Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

30 luglio 2013

Nadia Urbinati: «Fanno paura i neri che hanno potere»
il manifesto, 30-07-2013
Carlo Lania
Gli insulti alla ministra dell’Integrazione Kyenge, ma anche le offese alla presidente della Camera Laura Boldrini e le violenze quotidiane contro le donne. «E’ come un coacervo di tutti i pregiudizi e soprattutto della relazione “machista” con le donne» osserva Nadia Urbinati, politologa e docente di Teoria della politica alla Columbia University di New York. Non proprio stupita dall’impennata di episodi di razzismo delle ultime settimane. «E’ da diversi anni ormai che parliamo e scriviamo di razzismo in Ita­lia. Io ricordo alcuni anni fa, all’inizio del governo Berlusconi, numerosi casi di razzismo nei confronti degli immigrati, la cam­pagna contro gli illegali e i boat-people. C’è stato un processo di consolidamento di pratiche e pregiudizi che è andato insieme alla depoliticizzazione delle relazioni pubbliche, rendendo la società più permeabile al razzismo”.
Va bene, stiamo raccogliendo i frutti di venti anni di politica leghista sull’immigrazione. Ma il ministro Kyenge viene presa di mira in quanto donna e nera.
Ritengo che i pregiudizi si siano rafforzati in questi anni insieme alla decadenza della cultura civica e politica, perché il linguaggio si è privatizzato; invece che cittadini che si relazionano come estranei in uno spazio pubblico, ci scambiamo opinioni personali, le quali si accavallano senza cura alla forma del linguaggio, al fatto che esso può offendere e far male. Parlerei di decadenza del linguaggio della politica e di egemonia pubblica di modelli soggettivi di comportamento. Non mi stupisce per niente in questo senso il legame donne e etnia. Anche nella cultura americana è cosi. I pregiudizi si attraggono l'un l'altro, si accumulano. Negli Stati del Sud degli Stati uniti, o nelle zone del Midwest dove è più forte il radicamento del partito repubblicano, questo connubio tra cultura contro l'afermative action, cioè contro le pari opportunità, si coagula con i pregiudizi contro i neri e tutte le minoranze che reclamano un trattamento comparato alla loro condizione di svantaggio.
Ma il fatto che Kyenge oltre a essere nera sia una donna di governo influisce? Dopo l'elezione di Obama in America, nel 2008, au- mentarono le aggressioni nei confronti dei neri. Fa paura un nero che ha potere?
Si che fa paura. lo ricordo che appena si comprese che Obama stava sopravanzando Bush alcuni gruppi legati al partito repubblicano (poi confluiti nel Tea Party) cominciarono a diffondere dubbi sulla sua identità americana. Dichiarandolo non americano, lo si decreto escluso, ma anche un nemico totale se provava a scalare le istituzioni dello Stato. Per i razzisti dei Tea Party non era concepibile avere un presidente che fosse nero e americano. C'è quasi un'idea incorporata nel pregiudizio che chi è oggetto di pregiudizio appartiene a un sotto non a un sopra, quindi non può diventare parte della leadership politica. Quando questo succede è un motivo di scandalo. Anzi, provoca la perdita di autorevolezza delle istituzioni. Un ministro nero vuol dire che il ministero ha meno valore. Per anui (e ancora oggi) questo è valso anche nel caso delle donne.
E questo si riflette anche sul ministro Kyenge.
Certo perché è nera e donna, un "difetto" dal quale, oltretutto, lei non si può emancipare. Essere nera e donna intacca le istituzioni dello Stato.
Tra le donne flnite nel mirino c'e anche la presidente Boldrini.
Come tutti coloro che difendono una cultura dei diritti contro la non-cultura della sopraffazione pregiudiziale.
Non è la prima volta che in Italia abbiamo un presidente della Camera donna. Penso a Nilde lotti e Irene Pivetti. Eppure non hanno scatenato gli attacchi che adesso è costretta a subire la presidente Boldrini.
Direi che i tempi erano diversi. Entrambe le precedenti due presidenti si collocavano in un'Italia che non aveva ancora questa forte presenza multiculturale e multietnica. Ora invece abbiamo una situazione in cui queste espressioni di diversità hanno addirittura voce politica nello Stato. Quindi difendere Kyenge, come ha fatto la presidente Boldrini, significa esporsi a due rischi: essere oggetto di offese come donna e come sostenitrice di posizioni che per chi ha pregiudizi razziali sono insostenibili.
Ma cos'è che fa più paura: l'essere donna o l'essere neri?
Qui in Italia l'essere neri. Tuttavia l'attacco alle donne è gravíssimo e rientra nello stesso discorso sul razzismo; un nuovo esempio di debolezza del cosiddetto mondo maschile, prepotente e violento.
Questi eplsodi sono l'espressione di una minoranza becera oppure su certi temi è proprio il sentire nazionale che sta cambiando? Guardi io non so quantificare quante persone si identificano con simili atti, però il nostro paese ha subito profonde trasformazioni dopo tre decenni di influenza nella cultura popolare dalle televisioni commerciali, che hanno formato intere generazioni imponendo un linguaggio spesso molto povero e soprattutto inadatto a dialogare ma pronto invece a pontificare e asserire. Modi del discorso diffusi anche in politica. E questi episodi di razzismo sono cosi ripetuti e continui che viene quasi da pensare che quel che si dice, la condanna di questi fatti, non abbia presa, non abbia più influenza.
Come vede il futuro?
Non lo so. Penso però che questa situazione di blocco che stiamo vivendo, questa alleanza politica anomala deve finire prima possibile, perché non stimola la chiarezza delle idee, non lascia la libertà agli attorí di essere se stessi. Perché c'è un veto incrociato, per cui non si può fare tutto ma non si può nemmeno dire tutto. Se in politica non esistono più differenze, che sono il sale della politica, esse si travasano altrove. Vanno a finire nei rapporti privati, diventano divisioni identitarie di etnie e ge-nere. Ecco una ragione non secondaria della recrudescenza del razzismo e della violenza contro le donne. Certo, sarebbe sbagliato pensare che questa è una ragione del razzismo - non è questo che voglio dire. Voglio semplicemente mettere l'accento sul fatto che l'impotenza della politica, il blocco della dialettica politica o tra avversari politici, rende più agevole aprire nuovi terreni di corttrapposizione, dove non le idee ma i pregiudizi hanno cittadinanza.



Stretta su web e caporalato E nel piano Kyenge anche scuole d’italiano per migranti
Cantù, il Carroccio lascia l’aula all’arrivo della ministra
La Stampa, 30-07-2013
Giuseppe Salvaggiulo
Lavoro, istruzione, sport, casa, sicurezza. Un mix di repressione e politiche «progressive». E un aggancio alle convenzioni internazionali. Temi fissati, svolgimento aperto: niente norme-manifesto, piuttosto condivisione con altri ministri, associazioni, enti locali.
Il piano anti razzismo che la ministra dell’Integrazione Cécile Kyenge presenta oggi segna una cesura culturale perché «bisogna recuperare vent’anni di ritardo, in cui il dibattito politico ha ignorato diritti e doveri dei migranti, impedendone l’integrazione». E completa il profilo scelto dalla ministra di fronte alla sequela di attacchi razzisti: gli ultimi ieri a Cantù, dove i consiglieri comunali leghisti hanno abbandonato l’aula al suo arrivo («Se le avessero lanciato la noce di cocco le avrebbe fatto male, dev’essere contenta delle banane»), sentendosi rispondere senza acrimonia: «La libertà è sacra». Niente polemiche, Kyenge rilancia con il suo piano d’azione.
I punti a cui la ministra si è più dedicata perché essenziali sono il lavoro e l’istruzione. Le discriminazioni nella ricerca di un’occupazione producono caporalato, sfruttamento, irregolarità e condizioni disumane. Le misure repressive saranno amministrative e penali, concordate con i ministeri dell’Interno, del Welfare e della Giustizia. Oltre ai controlli più stringenti e alle sanzioni inasprite, serviranno misure per organizzare i flussi di manodopera.
Quanto all’istruzione, si sottovaluta che il deficit linguistico induce a ghettizzarsi e ostacola una vita normale, anche nei rapporti con enti pubblici (documenti, pratiche di welfare, controlli di polizia). Kyenge vuole che tutti i migranti possano e debbano imparare l’italiano nei primi mesi. Come fece lei, a 19 anni, giunta dal Congo: sfumata la borsa di studio, fu costretta ad arrangiarsi un anno in attesa dell’iscrizione all’università. Si pensa a coinvolgere reti di associazioni, docenti e laureati, per creare un’acculturazione di massa: i costi per lo Stato sarebbero contenuti, i benefici enormi.
Anche l’attività sportiva viene considerata uno strumento di integrazione e la ministra considera inaccettabili discriminazioni come quella recentemente subita dalla bimba di 10 anni, nata in Veneto da genitori tunisini, a cui veniva impedito di tesserarsi per le gare di nuoto sincronizzato. «Uno spreco di talento non isolato», aveva detto, e il riferimento va alle storie di atleti anche di livello internazionale – Eusebio Haliti, Yadisleidy Pedroso, Daria Derkach – costretti a lunghe e umilianti trafile burocratiche per poter vestire la maglia azzurra. In attesa che una legge sulla cittadinanza risolva il problema alla radice, si possono studiare soluzioni specifiche, in modo da incentivare la pratica agonistica degli immigrati di seconda generazione.
Il ruolo degli enti locali sarà decisivo per l’accesso alla casa. Le soluzioni di emergenza, per quanto utili, non integrano. Talvolta migranti disposti ad affittare un alloggio si trovano davanti a discriminazioni. I Comuni possono garantire soluzioni efficaci, anche col patrimonio edilizio inutilizzato.
Infine, il capitolo sicurezza, con il potenziamento della legge Mancino. In particolare, la stretta dovrebbe riguardare l’uso di Internet per la propagazione virale di odio razziale e istigazione alle discriminazioni.



Nel paese delle banane tristi
L'episodio di Cervia pone sempre la stessa domanda: siamo diventati un paese razzista?
Europa, 27-07-2013
Filippo Sensi

Avevo un pregiudizio positivo nei confronti delle banane, non fosse altro per i Velvet Underground o Harry Belafonte. Mi hanno sempre messo allegria, come gli elefanti. Quando il povero David Miliband è finito massacrato dai media per una sua foto con una banana in mano, ho pensato alla potenza e alla spietatezza dei media britannici, sbagli un frutto, e sei fregato a vita, sarai per sempre quello della banana.
Per questo, quando ho sentito del lancio di banane a Cervia all’indirizzo del ministro Cecile Kyenge, ho pensato che basta, non ne avrei più voluto sapere, mai più. Perché non mi fanno più ridere le banane, e non mi fa ridere un Paese, il nostro, in cui succedono episodi del genere. Non ho visto foto, né filmati, forse meglio così; giornalisticamente dovrei stare lì a capire meglio, a sapere se poi questi geni li hanno presi o meno, chi erano, se appartenevano a questa o quella organizzazione politica. Ancora spero che non sia vero, che non sia possibile, che sia solo una buccia, di banana.
Qualche giorno fa l’orango, le scuse impacciate, insufficienti di Calderoli che ancora sta li a fare il vicepresidente del Senato, che vergogna. Ora come allora il ministro ha dato mostra di una classe dolente, di una amara ironia che la rende ancora più ammirevole in questa Italia che, in una vertigine di cupio dissolvi, sembra volere assomigliare sempre più alle peggiori barzellette sul suo conto, al suo rovescio mostruoso, al suo peggio.
Sono pochi imbecilli, si dirà, qualcuno su Twitter, giustamente, ricorda che non siamo solo l’Italia che tira le banane, siamo anche il paese che conta fra i suoi ministri una persona così, equilibrata, gentile, mite come dovrebbe essere la democrazia.
Mi chiedo, però: come si combatte tutto questo? E ancora, siamo sempre stati così? O qualcosa si è rotto nella grammatica di un Paese che si è sempre raccontato come non razzista, e invece. La domanda è proprio questa: siamo un paese razzista? E ci siamo abituati a questo, lo vediamo come un piccolo tributo da pagare magari alla globalizzazione?
Esistono persone, spero poche, temo tante, che vivono la sola presenza di Cecile Kyenge al governo come una provocazione. Già, una provocazione. Una minaccia. Tale da poterla esorcizzare, evocando le bestie della giungla o tirando le banane a una giovane donna, mentre alla Casa Bianca siede un cinquantenne che si chiama Barack Obama, e anche da loro all’inizio gli sbagliavano il nome (da noi pure, si dice chienghe, per chi deve fare i servizi alla radio e alla tv).
Forse semplicemente, anche a furia di Calderoli e di Borghezio, siamo diventati quello che siamo, un posto in cui una donna viene insultata per il colore della pelle, un posto in cui questa stessa donna è esponente di un esecutivo; un posto in cui ti chiamano orango e ti tirano le banane per il colore della tua pelle, un posto in cui siamo sempre più stufi che la stupidità di qualcuno ci ricordi da dove veniamo, fosse chissà dove andiamo. Un posto, insomma, dove perfino le banane sono diventate tristi.


 

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