Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

Nel campo dei dimenticati

 

Insieme a Lampedusa, lo stato mediterraneo è la principale destinazione degli africani che fuggono dalla violenza in Libia. Ma l'Europa non ha altro da offrire loro che capannoni sovraffollati e tendopoli prive di tutto.
Carine Fouteau
Rinchiusi al loro arrivo in centri recintati, i rifugiati identificati come “vulnerabili” sono stati distribuiti in centri aperti di accoglienza. Uno di questi è riservato alle famiglie, si chiama Hal Far e si trova al capolinea di un autobus, lontano dai negozi e dalle abitazioni civili, ai margini di alcune piste aeree abbandonate. Ad Hal Far vivono una trentina di famiglie in attesa di protezione internazionale. Si tratta di un luogo umido, dall’aria soffocante in estate e glaciale in inverno.
 
Partito da Tripoli con la moglie e il figlioletto di sedici mesi, Dawit, etiope di 35 anni, fa parte degli sfortunati abitanti dell’hangar. “Ringrazio le autorità maltesi che hanno salvato la barca sulla quale stavamo naufragando e che ci hanno accolto”, premette, “ma devo dire che questo posto è terribile. Veramente terribile. Qui ci sono somali, etiopi, eritrei, qualche ghanese e alcuni algerini. Siamo tutte famiglie, con bambini anche in tenera età. Il più piccolo ha un mese e mezzo. C’è tra noi una donna che ha partorito appena arrivata: l’hanno fatta uscire dal centro di detenzione e quando è nato il bambino ce l’hanno riportata. Siamo tutti sfiniti.
 
E guardate un po’ dove ci hanno messo: in un hangar, in mezzo alla sporcizia e ai pericoli. Non c’è luce, solo due neon, e per illuminare l’interno delle tende non c’è altro. I pavimenti sono unti, i gabinetti perdono. Ci sono topi ovunque. Qui è tutto tossico e pericoloso: i bambini piccoli si mettono le mani in bocca e negli occhi, contraggono infezioni, si ammalano. Dobbiamo portarli di continuo all’ospedale. Quando li ha visitati, un medico italiano è scoppiato a piangere. L’ultima volta che sono dovuto andare a prendere delle medicine per mio figlio in farmacia le ho pagate 39 euro. Così non possiamo andare avanti. In più, l’estate è alle porte. Con il calore qui l’aria diventerà irrespirabile. Siamo riconoscenti, certo, ma questo non è un posto per tenere degli esseri umani".
 
Dawit lo ripete più volte: non aveva intenzione di venire in Europa. Insegnava inglese, è stato costretto a imbarcarsi soltanto per mettersi in salvo dai combattimenti e dalle violenze contro gli africani sub-sahariani. Tra gli altri giovani padri di famiglia che condividono la sua sorte ci sono uno studente di medicina, un ingegnere informatico e un traduttore. Alcuni di loro hanno dovuto abbandonare i loro paesi d’origine perché perseguitati, e per questo hanno perfino ottenuto lo status di rifugiati. Avevano tutti un progetto di vita in Libia. Tutti sono scampati alla morte nella loro odissea attraverso il Mediterraneo.  
 
Dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) alle associazioni umanitarie presenti in loco, le testimonianze sono concordi. Nell’hangar le tende distribuite dalla Croce Rossa svizzera sono allineate su tre file da dieci. Ci vivono 150 persone, raggruppate per famiglia, tra i quali molti neonati. Intorno a questa struttura sono stati collocati alcuni container con 16 cuccette ciascuno, dove alloggiano separatamente uomini e donne sole.
 
Secondo Céline Warnier di Wailly, membro di Jesuit refugee service (Jrs), un’associazione di assistenza giuridica e sociale, “i bambini si ammalano uno dopo l’altro. Il fenomeno è cronico e grave. Quando le prime famiglie sono state sistemate lì, hanno detto che preferivano tornare al centro di detenzione. Ho visto alcuni colleghi piangere mentre distribuivano acqua, latte, passeggini o brandine. E dire che non sono certo dei novellini, e di cose terribili ne hanno già viste”.
 
Sempre peggio
La situazione è pressoché analoga in quello che le autorità locali e i rifugiati chiamano "villaggio delle tende", situato a poche centinaia di metri dall’hangar. È formato da tende montate a cielo aperto, in buona parte distrutte dalle burrasche di febbraio. Ma anche se in buone condizioni, proteggono male dalla pioggia e dal vento, come ha constatato anche l’Unhcr.  ?  
 
“Nell’hangar e nel villaggio delle tende le condizioni  di vita sono inferiori agli standard minimi, soprattutto per le famiglie che hanno bambini”, denuncia Fabrizio Ellul di Unhcr nel linguaggio amministrativo tipico delle organizzazioni internazionali. “I sanitari e le condizioni di vita non sono adeguati a una lunga permanenza. Questi centri non sono stati progettati per persone vulnerabili”, aggiunge.
 
In effetti né l’hangar né il villaggio delle tende avevano mai ospitato famiglie. Anzi, qualche mese fa erano stati chiusi, quando i barconi avevano smesso di arrivare, in seguito all’accordo migratorio tra Italia e Libia che aveva dato buoni risultati. “Per un anno non si sono registrati arrivi, se non uno nel luglio scorso”, sottolinea Maria Pisani dell’ong Integra Foundation, specializzata in questioni di asilo a Malta. Anche Pisani reputa insostenibile la situazione di Hal Far. A causa dell’isolamento geografico dei rifugiati parla anche di ghettizzazione.
 
“La lezione degli anni scorsi non è stata imparata. Non è stato fatto nulla per migliorare le strutture. Le condizioni si sono addirittura aggravate. Piuttosto che prendere in considerazione la possibilità che si installino e integrino qui, le autorità maltesi hanno scommesso tutto sul fatto che questi rifugiati se ne vadano altrove, in altri paesi occidentali ed europei. Questa è la loro strategia: le autorità stanno attente che vi sia penuria di tutto in queste strutture, così da incoraggiare la gente ad andarsene invece che a restare”. In altri termini, quindi, Malta perpetua l’emergenza per evitare che i nuovi arrivati si installino qui e obbligare i partner europei ad accoglierli. (traduzione di Anna Bissanti)
Mediapart 9 giugno 2011

 

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