Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

04 marzo 2014

PALAZZO GUANTANAMO
il manifesto, 04-03-2014
Alessandro Tricarico
Quello che fa più rabbia è che da quando ha chiuso siamo stati costretti a cambiare il nostro modo di operare, ora non pensiamo più all'accoglienza ma soltanto all'emergenza». Gervasio Ungolo, responsabile dell'Osservatorio Migranti Basilicata, si riferisce al campo di accoglienza di Palazzo San Gervasio (Potenza) che fino al 2009 ha ospitato 1.500 lavoratorí migranti stagionali per la raccolta del pomodoro. Quello che era simbolo di integrazione e accoglienza, sorto tra l'altro su un bene confiscato alla mafia, oggí non c'è più. Al suo posto c'è un Cie, chiuso e abbandonato dal giugno 2011 dopo un'inchiesta giornalistica. Il centro di identificazione ed espulsione è salito agli onori della cronaca nazionale con il nome di «Guantanamo d'ltalia» grazie a un video girato dai tunisini reclusi al suo interno. Contiene immagini forti, tra queste una in particolare: un migrante giace a terra, immobile, dopo esser caduto da una recinzione alta 5 metri. I soccorsi tardano ad arrivare. Due poliziotti, anche loro immobili, guardano il ragazzo non sapendo cosa fare. Dall'interno della recinzione si sollevano le urla, le uniche comprensibili sono «perché» e «terroristi». Fabrizio Gatti ha paragonato quell'immobilità dei poliziotti all'immagine che «l'Italia sta dando sui suoi rapporti con il nuovo Nord Africa».
Aperto come Cai (Centro di accoglienza e identificazione) cambia il nome in Cara (Centro di accoglienza richiedenti asilo) nel febbraio 2011. In piena emergenza Nord Africa diventa Cie grazie a un decreto dell'allora presidente dei consiglio emanato il 21 aprile dello stesso anno che, con effetto retroattiyo, ha fatto in modo che si innalzassero mura di cinta e recinzioni alte 5 metri intorno ai tunisini detenuti sbarcati dopo il 5 aprile, e cioè dopo quella data spartiacque che ha vietato loro il tanto discusso permesso umanitario temporaneo. Permesso con il quale codardamente l'Italia ha fatto un passo indietro dinanzi agli sbarchi e alle vittime del mare. Preferendo rilasciare, invece di far fronte all'emergenza, un permesso di libera circolazione di sei mesi sul territorio italiano: è la politica dello "scaricabarile"
Chi gestisce questi centri spesso non ha nessuna qualifica o esperienza, partecipa semplicemente a una gara di appalto dove ai detenuti viene assegnato un valore che oscilla tra i 30 e i 60 euro. La cosa strana è che nel Cie di Palazzo la gestione era stata affidata, senza partecipare ad alcuna gara d'appalto, alla società trapanese Connecting People, tuttora in attesa di giudizio con l'accusa di associazione a delinquere flnalizzata alla truffa dello Stato e inadempienze di pubbliche forniture per aver "fatturato" un numero di ospiti maggiore di quelli realmente presenti nel Cie di Gradisca, per un danno complessivo di quasi 1,5 milioni di euro. Un vero e proprio business
Secondo la Caritas ogni anno la spesa pubblica per la gestione di questi centri è di 55 milioni di euro, ma stiamo parlando di stime perché un dato ufficiale non è mai stato fornito dal ministero della Giustizia. Stando invece al dossier di Lunaria, nel periodo 2005-2011 lo stato ha speso 1 miliardo di euro per allestire, gestire, mantenere e ristrutturare i centri. Un impiego di forze e di denaro non indifferente per contrastare l'immigrazione irregolare. I risultati? Ridicoli: il totale dei trattenuti rappresenta lo 0,9% degli immigrati irregolari presenti in Italia, e a oggi meno della meta dei trattenuti è stato rimpatriato nel suo paese di origine, nonostante abbiano aumentato i tempi di permanenza per l'identificazione da 6 a 18 mesi di reclusione. Parliamo di una detenzione preventiva in vere e proprie carceri speciali e isolate dal resto del mondo. Prigionia arbitraria spesso perpetrata ai danni di innocenti, colpevoli solo di essere arrivati in ltalia sprovisti di un documento.
Proprio come Zied, tunisino, che nel Cie di Palazzo San Gervasio ha passato un mese e un giorno: «Il tempo non passava più, è come esserci stato per 3 o 4 anni», mi dice al telefono. «Non sono mai stato in carcere, ero in ansia e non riuscivo a dormire, ho chiesto delle medicine per la testa (tranquillanti, ndr) e mi hanno dato medicine per la pancia». Ora Zied vive in Italia, ha otte- nuto l'asilo politico e lavora al mercato, «ho la carta d'identità, la patente e la tessera sanitaria. Tu ce l'hai la tessera sanitaria?» mi dice ridendo. Gli chiedo com'era la permanenza nel Cie di Palazzo: «Come porci ci trattavano», e non aggiunge altro. Lo credo bene. Il Cie di Palazzo San Gervasio consisteva in una colata di cemento di un ettaro con 18 tende della protezione civile, nelle giornate calde diventava un forno a cielo aperto senza altra possibilità di ombra se non quella delle stesse tende roventi. Un non-luogo dove ogni diritto civile" veniva meno, dall'acqua calda alla possibilita di parlare con un avvocato.
La chiusura di questo centro è stata una vittoria effimera, dato che nel novembre dello scorso anno si sono regolarmente aperte le buste con i vincitori del bando per la ristrutturazione del Cie di Palazzo San Gervasio e quello di Santa Maria Capua Vetere. Sono stati stanziati 18 milioni di euro, sbloccati da un'ordinanza del capo della protezione civile Franco Gabrielli che ha attinto ai fondi elargiti dell'allora governo Monti per l'Emergenza Nord Africa.
È un caso emblematico quello di Palazzo San Gervasio, che ci interroga sul perché proprio ora che il sistema di detenzione del Cie sta crollando ci sia ancora chi continua ad erigere queste inutili e costosissime carceri.
Ancora una volta i fatti ci hanno dimostrato che non siamo tutti uguali e che per colpa di un passaporto c'è chi è destinato à passare la sua esistenza a testa bassa, chiedendosi il perché non può sperare di sognare una condizione migliore. E poi c'e invece chi può liberamente oltrepassare i confini senza essere arrestato, e forse non si è mai chiesto il perché di cosi tanta fortuna.



Ma integrare non è assimilare
Tra «ius soli» e «ius sanguinis»
Corriere della sera, 04-03-2014
Giovanni Sartori  
Quando Letta creò il suo governo inventando per l’occasione un ministero dell’Integrazione affidato a Cécile Kyenge «donna e nera», laureata in farmacia (o medicina) e specializzata in oculistica, pensai che questa signora, spuntata dal nulla e manifestamente incompetente in materia di integrazione, fosse una super protetta di chissà quanti colli e montagne. Per fortuna mi ero sbagliato visto che non è stata inclusa nel governo Renzi. È sì previsto che Cécile Kyenge si presenti alle elezioni europee e sembra certo che la nostra sinistra terzomondista intenda farne il suo nuovo portabandiera ideologico. Ma al momento la nostra Cécile non è più (come ha scritto l’autorevole Foreign Affairs americano) una delle cento donne più potenti del mondo. Al momento si è solo manifestata come dogmatica fautrice dello ius soli e ora con il preannunzio di un libro (che echeggia nel titolo Martin Luther King) «Ho sognato una strada: i diritti di tutti». In attesa approfitto della pausa per riflettere sullo ius soli e, correlativamente, sullo ius sanguinis .
Giuridicamente parlando, la cittadinanza italiana è fondata sullo ius sanguinis : siamo cittadini italiani se siamo nati in Italia da cittadini italiani. Dopodiché restiamo italiani per sempre in patria e fuori. La soluzione opposta è quella dello ius soli : si diventa cittadini del Paese nel quale entriamo e ci insediamo. Storicamente questa differenza è facile da spiegare. I Paesi sottopopolati (l’America del Nord fino al 1620 era quasi vuota) adottano lo ius soli perché hanno bisogno di popolazione, di nuovi cittadini, mentre i Paesi con antiche popolazioni stanziali adottano di regola lo ius sanguinis : chi nasce in Italia è cittadino italiano e lo resta anche se poi va a spasso per il mondo.
Di per sé la distinzione in questione è logica e storicamente giustificata. Ma è stata sempre più travalicata dagli eventi. Secondo le statistiche i Paesi che adottano il criterio dello ius sanguinis sono ancora una maggioranza. Ma molti Paesi sono oggi piccole isole sperdute nei vari oceani. E anche le statistiche al riguardo variano troppo per dare affidamento. Restando in Italia, il nostro è oggi uno dei tanti Paesi in bilico tra lo ius sanguinis e l’apertura allo ius soli . È così perché la tecnologia delle comunicazioni unita all’esplosione delle popolazioni africane e asiatiche creano nuovi e difficili problemi. Sono problemi che mi propongo di esaminare in un prossimo articolo.
Al momento vorrei soltanto precisare che «integrare» non è lo stesso che «assimilare», e che la integrazione in questione è soltanto l’integrazione etico-politica: l’accettazione della separazione tra Chiesa e Stato, tra religione e politica. Per i musulmani tutto è deciso dal volere di Allah, dal volere di Dio. Qui il potere discende soltanto dall’alto. Per le nostre democrazie, invece, il potere deriva dalla volontà popolare e quindi nasce dal basso, deve essere legittimato dal demos .
La ex ministro Kyenge ha dichiarato che siamo tutti «meticci». Si sbaglia. Qualsiasi buon dizionario glielo può spiegare. Dulcis in fundo l’Arcivescovo di Milano, cardinale Scola, ha dichiarato che «siccome la mescolanza dei popoli è inevitabile... io dirò sì allo ius soli ». Santa semplicità.



Cittadinanza. I giudici: "Ritardi ingiustificabili, due anni devono bastare"
109 aspiranti cittadini, insieme a Inca, Cgil e Federconsumatori, vincono la class action contro il Ministero dell'Interno sui tempi di  trattazione delle domande. Piccinini: “300 mila in attesa, eterni immigrati o nuovi cittadini?”
stranieriinitalia.it, 04-03-2014
Elvio Pasca
Roma – 4 marzo 2014 -  La legge dà al ministero dell’Interno ben due anni di tempo, 730 giorni, per concludere il procedimento di rilascio della cittadinanza italiana dal momento in cui un immigrato presenta la domanda. È un termine abbastanza lungo da rendere “ingiustificabile ogni ritardo” nel completamento della procedura.
Finora lo diceva il buon senso, ora, speriamo con più efficacia, lo ha ribadito anche il Tar del Lazio.
I giudici hanno accolto la class action contro i ritardi presentata due anni fa da 109 aspiranti cittadini insieme a Cgil, Inca e Federconsumatori. In una sentenza depositata pochi giorni fa, hanno condannato il Ministero “a porre rimedio a tale situazione” entro un anno, seppur, clausola inevitabile per le azioni collettive contro la pubblica amministrazione, “nei limiti delle risorse strumentali , finanziarie e umane” a sua disposizione.
Si tratta di una class action alla quale avrebbe potuto aderire la stragrande maggioranza degli stranieri che vogliono diventare italiani. Altro che 730 giorni: il più delle volte la risposta arriva dopo tre, quattro, cinque anni. E intanto, denunciano i ricorrenti, gli uffici chiedono “documenti non necessari”, oppure la “versione aggiornata dei documenti già presentati” che però intanto sono scaduti proprio a causa dei loro ritardi.
Come se non bastasse, dal 2009, grazie alla famigerata legge sulla sicurezza, presentare la domanda di cittadinanza costa duecento euro. Una tassa che secondo la stessa legge servirebbe anche “alla copertura degli oneri connessi alle attività istruttorie”. In teoria: pago profumatamente per avere un servizio migliore. In pratica: pago profumatamente, ma il servizio è pessimo. “Che fine fanno davvero quei soldi?” chiede Claudio Piccinini, coordinatore degli uffici immigrazione dell’Inca.
Il ricorso aveva anche una parte “costruttiva”, nella quale Cgil, Inca e Federconsumatori hanno chiesto al giudice di ordinare al ministero un monitoraggio su procedimenti, tempi e utilizzo delle risorse e di mettere in campo una serie di interventi per migliorare la situazione. I giudici però non hanno accolto questa parte perché sarebbe stata un’invasione di campo: al di là di quello che dice la legge, non possono “insegnare il mestiere” al Viminale.
Le proposte dei ricorrenti rimangono comunque valide. Per esempio:  passare a una trattazione “in parallelo” delle pratiche, informatizzare le comunicazioni tra amministrazioni, non chiedere documenti inutili o aggiornamenti di quelli scaduti a causa dei ritardi, usare i soldi pagati dai richiedenti per smaltire l’arretrato, spostare sulle pratiche di cittadinanza personale di uffici che non hanno criticità.
“Anche senza una riforma della legge vigente, che pure auspichiamo, con un uso corretto delle risorse disponibili e una disponibilità del ministero a rivedere le procedure si possono e si devono ridurre i tempi di concessione della cittadinanza. È un passo indispensabile, se non vogliamo considerare eternamente immigrati tutti quelli che invece sono nuovi cittadini. Ci sono 300 mila persone in attesa, non possiamo continuare a calpestare i loro diritti” dice Piccinini a Stranieriinitalia.it.
Stavolta questi “eterni immigrati”, insieme, sono riusciti a far valere le loro ragioni, scritte in una legge che il ministero dell’Interno deve rispettare. Naturalmente Piccinini è soddisfatto: “È stato affermato, anche inaspettatamente, il valore che può avere una class action contro la pubblica amministrazione”, ma la battaglia continua: “Ora bisogna davvero tagliare i tempi. Da parte nostra c’è tutta la disponibilità a confrontarci con il Viminale per migliorare la situazione”.



Immigrati. Ue firma accordo con Tunisi su immigrazione
Internazionale, 03-03-2014
Bruxelles, 3 mar. (TMNews) – L’Unione europea e la Tunisia hanno firmato a Bruxelles un accordo che prevede procedure più snelle per il rilascio dei visti e una maggiore apertura all’immigrazione regolare in cambio della lotta contro quella clandestina.
Denominato “partenariato di mobilità”, l’accordo, al quale partecipano anche 10 Paesi membri dell’Ue (fra cui Italia, Francia, Germania, Regno Unito e Spagna) “vuole facilitare la circolazione delle persone fra Ue e Tunisia” e “promuovere una gestione comune e responsabile dei flussi migratori esistenti, attraverso la semplificazione delle procedure per il rilascio dei visti”, ha spiegato la commissaria agli Affari interni, Cecilia Malmstroem, in una nota.
Tunisi coopererà con l’Ue nella lotta contro l’immigrazione clandestina nel Mediterraneo. Oltre che ad aprire un negoziato per un accordo di riammissione degli irregolari, Ue e Tunisia si sono impegnate a cooperare in maniera più efficace nella lotta “contro la tratta degli esseri umani e il traffico dei migranti” e a migliorare la “gestione delle frontiere”. (segue, con fonte Afp)
Questa è una notizia dell’agenzia TMNews.



Primo marzo 2014 - Our Europe is without borders. Reddito e diritti per tutti
Migliaia di persone in piazza per sfidare i confini dell’Europa
Melting Pot Europa, 03-03-2014
Quest’anno la data del Primo marzo è stata caratterizzato da uno slogan proposto dai rifugiati che lottano organizzati di Lampedusa in Hamburg, scesi in piazza in un parade nelle vie della città tedesca, per rivendicare il diritto di restare: "la nostra Europa non ha confini"
In piazza in tanti in centinaia di città in tutta Europa con un filo conduttore comune: reddito diritti e dignità, per un’accoglienza degna, contro i confini e lo sfruttamento, contro ogni struttura detentiva per migranti, come affermatocon l’iniziativa di eri ed oggi nelle centinaia di piazze riempite dai movimenti in tutta Europa. Scenari diversi ma accomunati dalla volontà di opporsi alle politiche di sfruttamento, di militarizzazione dei territori, di mancanza di diritti, da Bologna a Padova, da Brescia a Milano, da Parma a Bergamo, da Niscemi a Calais, da Parigi ad Amburgo.
In Sicilia migliaia di persone hanno manifestato con il movimento No Muos non lasciandosi intimidire dai divieti e, nonostante l’intervento della polizia, raggiungendo i cancelli della base. In tanti si sono ritrovati anche a Padova intorno all’appello lanciato dall’ADL Cobas ed i lavoratori della logistica. Rifugiati, sfrattati, antirazzisti, hanno accompagnato i facchini fino a sotto le finestre della Prefettura gridando a gran voce il loro no ai ricatti nel lavoro.
A Bologna in tantissimi hanno sfilato per le strade del centro per rivendicare diritti e dignità, così come a Brescia, Milano, Bergamo, Parma ed in molte altre città italiane.
A Vicenza una animata e rumorosa iniziativa ha contestato la "preghiera" dei prolife contro la legge 194 perchè i diritti sono anche libertà di scelta.
Una mobilitazione diffusa ma con un orizzonte comune, una nuova occasione per affermare nelle strade quanto scritto nella Carta di Lampedusa

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