre il controllo dell'esercito sulla società e sul territorio dell'Egitto sono oggi più ferrei che mai, la Libia si è ridotta a un vago concetto geografico, ormai privo di qualsiasi consistenza politica. Non solo non c'è più un potere in grado di far rispettare qualsiasi tipo di accordo con l'Europa. Ma, al contrario, molti dei micro-poteri locali hanno l'interesse opposto, ad usare i migranti come fonte di reddito criminale, o addirittura come fattore di destabilizzazione dell'Europa, di cui il Canale di Sicilia è ormai da tempo il più evidente Tallone di Achille.
Un altro esodo di guerra?
Oggi, con l'intensificazione della guerra civile in Libia e con l'avvicinamento di importanti fazioni al sedicente Stato Islamico, lo squarcio nel sistema europeo di controllo migratorio appare più largo e minaccioso che mai. L'Europa, d'altra parte, aveva appena fatto un improvvido passo indietro. Respingendo la sfida lanciata dall'Italia con l'operazione Mare Nostrum, aveva abdicato alla responsabilità morale e politica di salvare innocenti alle proprie frontiere, accontentandosi di quel modesto compromesso che è l'operazione Triton di Frontex.
La vicenda di Mare Nostrum ha indubbiamente segnato uno dei punti più bassi della politica europea degli ultimi anni, rivelando quanto sia ampio attualmente il divario tra la lettera dei trattati (il "principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario" proclamato dall'art. 80 del trattato istitutivo dell'Unione) e la reale volontà dei governi (nonché, si deve supporre, dei popoli). Ma anche quella vicenda, con le sue pesanti lezioni di realismo, è ormai superata dagli allarmanti sviluppi sul terreno (e in mare). Smentendo gli argomenti strumentali di chi accusava Mare Nostrum di aver funzionato da magnete, nel 2015 i tentativi di traversata non hanno fatto che aumentare e le tragedie non sono cessate.
La protezione dei civili e quindi la prevenzione di esodi di proporzioni maggiori è esplicitamente indicato come uno degli obiettivi di un eventuale intervento internazionale di peace enforcement sul suolo libico. Purtroppo, però, storicamente, sono rari i casi in cui un intervento militare abbia stabilizzato una popolazione. In Kosovo, nel 1999, l'intervento della Nato non fece che rafforzare i flussi forzati già avviati. Ma almeno, in quel caso, la creazione di un territorio autonomo e sicuro permise un ritorno di massa in tempi relativamente brevi (sebbene generando un controesodo della componente non albanese). In altri casi, si pensi alla Somalia o all'Afghanistan, interventi militari "umanitari" hanno contribuito a generare alcuni tra i focolai di rifugiati più produttivi e duraturi del nostro tempo.
Si discute anche di un approccio più modesto e mirato, un blocco navale che impedisca, per quanto possibile, alle più aggressive tra le milizie libiche di finanziarsi con i proventi del traffico e magari di usare i migranti stessi come strumento di destabilizzazione e disturbo. Purtroppo, non è uno scenario paranoico: qualcosa di simile venne già tentato dalle forze di Gheddafi nella fase più convulsa e terribile del conflitto del 2011. Il 'materiale umano' non manca: anche oggi, seppur in misura ridotta rispetto alla situazione pre-2011, la Libia rimane un importante bacino di immigrazione economica. E oggi come quattro anni fa, gli immigrati già presenti nel paese potrebbero essere tra i primi ad essere investiti dalla violenza della guerra e a dover cercare rifugio altrove. Qualsiasi intervento esterno, anche solo un blocco navale, dovrebbe avere tra i suoi obiettivi centrali quello di aprire canali legali di accesso alla protezione internazionale per tutti i civili, nativi e immigrati, compresi quanti vengono da paesi che non intendono o non sono in grado di organizzare ponti aerei o convogli per evacuare i propri cittadini.
Post pubblicato su Eutopia Magazine.



Rifugiati: "Cambiate le regole decise a Dublino ci sono in ballo i diritti e la dignità delle persone"
Nel 25° anniversario della sua Fondazione il Cir (Consiglio Italiano per i Rifugiati) fa il punto sui limiti del sistema che norma le richieste di asilo nell'Unione europea. Il principio europeo del "primo accesso" costringe migranti e rifugiati a rimanere nel stato europeo dove si è arrivati e resta indifferente alla necessità delle persone di ricongiungersi con familiari o di scegliere dove vivere
la Repubblica.it, 27-02-3015
CHIARA NARDINOCCHI
ROMA  - "La Convenzione di Dublino  ha messo in atto un sistema inumano che non prende in considerazione i diritti e le necessità delle persone". Bastano queste poche parole di Christopher Hein, direttore del Cir (Consiglio Italiano per i Rifugiati) per definire le criticità del protocollo che regola l'accoglienza di rifugiati e richiedeti asilo nell'Unione europea. In occasione del 25° anniversario della sua Fondazione, il Consiglio per i rifugiati attraverso una tavola rotonda ospitata nella sala Aldo Moro di Montecitorio ha deciso di aprire un dibattito circa l'accoglienza, la solidarietà e le regole che detreminano il destino di migliaia di persone in fuga dai loro paesi d'origine.
Cos'è "Dublino". Il Sistema-Dublino è formato dal regolamento "Dublino III" del 2013 e dal regolamento "Eurodac II", sempre del 2013. La norma si basa sul principio che lo stato membro che ha svolto il ruolo più importante nell'ingresso o nel soggiorno dei richiedenti asilo deve farsi carico della responsabilità dell'esame della domanda d'asilo. Una legge che grava soprattutto sugli stati "di cofine", primi fra tutti Italia e Grecia. La Spagna infatti attraverso l'enclavi di Melilla e Ceuta in Marocco gestisce i flussi prima che questi arrivino sul territorio spagnolo. Dal 2008 al 2013 gli stati membri hanno richiesto il trasferimento di circa 11 mila persone in Italia, al contrario solo 239 persone registrate in Italia sono state accolte da altri stati membri.
I limiti. I problemi circa l'attuazione del regolamento sono molti. Primo fra tutti la sua marginalità.  Nel 2013 a fronte di 435 mila domande d'asilo è stato richiesto il trasferimento di 16.014 persone. Un incidenza minima che sottolinea come solo al 3,7% dei richiedenti è stato applicato il regolamento. "Ogni volta che penso a Dublino - afferma Laurens Jolles, delegato Unhcr per il sud Europa - mi riesce difficile credere che l'Unione Europea che promuove il principio di libertà anche di movimento ponga tali limiti sui richiedenti asilo". "Rispettando il principio della competenza per ingresso - continua - l'Unione non considera l'aspetto umano, come per esempio la volontà del richiedente asilo di stabilirsi vicino ad altri familiari già presenti in un paese diverso da quello in cui è arrivato".
Una promessa tradita. "Dublino - sottolinea il professor Mario Morcone capo dipartimento Libertà civili e immigrazione  del ministero dell'Interno  -  è una promessa tradita anche in riferimento allo spirito originario che voleva l'accordo come meccanismo regolatore e non come arido schema". Ad esser tradito è il principio di solidarietà presente nell'articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea che stabilisce il principio di solidarietà tra gli stati membri in materia di controllo delle frontiere, asilo e immigrazione. Un'utopia che si infrange contro i dati relativi alle domande d'asilo, ai trasferimenti, alla gestione delle frontiere comuni o nel salvataggio in mare. "L'accordo di Dublino  - continua Morcone  -  è una solidarietà mancata. E l'Italia è la prima coinvolta".
Ripensare Dublino. Davanti a al moltiplicarsi delle crisi e dei conflitti alle porte dell'Europa è necessario fermarsi e riflettere sull'efficacia del sistema dell'Unione nell'accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo. Un'urgenza giustificata dai dati. Circa 278.000 migranti irregolari sono arrivati in Europa nel 2014, il 160% in più rispetto all'anno precedente e quasi il doppio rispetto al 2011, l'anno delle primavere arabe. "L'Italia  -  sottolinea Roberto Zaccaria,  presidente del Cir - insieme con gli altri Stati del Sud Europa è sicuramente tra i Paesi maggiormente interessati a promuovere a livello europeo un profondo ripensamento che esca dalla logica perversa per cui il paese che salva una vita in mare, sarà poi il paese che dovrà dare accoglienza a quella persona". "C'è ormai - conclude Hein - la consapevolezza che bisogna trovare approcci che partano dal principio di solidarietà con chi è costretto alla fuga. Siamo parte di un'Europa che fa circolare liberamente le merci senza pagare dazi, ma che continua a legare a un paese le persone che hanno bisogno di protezione, senza prendere in minima considerazione la loro volontà e i loro legami. Vogliamo che finalmente sia riconosciuto da tutti gli Stati europei il valore della protezione internazionale rilasciata da ogni Paese membro. Un rifugiato riconosciuto dall'Italia deve essere un rifugiato anche per la Germania: deve avere diritto come ogni cittadino europeo di muoversi liberamente".

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