Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

Menù

 

"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

05 novembre 2013

Profughi. I Comuni al governo: "Misure contro degrado e occupazioni abusive"
L’Anci chiede un incontro con Alfano: “Gli arrivi del 2013 si aggiungono a quelli dell’Emergenza Nord Africa. Situazioni più gravi a Roma, Torino e Milano”
stranieriinitalia.it, 05-11-2013
Roma – 5 novembre 2013 - "Stabilire se rinnovare il permesso di soggiorno per motivi umanitari riconosciuto nel corso dell’Emergenza Nord Africa e ormai in scadenza e definire un piano di interventi che contribuisca ad alleggerire la pressione sulle aree metropolitane, offrendo delle alternative al fenomeno delle occupazioni".
Sono questi i due temi principali sui quali il Presidente dell’Anci, Piero Fassino ha richiesto un confronto urgente al Ministro dell’Interno, Angelino Alfano.
"I recenti fatti tragici di Lampedusa – scrive Fassino nella lettera al titolare del Viminale - hanno messo sotto gli occhi di tutti ciò che avviene da anni nel Mediterraneo, con particolare riferimento alle modalità drammatiche con cui i migranti arrivano in Italia in cerca di protezione. Per la prima volta l’Europa sta dimostrando di accettare un ruolo di condivisione di responsabilità su questi temi e il primo risultato è la Risoluzione del Parlamento Europeo del 23 ottobre scorso".
Dopo aver riconosciuto "l’importante risultato, fortemente voluto dal Ministero dell’Interno, dell’ampliamento della capienza del Sistema Sprar da 3.000 a 16.000 posti" Fassino evidenzia come "gli arrivi dei migranti in Italia nel 2013, fino ad oggi, sono stati di 36.000 persone, per la maggior parte dei quali richiedenti asilo".
Senza dimenticare che "oltre agli arrivi del 2013, sono molti i migranti titolari di una protezione che, al termine dell’accoglienza nel circuito Emergenza Nord Africa, sono rimasti sul territorio nazionale senza aver definito un percorso di autonomia. Cio’ ha prodotto, soprattutto nelle aree metropolitane di Roma, Torino e Milano, situazioni di grave degrado, arrivate sino all’occupazione abusiva di interi immobili".
Da qui la richiesta che Fassino rivolge ad Alfano di un confronto con l’Anci e una delegazione dei Sindaci delle Città metropolitane piu’ esposte "per concordare le misure da intraprendere per affrontare e risolvere quanto prima questa situazione".



Tutto esaurito in Sicilia Soldi ai privati per ospitare i profughi
Strutture piene e lo Stato paga 30 euro al giorno a persona
il Giornale, 05-11-2013
Valentina Raffa
I profughi, 3.500 solo nell'ultima settimana, sono in salvo, la Sicilia però è in piena emergenza. I numeri parlano da soli. Nel 2013 si sono registrati 35mila sbarchi sulle coste dello Stivale (dati aggiornati al 14 ottobre), di cui 30mila in Sicilia.
E data la provenienza dei viaggi della speranza, si può presumere a ragione che quasi tutti i migranti saranno richiedenti asilo. Alla fine del 2012 i profughi in Italia erano 64.779 secondo la stima dell'Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati.
I Centri di primo soccorso e accoglienza e quelli per richiedenti asilo stanno letteralmente scoppiando e anche ieri si sono registrati nuovi sbarchi: ad Augusta, dove in serata sono giunti 400 immigrati recuperati a bordo della San Marco e 99 a Lampedusa per lo più siriani.
Per decongestionare questi centri il Ministero dell'Interno, che ha convocato una riunione con i vertici dei dipartimenti Immigrazione, Pubblica sicurezza e vigili del fuoco e con i prefetti della Sicilia, ha chiesto alle Prefetture dell'isola di reperire sistemazioni del tutto temporanee nei propri territori. La questione sarà posta all'attenzione della Conferenza Stato-Regioni, al fine di un possibile coinvolgimento di tutto il territorio nazionale. Le Prefetture siciliane si sono quindi date da fare per indire bandi per richiedere ai privati la disponibilità a svolgere servizio di accoglienza in favore dei cittadini extracomunitari. A fronte di un corrispettivo giornaliero di 30 euro più Iva a immigrato accolto, si dovranno garantire il servizio di assistenza generica alla persona, la fornitura di beni, servizi di gestione amministrativa, assistenza sanitaria, pulizia e igiene ambientale, l'erogazione dei pasti, e un pocket money di 2,50 euro.
I bandi sono aperti. È necessario trovare strutture da adibire all'accoglienza. Già nel 2008 l'emergenza si trasformò in molti casi in business per proprietari di strutture ricettive e persino di capannoni che disponevano dell'agibilità e capaci di accogliere numerosi migranti, e questo - a parte sporadici casi in cui si richiede la convenzione a privati sociali, ossia a cooperative sociali e associazioni - avverrà anche a breve. Sono tantissimi gli immigrati da «smistare» in strutture diverse da quelle già occupate, presumibilmente fino a dicembre, anche se sarà difficile entro quella data trovare altre soluzioni. La Prefettura di Messina ha messo a disposizione il palazzetto dello Sport «Primo Nebiolo», di proprietà degli Studi di Messina, ed è in cerca di un'area di proprietà pubblica in cui allestire una tendopoli. Non si tratta dell'unico palazzetto dello Sport destinato agli immigrati. Quello di Pozzallo ne ospita 250. Ma le mamme degli sportivi non ci stanno e si sono rivolte al sindaco, Luigi Ammatuna. «Va bene l'accoglienza - dicono - ma questo non autorizza nessuno a fare pesare il problema immigrazione sui nostri bambini».
I Cpsa e i Cara, quindi, non sono i soli a scoppiare in Sicilia. Il sindaco di Pozzallo ha riferito della rinuncia di alcune donne alla corsa mattutina o alla passeggiata serale perché denunciano di essere state vittime di molestie da parte di immigrati che entrano ed escono dal Cpsa, che ne ospita 500. In alcune parti dell'isola sono, invece, gli immigrati a essere insorti. Chiedono la velocizzazione delle loro pratiche o, in alcuni casi, migliori condizioni di accoglienza che, in una situazione di enorme emergenza, risultano davvero molto difficili da potere garantire. «La situazione è obiettivamente complicata, quasi insostenibile - dice il direttore del Cpsa di Pozzallo, Giovanni Gambuzza -. Abbiamo fatto e continueremo a fare del nostro meglio, ma è chiaro che occorre provvedere al più presto a trasferire buona parte delle persone sbarcate a Pozzallo».



Addestratori da Roma, metodi libici sicurezza e orrore contro i migranti
il Fatto, 05-11-2013
Stefano Pasta
Da martedi scorso 15 militari italiani sono a Tripoli per un programma di selezione e addestramento di circa 500 Soldati libici, che saranno poi inviati in Italia per completare l'attività formativa. "Il personale - spiegano dal ministero della Difesa - è integrato nella Missione Italiana in Libia (Mil), ufficialmente lanciata il 1° ottobre quale evoluzione dell'Operazione Cyrene, con l'obiettivo di organizzare, condurre e coordinare le attività addestrative, di assistenza e consulenza a favore dei governo libico". Il progetto, che si potrebbe estendere ad altri 1500 militari, si inserisce nella Cooperazione bilaterale tra Italia e Libia nel settore della Difesa, regolata dal Memorandum of Understanding firmato a Roma il 28 maggio 2012.
L'ACCORDO che, secondo Amnesty International, "mette a rischio i diritti umani", in particolare nel "contrasto al l'immigrazione illegale", sottolineato più volte nel testo. Proprio ieri - giorno in cui Napolitano ha ringraziato le Forze Armate "come garanti di libertà e presidio delle istituzioni democratiche" - il premier libico Ali Zeidan ha ribadito che i confini libici con Algeria, Tunisia, Egitto e Sudan saranno controllati in collaborazione con governo e tecnici italiani. Per il monitoraggio elettronico aereo, saranno utilizzati radar e sensori della Selex, società Finmeccanica. Un contratto firmato con Gheddafi, ma poi bloccato dalla guerra civile. "Il controllo dei confini permetterà di ridurre il traffico illegale di essere umani". Ecco, si spera che i valori di cui ha parlato Napolitano saranno rispettati. Finora, la "nuova" Libia, che non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, si è distinta per tutt'altro. Spesso con la "collaborazione" dell'Europa, che, per non far arrivare "clandestini", appalta il lavoro sporco ai Paesi dell'altra sponda del Mediterraneo.
"Nelle carceri libiche - spiega don Mussie Zerai, dell'Agenzia Habeshia - migliaia di profughi eritrei, somali e del Darfur sono maltrattati e tenuti in condizioni disumane. In questi giorni, mi hanno chiamato dal carcere di Garabuli: ogni sera, a turno, due donne sono abusate sessualmente dai Soldati di guardia, sotto gli occhi di oltre 30 bambini, anche loro dietro le sbarre". Housam, siriano di 21 anni, è invece riuscito a partire dalla Líbia e ora si trova in via Aldini a Milano, nel centro di accoglienza allestito dal Comune. Era sul barcone affondato l'11 ottobre: "Poco dopo la partenza, una motovedetta libica ci ha visto e ha iniziato a sparare raffiche di mitra. Prima in aria, poi ad altezza d'uomo, alla fine hanno mirato allo scafo". Le pallottole hanno forato le fiancate di legno e da quel momento il vecchio peschereccio ha cominciato a imbarcare acqua. Quando la marina maltese e italiana sono intervenute, hanno potuto salvare solo 212 siriani, per altri 268 era troppo tardi. Housam aggiunge: "È terribile vedere affogare dei bambini accanto a te".



Immigrati, va sempre peggio
Vocenuova,it, 05-11-2013
CASAL DI PRINCIPE. Immigrazione, l’Italia è di sicuro uno dei paesi che, negli ultimi anni, è stato maggiormente interessato da tale fenomeno. Ne sa qualcosa il nostro territorio che, da decenni ormai, accoglie persone provenienti da ogni martoriato angolo della terra. Sotto questo punto di vista, il litorale domizio rappresenta un caso emblematico.
«Nell’area domiziana possiamo calcolare circa 2000 presenze regolarmente registrate all’anagrafe comunale, alle quali vanno aggiunte circa 8000 unità tra irregolari richiedenti asilo e con permesso di soggiorno. Le etnie più numerose sono nigeriane, ghanesi e liberiane». A parlare è Renato Natale, medico, presidente dell’associazione “Jerry Masslo”, che da circa vent’anni cerca di salvaguardare la salute e migliorare le condizioni di vita dei migranti. «La quasi totalità di loro – prosegue Natale – vive in condizioni scadenti, in appartamenti sovraffollati e, praticamente, senza servizi. I pochi che hanno un impiego lavorano a nero e sono sfruttati e malpagati».
Non sempre le istituzioni tutelano queste persone, le quali, di conseguenza, si rifugiano nella solidarietà dei cittadini. «La nostra associazione – riprende Natale – è nata principalmente con lo scopo di tutelare la salute degli immigrati. Nel corso degli anni, però, si è cercato di offrire altri servizi. Abbiamo realizzato attività per aiutare le prostitute e garantito servizi per l’infanzia. Inoltre, a Casal di Principe, abbiamo uno sportello, gestito da Jean Bilongo, che aiuta gli stranieri nelle faccende relative al permesso di soggiorno, nell’apprendimento della lingua italiana, nell’avvio di un’attività lavorativa». Esemplare, in tal senso, è sicuramente la sartoria sociale installata presso il bene confiscato denominato “Casa di Alice”.
Le condizioni di disagio socio – economico e le abitazioni scadenti dal punto di vista igienico – sanitario sono confermate dalla comunità straniera. Kinsley, trentasettenne liberiano, è in Italia dal 2003: «Sono scappato dal mio paese in seguito allo scoppio della guerra civile, quando era presidente Charles Tylor. Attraversando Ghana, Nigeria, Costa d’Avorio e altri paesi, somno giunto in Libia, dove ho lavorato per quattro anni. Poi sono partito per l’Europa e ho raggiunto Lampedusa. In seguito ho vissuto a Foggia, poi a Vicenza, dove lavoravo in un’industria tessile».
La vita di Kinsley di sicuro non è facile. Vive in un appartamento con la fidanzata napoletana e altri immigrati, pagando 500 euro al mese di affitto, e non ha mai più rivisto la sua famiglia. Nel complesso di trova bene in Italia, ma ha difficoltà nel trovare un’occupazione e non si sente aiutato e tutelato dalle istituzioni.
«Nell’ultimo periodo è molto difficile trovare lavoro. Per questo parecchi miei compagni passano la giornata in balia di alcol e droghe. E per lo stesso motivo molti di loro intraprendono attività losche, al servizio della camorra. Ache se, dopo la carneficina di qualche anno fa, c’è molta paura tra di noi». Si riferisce chiaramente alla strage di San Gennaro, quando il clan Setola trucidò sei immigrati a Castelvolturno.
«Per quanto riguarda il cibo – continua Kinsley – riesco ad avere un pasto decente grazie all’attività della Caritas. Sono stato quattro anni a Castelvolturno e nel periodo in cui sono stato io, sono stato bene, avevo un lavoro dignitoso che mi consentiva di condurra una vita decorosa».
Mentre parliamo ci raggiunge Debra, ventisettenne Ghanese, palesemente sotto l’effetto di alcol. Il suo italiano è scadente, quindi è Kinsley a parlare per lui.«È arrivato in Italia – dice – in aereo, grazie ai soldi datigli dal padre. Pensava di poter cambiare vita, ma non è stato così, quindi è divenuto vittima dell’alcolismo».
Anche Debra vive in un appartamento sovraffollato e con servizi scadenti. In passato ha lavorato in campagna, ma ora il lavoro scarseggia anche in quel settore. La situazione del litorale domizio sicuramente è complessa. Quando chiediamo a Kinsley cosa pensa di fare per cambiare le cose, risponde sorridendo: «Quando posso gioco il Win For Life – ammette, mostrando una banconota da 5 euro – è l’unica speranza che ho di cambiare vita».



Egitto, bambini siriani sopravvissuti al naufragio arrestati e tenuti in carcere nel campo militare di El Dkhela
La storia di Esraa che, a 10 anni, è rimasta sola e tenuta in carcere con l'accusa di "immigrazione illegale". Lei come tanti altri ragazzini, anche più piccoli, sono sopravvissuti al naufragio avvenuto nella notte del 15 ottobre scorso a 500 metri dalla costa egiziana, a largo di Alessandria
la Repubblica, 05-11-2013
ALESSIO POLVERONI
Egitto, bambini siriani sopravvissuti al naufragio arrestati e tenuti in carcere nel campo militare di El Dkhela
IL CAIRO - Esraa ha solo dieci anni e lunghi capelli castani. Nella mano stringe un pettine rosso, da cui non si separa mai. Il suo corpo minuto riempe appena la maglietta grigia, che ancora indossa dalla notte del naufragio. La notte del 15 ottobre scorso Esraa era con il padre sulla barca affondata al largo di Alessandria, a soli cinquecento metri dalla coste. La guardia costiera egiziana ha però impiegato quasi otto ore a soccorrere i naufraghi. Tredici profughi, per la maggior parte siriani e palestinesi, sono morti mentre il numero dei dispersi è ancora incerto. Secondo la ricostruzione dei sopravvissuti, il padre di Esraa, un siriano di origine palestinese nel tentativo di sostenere con le braccia la figlia al di sopra delle onde, è affogato dopo pochi minuti. La bambina invece è rimasta a galla, abbracciata al collo del padre, fino all'arrivo dei soccorsi. Da quel giorno Esraa è detenuta dalle autorità egiziane nel campo militare della prigione di El Dkhela, con l'accusa d'immigrazione clandestina.
O hai i soldi o torni nella guerra. "Tutti i giorni se ne sta sul suo materasso polveroso, in un angolo del campo. Le poche volte che si alza, lo fa per guardarsi allo specchio e sistemarsi i capelli con il suo pettine rosso, l'unica cosa che le è rimasta del suo passato", dice Mahynuur El Massri, attivista egiziana che fa visita ai rifugiati siriani detenuti nel campo. Secondo il rapporto di Amnesty international pubblicato lo scorso 17 Ottobre, il governo egiziano sta sistematicamente arrestando i rifugiati siriani, detenendoli ad oltranza in condizioni sanitarie pessime. I profughi che non trovano i soldi per andare in Libano o in Turchia (unici paesi disposti ad accoglierli) sono forzati a firmare delle carte per essere deportati in Siria.
Gli arresti senza reati né accuse.  Sempre secondo il rapporto, molti arresti avverrebbero senza ragioni valide. Nella sola giornata del 17 settembre, in un caffè di Alessandria, in una delle zone più frequentate dalla comunità siriana, settanta siriani sono stati arrestati, solo perché sospettati di pianificare un viaggio clandestino, e sono tutt'ora detenuti in una stazione di polizia. Circa settecento rifugiati sono già stati deportati, tra cui duecento minori, di cui circa settanta senza genitori. Oggi solo ad Alessandria, ci sono ancora trecento rifugiati siriani detenuti, di cui quindici sono minori senza genitori.
I bambini ancora nelle carceri. I bambini sono stati arrestati assieme alle famiglie o sopra una barca che cercava di raggiungere le coste europee, o perché ai genitori non sono stati rinnovati i documenti per rimanere in Egitto. Secondo il governo egiziano, dovrebbero essere espulsi, senza tener conto, che la maggior parte dei rifugiati una volta tornati in Siria, rischiano di essere perseguitati dal regime. "Nel carcere di Karomuoz nella periferia di Alessandria, assieme ai suoi genitori c'è il piccolo Mohamed, che ha solo due mesi, ma è detenuto da quando aveva quindici giorni", racconta Thaer Mukhtar, un medico egiziano che in questi mesi ha visitato i detenuti.
Il reimpatrio di regazzini rimasti soli. Nella stessa stazione ci sono anche Zaher, sedici anni, Hamed quattordici anni e Mohammed di otto, che sono stati arrestati da soli e rischiano di essere rispediti in Siria da un giorno all'altro. Nella stazione di Abo qir invece, nel vicino governatorato di El Behara, sono detenuti Khaled e Reda, due gemelli di un anno, arrestati con i genitori che non avevano il permesso di soggiorno. Pensando ai bambini detenuti, Mukhtar non riesce a scordare la storia Magdy Soliman, 10 anni, detenuto diciassette giorni nella stazione di polizia di Karmouz, dopo esser sopravvissuto al naufragio di una nave clandestina nei primi giorni di settembre, nel quale aveva perso la madre, la zia e la sorella. Dopo essere stato portato in Libano, è stato deportato in Siria completamente da solo, "mi ero raccomandato con lui di chiamarmi dall'aereoporto, ma il suo telefono non ha mai più squillato e nessuno sa più nulla di lui".
 


Per i profughi siriani la solidarietà dei credenti, di tutte le fedi
Corriere.it, 05-11-2013
Stefano Pasta
Da settimane, in Stazione Centrale e nei centri di accoglienza, si ascoltano le storie dei profughi in fuga dagli orrori e dalla guerra della Siria. Hanno attraversato il Mediterraneo sui barconi, sanno che alcuni compagni sono morti. Poi sono scappati dai centri del Sud verso Milano: non vogliono rimanere in Italia, ma raggiungere la Svezia, la Norvegia e la Germania, dove spesso hanno parenti. L’unica via è passare di nascosto la frontiera: molti ci riescono, ma non mancano i respingimenti e chi ritorna in Stazione Centrale abbattuto e senza soldi. Ogni profugo ha la sua storia. Younma, quando arriva a Milano, ha abortito da quattro giorni a seguito del viaggio sul barcone e poi è scappata dall’ospedale siciliano per non essere identificata con le impronte digitali e costretta a rimanere in Italia. Huosam è disperato: non ha ancora avuto il coraggio di dire a sua moglie che il loro figlio più piccolo è morto, le ha detto solamente che non lo trovano più. Lei si aggira per la Stazione con gli occhi pieni di lacrime e la foto del figlio in mano, chiedendo a tutti di cercare su internet se ci sono notizie.
Ranea, profuga palestinese nata in Siria, ha perso un fratello ammazzato dalle bombe: al secondo tentativo, riesce a passare la frontiera con le due figlie e dopo alcuni giorni scrive in un sms a un amico della Comunità di Sant’Egidio conosciuto in Stazione: «Arrivata, sono in Norvegia. Grazie per la sera in cui mi hai detto che speravi con me. Dio ti benedica».
    Sì, perché in questi giorni di emergenza per il transito da Milano di centinaia di siriani, giovani musulmani appartenenti a diverse associazioni (GMI, Insieme per la Siria libera) e giovani cristiani della Comunità di Sant’Egidio e della Chiesa copta d’Egitto, stanno lavorando insieme per dare sostegno ed essere vicini al dramma dei profughi. Ogni sera da inizio ottobre, hanno portato cibo, coperte, vestiti, medicine, ma soprattutto calore e vicinanza umana alle famiglie, spesso con bambini piccoli, che hanno dormito nel freddo della Stazione Centrale, in attesa di ripartire verso il nord Europa.
Il 24 ottobre, a tre giorni dall’anniversario dell’incontro interreligioso di Assisi del 1986 promosso da Giovanni Paolo II, i giovani musulmani, copti e cristiani si sono ritrovati per riflettere sul loro impegno per il bene comune nella città. Al termine, nello Spirito di Assisi, hanno pregato per la pace, ciascuno secondo il proprio rito, gli uni accanto agli altri.
    Questo il messaggio condiviso dai giovani: la vicinanza ai profughi siriani è un’esperienza di dialogo nella solidarietà che sta aprendo una via nuova di collaborazione tra le religioni.
Mettere al centro i poveri ha aiutato a non guardare alle differenze, ma ad impegnarsi insieme per una città più umana. La solidarietà, infatti, ha contagiato la città: molti milanesi si sono uniti a questa forza spirituale e il Comune ha deciso di aprire due centri di prima accoglienza per oltre 250 persone.
Così Nada Kabakebbji, del Direttivo dei Giovani Musulmani d’Italia, ha raccontato come è nata la collaborazione con Sant’Egidio: «Un giorno mi avvisano che sarebbe venuta la Comunità di Sant’Egidio ad aiutare. Confesso la mia iniziale posizione un po’ scettica riguardo al reale contributo, dovuta a una mia non conoscenza della Comunità, e a un senso di confusione generale sulla situazione, tale che non possa essere gestito da nessuno. Arrivano in molti, con coperte, vestiti, tè caldo e cibo. Sono di sostegno, chiedono cosa si possa fare, come aiutare e come stanno le persone. Il giorno dopo ricevo chiamate: sì, sono con noi e porteranno pranzo e cena. Dall’inquietudine iniziale mi sento avvolta da persone che chiedono solo come poter aiutare. Il senso di fratellanza nell’umanità cresce, si elimina qualsiasi barriera che a volte i media installano nelle nostre teste, si elimina qualsiasi paura e si lavora, fianco a fianco, e si aiuta. Ci ha detto il Profeta Muhammad: “Nessuno di voi é un vero credente finche non amerà per suo fratello ciò che ama per se stesso”». Aiutare gli altri diviene così un’opera che combina mistica ed azione.
In questi tempi, spesso si è parlato di “stanchezza” del dialogo tra le religioni, ci si è chiesti se abbia ancora senso. Ecco, ascoltare le sofferenze di chi scappa dalla guerra in Siria può essere una profonda esperienza spirituale e di dialogo, che parla anche ai non credenti. Soffrire con gli altri è generatore di speranza e di voglia di futuro: il freddo della Stazione Centrale e dell’indifferenza verso chi deve rischiare la vita per scappare dalla guerra si può popolare di solidarietà. Viene in mente quando il cardinal Martini parlava del dialogo non su se stesso, ma di dialogo tra e per la gente. Per le strade di un mondo e di una Milano globalizzata, si incrociano genti diverse per fede, storia, identità. Vivere insieme tra diversi talvolta non è facile, può diventare conflittuale. Se l’altro resta fuori, ai margini del mio campo di visione, è pericoloso, perché rischia di scivolare nell’area dei nemici.
    Martin Luther King sosteneva che l’altro è anche un problema religioso: “Ho cercato la mia anima, ma l’anima non l’ho vista, ho cercato il mio Dio, ma mi è sfuggito, ho cercato mio fratello, e ho trovato tutti e tre”.
Affratellandosi con l’altro, si trova la propria anima e Dio: così diceva. Questo impone una nuova responsabilità delle religioni – tutte! – di liberarsi dalle chiusure autoreferenziali e di educare alla vita con l’altro con amore, in pace. Mai senza l’altro!



Classe 100% stranieri, è bufera «Ghettizzati». «No, giusto»
Il preside: «Una soluzione temporanea per aiutarli»
Corriere.it, 05-11-2013
Daniela Corneo

BOLOGNA - Sono tutti stranieri. Ma proprio tutti. «Una classe-ghetto», si è immediatamente sollevato il coro dei tanti indignati. «L’abbiamo creata per integrare», ha detto il preside difendendo a spada tratta la sua scelta. San Donato, scuole Besta, sezione A della nuova prima media «sperimentale»: 22 alunni stranieri tra gli 11 e i 15 anni. Nessun italiano, insegnanti a parte, si intende.
Una scelta che ha diviso la città, ma prima ancora aveva diviso il Consiglio d’istituto, indispettito per non essere stato consultato preventivamente. Da lì la decisione di alcuni di dimettersi e di mettere nero su bianco, in una lettera inviata al Coordinamento dei Consigli d’istituto, la critica severa sulla decisione presa dal preside Emilio Porcaro. «La separazione degli stranieri dagli italiani ha il risultato immediato di dividere», ha scritto il Consiglio presieduto da Roberto Panzacchi, ex consigliere comunale, e costituito da Alessia Orsi, Stefania Santini, Stefano Iotti e Teresa La Torretta.
«Gli alunni stranieri — hanno scritto i membri del Consiglio d’istituto — non parleranno in aula con altri italiani e avranno come unico riferimento italiano solo l’insegnante, annullando tutte le potenzialità dell’educazione tra pari. Una scelta del genere contrasta con i principi di inclusione e di confronto a cui la scuola si deve ispirare». Quindi il timore: «Questa soluzione non sarà l’anticamera della riproposizione delle classi differenziali? Educheremo i nostri figli in modo da far capire loro che la separazione insegna meglio dell’integrazione?». E poi la questione di forma, quella su cui potrebbero forse esserci problemi: «La sesta sezione è sembrata piovere dal cielo nel momento in cui le altre 5 classi erano già formate», una decisione che andrebbe contro le prerogative del Consiglio.
Una classe-ghetto, dunque? Ma neanche per sogno. Il preside dell’istituto comprensivo 10, Porcaro, da anni in prima linea in una zona ad alta densità di immigrati, ha respinto le critiche. «La 1^A sperimentale è stata istituita per dare una classe a ragazzi arrivati ad agosto in Italia e per evitare l’abbandono scolastico». Tutto è nato in piena estate. «Alle Besta — spiega Porcaro — sono arrivate 18 famiglie che, con il ricongiungimento familiare, avevano appena riavuto i figli, la maggior parla poco la nostra lingua. Stavano cercando di iscriverli in diverse scuole e alle Besta c’era lo spazio. Quindi ho chiamato l’Ufficio scolastico e ho chiesto l’autorizzazione per le ore, che ho ottenuto, e ho chiesto agli insegnanti se volevano assumersi l’onere di un progetto di formazione e integrazione. Ne è nato un piano, grazie alla voglia di mettersi in gioco dei miei docenti, che va nella direzione di aiutare quei ragazzi».
E poi, aggiunge Porcaro, non c’è alcun isolamento dei 22 ragazzi: «Fanno diverse materie con i compagni di altre classi, mangiano insieme e partecipano alle uscite con gli altri». Quanto al Consiglio d’istituto, il preside taglia corto: «Il Consiglio dà le linee generali, in questo caso l’integrazione, il Collegio docenti crea progetti e studia come muoversi operativamente e il dirigente, quello che per legge ha maggiore discrezionalità, approva i progetti». Poi i numeri: «Nel Collegio docenti i contrari alla classe sperimentale sono stati 10 su 100».
Sulla classe sperimentale ieri si è divisa, a dir poco, la città. La posizione più dura quella di Sel, con il consigliere Mirco Pieralisi che ha parlato di «arretramento pedagogico e culturale» e il deputato Giovanni Paglia che ha fatto un’interrogazione al ministro dell’Istruzione per chiedere di «cancellare» la classe. Si allontana dalla linea di Sel l’assessore comunale al Welfare Amelia Frascaroli: «Non va bollata subito la classe delle Besta, scuola nota per le buone esperienze di integrazione. Serve comunque la collegialità».
Chiede di non accusare a priori il dirigente la Lega, da sempre favorevole alle cosiddette «classi ponte» per l’inserimento degli stranieri. E anche la Flc-Cgil non accusa a priori: «È un progetto di accoglienza, sembra avere dei lati positivi». Ieri è invece inorridita Sandra Zampa, deputata del Pd e vicepresidente della commissione Infanzia e adolescenza: «È assurdo, quei bambini vanno reintegrati al più presto», ha detto. E l’Assemblea genitori e insegnanti delle scuole di Bologna e provincia: «Non è una classe ponte, ma una classe che taglia i ponti. Quella decisione doveva coinvolgere tutta la comunità scolastica. Si parla di 400 ricongiungimenti previsti, allora riempiremo le scuole di classi liquide, ponte e sperimentali?»



Via al censimento dei rom, ma non sarà una schedatura
Banca dati del Comune affidata al privato sociale
la Repubblica, 05-11-2013  
ZITA DAZZI
ANDRANNO baracca per baracca, campo per campo, a censire i rom che vivono nelle aree occupate abusivamente. Sarà un vero e proprio censimento, al termine dei quale il Comune avrà una banca dati, continuamente aggiornata, sulle famiglie di origine nomade che si stabiliscono in città. L'assessore alla Sicurezza Marco Granelli sta trattando con due importanti sigle dei volontariato —i Padri Somaschi e la Casa della carità— per definire il progetto e il suo costo (al massimo 20mila euro), sapendo che comunque verrà fatta una gara pubblica per affidare l'incarico definitivo. Quel che è certo è che per differenziarsi il più possibile dalla schedatura con rilievo delle impronte digitali che venne fatta ai tempi di Letizia Moratti, questa volta l'incarico sarà affidato al privato sociale e non alle forze dell'ordine.
Il lavoro è in parte già stato avviato dalle due sigle, che gestiscono per conto del Comune i due nuovi centri d'accoglienza di via Barzaghi e via Lombroso. Qui, dalle prime verifiche sugli elenchi dei rom ospitati dopo gli sgomberi, è venuto fuori che ci sono cinque famiglie, per un totale di 50 persone, che non dovrebbero essere a Milano. Si tratta infatti di un gruppetto delle 48 famiglie che —ai tempi dello sgombero dei campo comunale di via Triboniano, sotto l'amministrazione Moratti —presero 15mila euro del «Fondo Maroni per l'emergenza rom» per il rimpatrio assistito in Romania. «Avevano firmato per restare nella loro terra d'origine, hanno avuto soldi e aiuti per costruirsi laggiù casa e situazione lavorativa. Ora dovranno rispettare l'impegno, non possono ricominciare qui da noi come se niente fosse —spiegal'assessore Granelli— Li manderemo via dal nostro centro. Abbiamo deciso di assistere solo famiglie che non hanno mai seguito programmi di reinserimento sociale e che si impegnino a fare seriamente i passi necessari per reintegrarsi nel lavoro e nella vita comunitaria, pagandosi l'affitto e mandando i figli a scuola».
Proprio per questo nasce l'idea di costituire una banca dati dei rom presenti a Milano nelle aree dismesse: «Per evitare di continuare a spendere risorse su persone che sono già state aiutate e che alla fine sono tornate in contesti degradati». La prima situazione nella quale i volontari si troveranno a fare il censimento è quello dei campo nomadi abusivo in via Brunetti é via Montefeltro, nella zona della Certosa di Garegnano, dove ormai si sono insediate 600 persone, soprattutto famiglie rom reduci da vari sgomberi e refrattarie ai vari progetti di integrazione. Fra questi molti ex di via Triboniano e via Bonfadini, anche loro finanziate per rimpatriare in Romania. «Questo insediamento sarà sgomberato a breve —promette l'assessore Granelli, reduce da una tempestosa assemblea con i Cittadini del quartiere —Non possiamo tollerare una situazione cosi insalubre e pericolosa per gli stessi rom. Abbiamo già preso accordi con la proprietà privata che metterà in sicurezza l'area e demolirá le strutture murarie che oggi vengono usate come riparo dai senzatetto».
Nella nuova banca dati le famiglie saranno catalogate in base alla nazionalità, con in formazioni sulla composizione dei nucleo famigliare, il numero dei figli,la situazione scolastica e lavorativa di ogni membro dei clan. Contemporaneamente il Comune cercherà di integrare la mappa degli insediamenti abusivi che viene fatta dai vigili urbani con quella che verrà rilevata dal volontariato. «Anche per cercare in futuro di evitare che si creino grandi favelas — conclude Granelli — Il nostro «Piano Rom» prevede la chiusura di tutti i campi, regolari e non, nella Speranza di riuscire ad integrare questa popolazione nel tessuto urbano in modo meno disordinato e asociale».

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