Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

Menù

 

"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

06 luglio 2010

Maroni tace sugli eritrei e apre un nuovo fronte: l'aeroporto di Malpensa
l'Unità 6 luglio 2010
Umberto De Giovannangeli
Aiutateci, siamo innocenti, non lasciateci morire...». Il grido di aiuto dei deportati eritrei nel lager libico, non scalfisce la corazza dell’insensibilità del ministro Roberto Maroni. Per il titolare del Viminale, la pratica è chiusa. Neanche una parola, nemmeno mezza. Dopo aver risolto l’emergenza sbarchi a Lampedusa, «ora l’aeroporto di Malpensa è la frontiera più avanzata per l'ingresso di immigrati clandestini, perchè da un anno Lampedusa è uscita dai traffici di clandestini dalla Libia», sentenzia il ministro.
Secondo Maroni, «i controlli sulle coste libiche hanno chiuso le rotte e nei primi mesi di quest'anno non è arrivato praticamente più nessuno a Lampedusa». Per questo ora l'attenzione delle autorità italiane si sta spostando sugli ingressi via aria, studiati partendo proprio da Malpensa, perché, spiega, «la frontiera aerea è la più insidiosa...». « Cosa intende fare ora il ministro dell'Interno?Chiedere aiuto di nuovo alla Libia di Gheddafi per respingere gli irregolari anche in Lombardia?», commenta Sandro Gozi,capogruppo del Pd nella commissione Politiche della Ue di Montecitorio.
Nessuna pietà
Nessun ripensamento. Il «modello-Libia» va per il meglio e andrebbe esportato. Per mare e nei cieli...Esulta Maroni, è silente Frattini. Ai due ministri consigliamo di prestare attenzione a questa testimonianza: «Ci torturano a tutte le ore, ci insultano e ci picchiano. Prima eravamo in un centro di detenzione, a Misurata. Alcuni di noi erano stati arrestati perché già abitavano in Libia, altri sono stati presi nelle città, altri ancora sono stati respinti dall'Italia lo scorso anno. Anche se avevano il diritto di essere accolti come rifugiati sono stati respinti». Così a CNRmedia uno dei 250 rifugiati eritrei detenuti in condizioni definite «disumane» nel deserto della Libia, senza acqua, cibo nè cure mediche. «Nessuno è morto nel trasporto, ma in molti hanno gravi problemi di salute. Ci sono persone che hanno braccia, gambe, teste rotte - prosegue il rifugiato - Ci sono anche 18 donne bambini. Le torture sono state molto pesanti. Tre persone, appena arrivate qui, hanno bevuto detersivo e sono state portate in ospedale: si è trattato di tentativi di suicidio». «Nessuno può venirci a vedere, nessuno viene a proteggerci, attorno a noi ci sono solo l'Ambasciata eritrea che ci vuole rimpatriare e le autorità libiche. Il problema è ottenere dei visti - aggiunge - abbiamo bisogno di essere riconosciuti come rifugiati, abbiamo bisogno di aiuto da parte della comunità internazionale proprio qui e ora. Perché stiamo morendo nel deserto».
Il Consiglio Italiano per i rifugiati (Cir) ha lanciato un nuovo accorato appello per i rifugiati eritrei detenuti in condizioni disumane nei centri di detenzione libici. «Dal centro di detenzione di Brak arrivano allarmanti notizie sul rischio di vita a cui sono esposti i 245 rifugiati eritrei che, dopo i maltrattamenti subiti negli ultimi giorni, chiedono l’intervento internazionale per salvarsi», si legge in un comunicato del Cir. « Sulla stessa lunghezza d’onda è Amnesty International.
Le condizioni del centro di detenzione di Sebah sono drammatiche - denuncia Amnesty in un comunicato - : oltre al sovraffollamento, l’acqua e il cibo sono insufficienti e i servizi igienici inadeguati. Amnesty ha sollecitato il governo libico a non rinviare forzatamente in Eritrea gli oltre 200 cittadini eritrei, rispettando in questo modo il principio internazionale del «non respingimento» verso Paesi in cui una persona potrebbe essere a rischio di subire tortura o altre forme di maltrattamento o dove «la sua vita, l'integrità fisica e la libertà personale potrebbero essere minacciate» . Se rinviate in Eritrea - incalza Amnesty - queste persone «rischiano di subire la tortura, punizione riservata ai colpevoli di “tradimento” e diserzione».



«Aiuto, stiamo morendo Portateci via dalla Libia»

Gli oltre duecento eritrei detenuti nel campo di Brak allo stremo E la visita dell 'ambasciatore di Asmara fa temere il rimpatrio
Avvenire, 06-07-2010
Ilaria Sesana
"Ci torturano a tutte le ore, ci insultano e ci picchiano. Prima eravamo in un centro di detenzione, a Misurata. Alcuni di noi erano stati arrestati perchè già abitavano in Libia, altri sono stati respinti dall'Italia lo scorso anno. Anche se avevano il diritto di essere accolti come rifugiati sono stati respinti». Torna a farsi sentire la voce degli eritrei di Brak, ormai allo stremo delle forze, detenuti da quattro giorni sotto il sole cocente del deserto libico. «Ci sono anche 18 donne e bambini. Le torture sono state molto pesanti. Tre persone, appena arrivate qui, hanno tentato il suicidio bevuto detersivo e sono state portate in ospedale». «Li ho sentiti anche questa mattina (ieri per chi legge, ndr) - riferisce don Mussie Zerai, presidente dell'associazione Habeshia - le condizioni e il trattamento sono gli stessi dei giorni scorsi: percosse al momento della conta e dei pasti. Persone ferite e malate prive di assistenza sanitaria». Privi di acqua sotto il sole cocente del deserto. Ieri le grandi associazioni internazionali per la tutela dei diritti umani sono scese in campo. Amnesty International ha chiesto a Tripoli di garantire agli eritrei acqua, cibo e medicine e soprattutto «non li rispedisca in patria, dove rischiano di subire la tortura, punizione riservata ai colpevoli di "tradimento" e diserzione». Ma nell'inferno di Brak il rischio di rimpatrio pare sempre più grave: «È stata annunciata un'imminente visita dell'ambasciatore eritreo al campo - denuncia don Mussie Zerai -. La notizia è stata accolta con grande preoccupazione perché si teme che l'obiettivo sia il rimpatrio in Eritrea». Hanno bisogno di aiuto, qui e ora, «perché stiamo morendo nel deserto». Hanno bisogno che la comunità internazionale intervenga, che qualche Paese terzo li riconosca come rifugiati politici e li porti via dall'inferno libico. Anche il Cir (Consiglio italiano per i rifugiati) continua a monitorare la situazione di Brak. «Non c'è più tempo da perdere - denuncia Christopher Hein, direttore del Cir -. Ripetiamo con forza la nostra richiesta al governo di trasferire e reinsediare i rifugiati in Italia».
La Farnesina, da parte sua, fa sapere che l'Italia «è pronta a fare la sua parte ma nel quadro di un'azione Uè», ha detto Maurizio Massari, portavoce del ministro degli Esteri, Franco Frattini. Massari ha spiegato come non si tratta di un «un problema tra I-talia e Libia», e «non si capisce perchè solo l'Italia si debba fare carico di questi rifugia-ti». Piuttosto, ha aggiunto, bisognerebbe chiedersi se la Ue è disposta a farsi carico di questi rifugiati eritrei: «Finora sembra proprio di no - ha concluso -.Abbiamo sempre sollecitato un intervento solidale della Ue, ma non è arrivato». «Questa è l'ultima occasione per muovere qualcosa. Se non succede qualcosa entro breve, per questi ragazzi sarà troppo tardi. L'Italia e la Libia sono responsabili per questo». Dagmawi Ymer, è nato ad Addis Abeba 33 anni fa e dal 2006 vive in Italia con lo status di rifugiato politico. Nel 2008 con il film "Come un uomo sulla terra" ha raccontato le violenze e le umiliazioni cui sono sottoposti i migranti che attraversano la Libia. Un documentario di denuncia forte e sofferto, ancora attuale. «Anzi, con i respingimenti la situazione in Libia è peggiorata - dice Dagmawi -. Non c'è una via d'uscita da quella trappola, le detenzioni sono ancora più lunghe le sofferenze di donne e bambini ancora maggiori». La complicità dell'Europa e dell'Italia, in questa situazione, è evidente. «I politici sanno quello che succede in Libia, i giornali ne hanno parlato -conclude Dagmawi -. Ma gli interessi economici in gioco sono più importanti delle vite umane».



Sono feriti e torturati. L'Italia tace. Ma proprio gli accordi italo-libici del 2009 legittimano la violenza di Gheddafì
Ancora a rìschio deportazione glì eritrei detenuti a Brak in Libia
Liberazione, 06-07-2010
Fulvio Vassallo Paleologo
Apprendiamo con angoscia crescente, ogni giorno che passa, delle torture e del rischio di "deportazione in patria" subiti dai profughi eritrei, in parte respinti in Libia lo scorso anno con il concorso delle nostre unità navali ed trasferiti il 30 giugno dal centro di detenzione di Misurata alla prigione di Brak, in pieno deserto vicino Sebha, una prigione gestita direttamente dalle forze di sicurezza libiche. Neppure le decine di persone che erano state gravemente ferite a Misurata, durante i primi tentativi di "identificazione'' da parte di rappresentanti del governo eritreo, vengono curate e sembrerebbe che almeno due eritrei non siano più ritornati nelle camerate, dopo essere stari condotti nelle sale di tortura del carcere di Brak.
Giunge adesso la notizia che, dopo la "punizione esemplare" inflitta a quanti si opponevano al rimpatrio in Eritrea, un rappresentante del governo eritreo si recherà a Brak ed incontrerà di nuovo i profughi, probabilmente per verificare se le torture li hanno "ammorbiditi" e se sono adesso disponibili ad essere rimpatriati. Con la prospettiva di altro carcere e di altri abusi, come è noto a tutti, per il trattamento che il governo eritreo riserva a quanti, dopo essere fuggiti, sono ricondotti a forza in patria.
La vicenda in corso va inserita in un progressivo giro di vite del regime libico nei confronti degli immigrati e in particolare contro i somali e gli eritrei, in gran parte richiedenti asilo. All'inizio di giugno Gheddafì ha deciso di chiudere - con l'accusa di svolgere attività illegale- la piccola delegazione di Tripoli dell'Alto Commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati che, malgrado la Libia non aderisse alla Convenzione di Ginevra, almeno riusciva ad incontrare alcuni richiedenti asilo, proprio come gli eritrei internati a Misurata. Una delegazione molto importante, al punto che il governo italiano l'aveva richiamata in diverse occasioni per giustificare gli accordi di cooperazione con la Libia ed i respingimenti collettivi in acque internazionali. Adesso sembra che la delegazione dell'Acnur potrà riprendere le sue modeste attività di censimento, ma temiamo che questa sia l'ennesima sceneggiata per rilegittimare gli accordi italo-libici, i respingimenti collettivi in mare e la detenzione arbitraria dei richiedenti asilo. E la Libia non ha neppure ratificato la Convenzione di Ginevra. Il Parlamento Europeo lo scorso 17 giugno protestava per le esecuzioni capitali che la giustizia libica aveva sancito dopo processi senza alcuna garanzia effettiva di difésa, in alcuni dei quali erano coinvolti anche degli immigrati nigeriani. Nella sua risoluzione, in diversi passaggi, il Parlamento europeo esprimeva anche forte preoccupazione per la sorte dei migranti bloccati in Libia, ricordando il divieto di trattamenti inumani o degradanti, oltre che della tortura e della pena di morte. Nessuna reazione, naturalmente, da parte del governo italiano. Ancora oggi, nessuna delle autorità italiane e straniere alle quali sono stati rivolti accorati appelli per la liberazione degli eritrei deportati da Misurata ha ancora avviato una azione di pressione sulla Libia perché questo scempio di persone innocenti cessi al più presto. Eppure anche il Parlamento italiano potrebbe fare qualcosa, dopo ave¬re votato a larghissima maggioranza gli accordi con la Libia, approvando la legge di ratifica n.7 del 6 febbraio 2009, che in diversi punti richiama le Convenzioni internazionali che proteggono i diritti umani, ma non la Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Sarebbe bene che i parlamentari ed i partiti, che in passato hanno approvato gli accordi con la Libia, in base ai quali erano previsti, oltre alla cessione di mezzi navali e terrestri, un sistema di comando interforze unificato a guida libica, «manovre congiunte e scambio di esperti e tecnici», riflettessero sulle conseguenze del loro voto di ratifica. Soprattutto per la legittimazione che quel voto ha rappresentato per le politiche più violente di Gheddafì nei confronti dei migranti, in gran parte potenziali richiedenti asilo, persone che se fossero giunte in Italia, come gli eritrei, avrebbero certamente avuto diritto ad una protezione intemazionale come oggi sono costretti a riconoscere alcuni fautori degli stessi accordi. Vorremmo anche, oltre al blocco - già avvenuto- dei negoziati tra l'Unione Europea e la Libia in materia di immigrazione  che la Corte Europea dei diritti dell'uomo si pronunci al più presto sul ricorso presentato contro l'Italia dopo i respingimenti collettivi in mare effettuati da nostre unità militari (nave Bovienzo) il 6 e 7 maggio dello scorso anno, quando i militari italiani abbandonavano i naufraghi, donne e minori compresi, in Libia, sulla banchina del porto di Tripoli. Da quella decisione della Corte di Strasburgo e dalla sua portata potrebbe dipendere il destino dì molte vite, non solo quello dei ricorrenti, una circostanza che, al di là del carattere individuale del ricorso, la stessa Corte non potrà certo ignorare. Si attendono anche gli sviluppi del processo in corso a Siracusa contro alti responsabili della Guardia di Finanza e del Ministero dell'interno, per i respingimenti collettivi effettuati qualche mese dopo verso la Libia. In modo diverso, sono tutti fatti che si legano alla terribile sorte dei profughi eritrei rinchiusi oggi in Libia nel carcere di Brak.



PARLANO GLI IMMIGRATI ERITREI DEPORTATI NEL SUD DELLA LIBIA

«Rischiamo la morte»
il manifesto, 06-07-2010
Stefano Liberti
Ero praticamente arrivato in Italia. Ora sono qui, in questo buco sperduto in mezzo al Sahara e rischio di finire nelle mani del governo del mio paese, che mi torturerà o mi ucciderà». L'uomo parla dal centro di detenzione di Braq, nel sud della Libia, dove è stato spedito il 30 giùgno scorso dalle autorità di Tripoli insieme agli altri 244 richiedenti asilo eritrei che stavano nel campo di Misratah.
Il suo nome non lo diremo, lo chiameremo semplicemente T. per ragioni di sicurezza. Ma la sua storia la racconteremo in dettaglio.
Perché chiama in causa direttamente il nostro governo. T. infatti è un «respinto», uno di quelli che sono stati intercettati in mare dalle unità militari italiane e rimandati indietro in Libia, in aperta violazione del diritto intemazionale.
Nel campo di Braq i «respinti dall'Italia» sono undici. Sono stati picchiati come tutti gli altri. Non hanno acqua, né cibo a sufficienza. Sono allo stremo. Ma la loro storia ci riguarda da più vicino: se non fossero stati respinti illegalmente in mare, oggi sarebbero al sicuro nel nostro paese, con un permesso di soggiorno come rifugiati politici o per protezione intemazionale.
Nel campo di Braq i «respinti dall'Italia» sono undici. Sono stati picchiati come tutti gli altri. Non hanno acqua, né cibo a sufficienza. Sono allo stremo. Ma la loro storia ci riguarda da più vicino: se non fossero stati respinti illegalmente in mare, oggi sarebbero al sicuro nel nostro paese, con un permesso di soggiorno come rifugiati politici o per protezione intemazionale. Il manifesto ha la lista di tutti i loro nomi, se il governo -che per bocca del sottosegretario Margherita Boniver ha definito «pretestuose e antistoriche» le critiche dirette alla politica italiana di contrasto alla cosiddetta immigrazione clandestina vorrà mai visionarla.
Tutti e undici erano saliti sulla stessa barca in direzione dell'Italia il 27 giugno del 2009. E tutti sono stati riportati a Tripoli, insieme agli altri 71 viaggiatori, fra cui 9 donne e tre bambini. Sono stati mandati indietro con l'inganno e con la forza, T. cerca di scacciare l'angoscia del presente e ripercorre le tappe di quel viaggio finito esattamente un anno fa con un ritorno beffardo al punto di partenza. «Abbiamo viaggiato tre giorni. Eravamo tanti sulla barca" racconta al telefono. Poi, ad un certo punto abbiamo perso la rotta e abbiamo iniziato a preoccuparci Sapevamo che non eravamo lontani dalla meta, ma vedevamo solo mare all'orizzonte. Allora, abbiamo telefonato con il satellitare ad alcuni amici eritrei a Tripoli. Questi hanno chiamato altri eritrei in Italia, che ci hanno poi contattato chiedendoci le coordinate satellitari».
T. ricorda l'angoscia dell'attesa e il sollievo provato quando ha visto avvicinarsi una nave italiana. «Era una grande barca. Una nave militare. Ci hanno caricati su e ci hanno detto che eravamo salvi. Ci avrebbero portato in Italia. Siamo saliti gridando dalla felicità», racconta T. «Ci hanno rifocillati, l'equipaggio all'inizio era gentile, ci hanno detto che saremmo finiti a Roma o a Milano. In realtà ci stavano semplicemente ingannando». Dopo un po', infatti, la situazione ha preso un'altra piega. «Ci siamo accorti che ci stavamo mettendo troppo tempo. I nostri amici eritrei ci avevano detto che eravamo a 30 miglia da Lampedusa. Non potevamo metterci così tanto tempo». La nave non stava andando verso l'isola pelagia, né verso le coste della Sicilia. Si stava dirigendo a sud, verso Tripoli, dove prevedeva di consegnare il carico di migranti -donne, uomini, bambini, tutti eritrei, tutti richiedenti asilo - alle autorità libiche.
«Abbiamo iniziato a intuire quello che sarebbe accaduto», racconta T. Ma alle loro richieste di spiegazione, gli uomini dell'equipaggio rispondevano con frasi vaglie. «Facevano finta di non capire l'inglese». Finché i loro sospetti si sono concretizzati nella forma di una imbarcazione più piccola, con a bordo dei libici. «C'erano anche degli italiani», ricorda T. Il che lascia credere che questa seconda imbarcazione fosse una delle motovedette che il nostro governo ha regalato a quello libico per i cosiddetti pattugliamenti congiunti della costa della Jamahiriya.
A quel punto, racconta T., a bordo si è scatenato il putiferio. «Ci siamo ribellati. Non volevano tornare indietro. L'equipaggio non sapeva che fare. A un tratto, hanno tirato fuori delle pistole elettriche e hanno colpito alcuni di noi, immobilizzandoli.. Le donne urlavano, i bambini piangevano. Gli italiani tenevano gli uomini sotto la minaccia dell'elettroshock. Con la forza ci hanno caricati sulla nave più piccola, che con altre due ore di viaggio è attraccata a Tripoli». Il ritorno in Libia ha avuto il sapore amaro del già visto. «Sapevamo cosa ci sarebbe accaduto. Ci hanno poi portato in vari centri. Lì siamo stati identificati e picchiati. Io e gli altri dieci siamo finiti a Misratah, Siamo rimasti lì un anno. Fino a giovedì scorso, quando ci hanno caricati come capì di bestiame e ci hanno portati qui, in mezzo al Sahara».
T. ripete che non vuole tornare a casa in Eritrea ma vuole semplicemente, come tutti i suoi 244 compagni di sventura, vedere riconosciuto il suo diritto d'asilo ed essere portato in un paese terzo, «in Europa o in Nord America, dove sono rispettati i diritti umani». Ha paura del futuro immediato. E ha una domanda che ripete.



L'odissea dei rifugiati eritrei "Torture su donne e bambini"

la Repubblica, 06-07-2010
ROMA — È sempre più grave la situazione dei rifugiati eritrei chiusi nel centro di detenzione di Braq, vicino Sabha, nel sud del deserto libico, per i quali ieri hanno chiesto con urgenza un intervento internazionale il Consiglio italiano rifugiati (Cir) assieme ad Amnesty international. La Farnesina, da parte sua, fa sapere che l'Italia «è pronta a fare la sua parte ma nel quadro di un'azione Ue», ha detto Maurizio Massari, portavoce del ministro degli Esteri Franco Frattini. Il Cir ha chiesto al governo italiano di «trasferire e reinsediare i rifugiati in Italia», mentre Amnesty si appella alle autorità di Tripoli affinché, oltre a fornire acqua, cibo, servizi igienici adeguati e cure, non rinviino forzatamente in Eritrea i rifugiati, «rispettando il principio internazionale del non respingimento verso paesi in cui una persona potrebbe essere a rischio». Ieri, uno dei detenuti ha parlato di «condizioni disumane» e torture ripetute anche su donne e bambini.



Il calvario dei detenuti eritrei bastonati nelle carceri libiche

la Repubblica, 06-07-2010
Carlo Ciavoni
ROMA  - "Siete stati fortunati a prendere solo tante bastonate. Avete infranto la legge libica e questo non è accettabile. Potevate pagare con la vita quello che avete fatto, senza neanche il processo". Sono le parole del direttore del carcere di Al Braq, 75 chilometri a sud di Sebah, temutissimo centro di detenzione in mezzo al deserto dove, dal 30 giugno scorso, sono assiepati tra gli altri 250 cittadini eritrei, fra i quali ci sono 18 donne e bambini, arrivati lì dopo un viaggio di 12 ore in un camion-container infuocato dal sole, senza acqua né cibo e con temperature fino a 50°. Erano stati intercettati domenica 6 giugno scorso in mare, in acque internazionali, a circa 20 miglia da Lampedusa, da una nave militare libica, arrivata a prelevarli "molto probabilmente dopo una segnalazione delle autorità italiane o maltesi, che ormai, a quanto pare, non intervengono neanche più" - dice Cristopher Hein, direttore del Consiglio Italiano per i Rifugiati - evidentemente per consegnarli direttamente ai carcerieri libici. Come da accordi. A denunciare questo ennesimo esempio di scempio dei più elementari diritti umani da parte delle autorità libiche è stato il quotidiano l'Unità.
Rischiano la vita. La "fortuna di essere presi a bastonate", torturati e insultati di continuo, le persone recluse l'hanno avuta dopo essersi rifiutati di firmare dei moduli che i secondini del carcere avevano loro sottoposto e che, secondo gli stessi detenuti,  avevano tutta l'aria di essere dei fogli di rimpatrio. Una specie di auto condanna a morte o, nella migliore delle ipotesi, ai lavori forzati per diserzione. Le persone recluse in condizioni che definire animalesche non rende perfettamente l'idea, sono tutte fuggite dall'Eritrea per evitare  -  appunto - il servizio militare, svolto in condizioni infami e in luoghi impervi e in modo permanente, in un Paese chiuso, isolato e  governato da una classe politica arroccata e iper militarizzata  nella delicata e complessa regione del Corno d'Africa e che sembra voler stringere rapporti solo con Gheddafi. 
Picchiati anche con le fratture. Le legnate sono state inflitte  -  e vengono regolarmente ancora "garantite", stando alla testimonianza di Moses Zerai, direttore dell'agenzia eritrea Habeshia - ad ogni tentativo di protesta nel carcere di Al Brak, dove non c'è cibo sufficiente per tutti, non c'è acqua, non ci sono servizi igienici e non viene fornita la minima assistenza neanche alle persone che, per via delle percosse, hanno subito fratture alle braccia, alle costole o alle gambe.
L'aiuto con un Sms. Tutto è cominciato con un Sms, proveniente da uno dei pochi cellulari rimasti ancora, chissà come, nelle mani dei reclusi nel carcere di Misurata, la città che s'affaccia sul Golfo della Sirte, dove vengono deportati tutti gli immigrati provenienti dal Corno d'Africa, non appena consegnati alla Libia, dalle navi italiane o maltesi. A ricevere l'sms è stato Moses Zerai: "Ci stanno ammazzando", diceva il messaggio "fate qualcosa". Si è temuto che, data la vicinanza di Al Brak con Sebah, dove c'è un aeroporto, il rimpatrio in Eritrea fosse imminente. Invece i contatti con i 250 disperati si sono avuti anche poche ore fa: si trovano ancora nel carcere di Al Braq, ma temono la visita dell'ambasciatore eritreo che, secondo loro, non annuncia nulla di buono. "E' la dimostrazione  -  hanno raccontato al telefono  -  di un accordo scellerato fra autorità libiche ed eritree per il nostro rimpatrio". Sarebbe urgente - ha detto Moses Zerai  -  "che all'incontro  partecipassero altre figure "'terze', come l'Unhcr (che da poco ha riaperto i suoi uffici a Tripoli, dopo la chiusura 1 di circa un mese fa) o del governo italiano, che in storie come queste non ha poche responsabilità".
Jean-Léonard Touadi. Il parlamentare del Pd ha detto che "Prosegue in Libia la lenta e pianificata agonia dei 250 rifugiati eritrei nel campo Al Braq e di Shebah, nel Sud della Libia. A più di tre giorni dalla richiesta di soccorso, inviata con Sms dall'interno dei container e delle roventi celle sotterranee del campo, il governo italiano ha scelto la linea dura e cinica del silenzio. Un muro di gomma d'indifferenza che con il passare delle ore diventa complicità e avallo implicito dello scellerato e criminale operato del governo libico. Tacciono anche i "difensori
della vita", solitamente molto loquaci e con magafoni potenti" - ha detto ancora  Touadi - "ma noi non taceremo. Continueremo, anzi, a chiedere al governo
di vigilare sui diritti umani, attraverso l'ordine del giorno Marcenaro - accolto al Senato- che impegna il governo italiano a monitorare l'applicazione del Trattato di
amicizia Italia-Libia."
Rita Borsellino. L'europarlamentare del Pd Rita Borsellino, ha chiesto che "Il governo italiano non si macchi del sangue dei 250 profughi eritrei e somali trattenuti sotto torture e pestaggi nelle carceri libiche di Sabah e Al Braq. Ho sempre detto - ha aggiunto - che gli accordi bilaterali con Tripoli non possono non prevedere delle garanzie sul rispetto dei diritti umani e del diritto all'asilo, come sancito da quella Convenzione di Ginevra, che la Libia non ha mai firmato".
L'impegno di Frattini.  Il CIR - consiglio Italiano per i Rifugiati, presieduto da Savino Pezzotta - fa notare che "tra le persone ci sono numerosi rifugiati eritrei respinti nel 2009 dalle forze italiane dal Canale di Sicilia in Libia. Anche in riferimento al trattato di amicizia italo-libico, lo stesso CIR aveva chiesto l'intervento del Presidente del Consiglio Berlusconi e del Ministro degli Affari Esteri Frattini, di fronte all'eminente pericolo di vita di molte persone. qualche ora fa, il capo della Farnesina ha infatti telefonato a Pezzotta per rassicurarlo che il governo italiano "si sta adoperando per i rifugiati eritrei".
L'appello a Napolitano. L'organismo di tutela per i richiedenti asilo politico - e gli eritrei sono i cittadini che otterrebbero quasi automaticamente questo status, se solo le autorità italiane consentisse loro di parlare - ha inviato una lettera al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, appellandosi alla sua sensibilità per i diritti umani. Contemporaneamente, ha scritto una lettera al Ministro dell'Interno Maroni chiedendo che l'Italia si faccia carico di queste persone offrendo al governo libico l'immediato trasferimento e reinsediamento nel nostro Paese.
Il reimpatrio dei nigerini. Nel frattempo la Libia si appresta a rimpatriare più di 260 prigionieri provenienti dal Niger, un paese governato da una giunta militare, ma soprattutto grande esportatore di uranio. Lo afferma l'agenzia libica Jana. Diverse organizzazioni internazionali - ma nessun governo -  hanno attaccato la Libia per quello che ritengono un "trattamento inumano" dei cittadini di altri Paesi africani, che finiscono nelle sue carceri, mai considerati dei possibili rifugiati in fuga da soprusi, violenze e guerre, e invece sempre, e comunque, trattati come delinquenti immigrati illegali. Lo scorso mese la Libia ha siglato un accordo sulla cooperazione giudiziaria con la giunta militare del Niger. Secondo l'agenzia Jana, 111 prigionieri hanno già lasciato Tripoli e altri 150 sono in partenza.



Consiglio d'Europa all'Italia: chiarire la sorte degli eritrei

Rainews24.it
6 luglio 2010
Il commissario ai diritti umani del Consiglio d'Europa, Thomas Hammarberg, ha chiesto aiuto al governo italiano per fare chiarezza sulla sorte di 250 eritrei detenuti in Libia. Con due lettere inviate lo scorso 2 luglio al Ministro degli Esteri, Franco Frattini, e al Ministro degli Interni, Roberto Maroni - il cui testo e' stato reso noto solo oggi - Hammarberg ha chiesto al governo italiano di "collaborare al fine di chiarire con urgenza la situazione con il governo libico".
Il gruppo era stato deportato su tre camion container come 'punizione' a seguito di una rivolta scoppiata il giorno prima fra i detenuti che non hanno voluto dare le proprie generalita' a diplomatici del loro Paese per paura di essere soggetti a un rimpatrio forzato.
Secondo i numerosi rapporti ricevuti dal Commissario Hammarberg prima del trasferimento degli eritrei da un campo di detenzione all'altro, "il gruppo sarebbe stato sottoposto a maltrattamenti da parte della polizia libica, e molte delle persone detenute sarebbero rimaste gravemente ferite". Sempre in base ai rapporti ricevuti - scrive Hammarberg nella lettera a Frattini e Maroni - tra i migranti, che rischierebbero ora l'espulsione verso l'Eritrea o il Sudan, vi sarebbero anche dei richiedenti asilo, e il gruppo includerebbe anche persone che sono state ricondotte in Libia dopo essere state intercettate in mare mentre cercavano di raggiungere l'Italia.
"Data la recente decisione delle autorita' libiche di porre fine alle attivita' dell'Unhcr nel Paese, e' divenuto estremamente difficile avere conferme sull'accuratezza di questi rapporti", scrive il commissario che, vista la "serieta' delle accuse", domanda all'Italia di collaborare al fine di "chiarire con urgenza la situazione con il governo libico".
E' sempre piu' grave la situazione dei rifugiati eritrei chiusi nel centro di detenzione di Braq, vicino Sabha, nel sud del deserto libico e serve con urgenza un intervento internazionale: a chiederlo e' stato ieri  il Consiglio italiano rifugiati (Cir) assieme ad Amnesty international, mentre uno dei detenuti parla di "condizioni disumane" e torture ripetute anche su donne e bambini.
La Farnesina, da parte sua, fa sapere che l'Italia "e' pronta a fare la sua parte ma nel quadro di un'azione Ue", ha detto a CNRmedia Maurizio Massari, portavoce del ministro degli Esteri Franco Frattini. Massari ha spiegato come non si tratti di un "un problema tra Italia e Libia", e "non si capisce perche' solo l'Italia si debba fare carico di questi rifugiati e del problema dei rifugiati in generale".
Il Cir ha chiesto al governo italiano di "trasferire e reinsediare i rifugiati in Italia", secondo quanto ha spiegato oggi il suo direttore, Christopher Hein. Inoltre, chiede che una delegazione di enti umanitari non politici sia ammessa ad una visita nel centro di Braq e che, "senza alcun ritardo", vengano fornite le cure di emergenza ai feriti.
Mentre Amnesty si appella alle autorita' di Tripoli affinche', oltre a fornire acqua, cibo, servizi igienici adeguati e cure, non rinviino forzatamente in Eritrea i rifugiati, "rispettando il principio internazionale del 'non respingimento' verso paesi in cui una persona potrebbe essere a rischio di tortura o altre forme di maltrattamento".
Intanto, dal deserto libico le voci dei rifugiati descrivono condizioni sempre peggiori: "Ci torturano a tutte le ore, ci insultano e ci picchiano. Stiamo morendo nel deserto", ha detto a CNRmedia uno dei 250 eritrei. "Prima - ha raccontato - eravamo in un centro di detenzione a Misurata. Alcuni di noi erano stati arrestati perche' gia' abitavano in Libia, altri sono stati presi nelle citta', altri ancora sono stati respinti dall'Italia lo scorso anno. Anche se avevano il diritto di essere accolti come rifugiati sono stati respinti". Molti, ha proseguito l'uomo, "hanno braccia, gambe, teste rotte, ci sono anche 18 donne e bambini. Le torture sono state molto pesanti".
E attorno, ha concluso, "abbiamo solo l'Ambasciata eritrea che ci vuole rimpatriare e le autorita' libiche. Il problema e' ottenere dei visti, abbiamo bisogno di essere riconosciuti come rifugiati, abbiamo bisogno di aiuto da parte della comunita' internazionale".



APPELLO REALISTA A FRATTINI  E MARONI
Governo ok, ma la morte per fame dei profughi è anche affar nostro
Il Foglio, 06-07-2010
Maurizio Crippa
L'Africa è una delle "priorità più grandi" della Cooperazione italiana, ha confermato ieri il ministro degli Esteri, Franco Frattini: stava presentando l'ultima avventura di "Overland", 50 mila chilometri tele-solidali attraverso il continente nero. Sempre ieri, il ministro dell'Interno Roberto Maroni ha spiegato in un convegno che, dopo la chiusura delle rotte dalla Libia, "Malpensa è diventata la prima frontiera per l'immigrazione clandestina". Facendosi largo a gomitate contro "l'altro bavaglio" dell'autocensura, come l'ha definito l'Unità, ieri si è imposta ai giornali e al mondo politico la tragica vicenda dei duecento e più profughi eritrei che rischiano di morire di stenti e torture nel campo di Brak, nel sud della Libia, dove sono stati deportati dalle autorità libiche pur avendo i requisiti per ottenere lo status di profughi, e che hanno fatto giungere in Europa una disperata richiesta d'aiuto. Alcuni di quei richiedenti asilo erano probabilmente stati respinti dall'Italia nei mesi scorsi, nonostante la Libia non abbia firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Di questo, ieri, Frattini e Maroni non hanno parlato. Anche se la Farnesina ha attivato, in contatto e sollecitata dal Consiglio italiano per i rifugiati (Cir) i propri canali operativi.
Sulla faccenda fioccano ora appelli e interpellanze, come quella annunciata dal senatore pd Roberto Di Giovan Paolo, della commissione Affari europei, secondo cui gli "accordi di collaborazione evidentemente non funzionano". Anche Amnesty International ha chiesto alla Libia di non rimpatriare i profughi eritrei.
Questo giornale non stravede per l'umanitarismo nella sua versione più facile, soprattutto quello che lascia passare nel disinteresse generale notizie come l'entrata a far parte della Libia, qualche mese fa, del Consiglio dei diritti umani dell'Orni. Abbiamo elogiato il governo italiano, cer-
cando di usare più raziocinio dell'emozione, quando Maroni ha firmato nel febbraio 2009 il protocollo d'attuazione di un Accordo di collaborazione fra Italia e Libia che era stato raggiunto, nel dicembre 2007, da un governo di centrosinistra, ministro era GiulianoAmato, per fronteggiare il fenomeno dell'immigrazione clandestina. Abbiamo riconosciuto il buon funzionamento di quell'accordo quando, nel maggio 2009, Maroni ha annunciato con l'orgoglio dei pragmatici il primo respingimento. Abbiamo parlato, allora, di un governo di buon senso e non succubo al politicamente corretto, che provava per la prima volta a spezzare la catena del traffico degli schiavi. Non ci indigna il "Trattato d'amicizia" con la Libia, né l'amicizia personale tra due leader scenograficamente eccessivi come Muhammar Gheddafi e Silvio Berlusconi, ancora nelle scorse settimane ospite a sorpresa del rais di Tripoli. Abbiamo assistito solo con un filo
di stupore alla satrapesca visita di Gheddafi dello scorso anno, con tende e amazzoni. E del resto alla presentazione di un libro andreottiano sul "viaggio del leader" in Italia, qualche settimana fa a Roma s'era radunato un parterre de roi e bipartisan, in prima fila proprio Frattini, Lamberto Dini e Massimo D'Alema, banchieri come Alessandro Profumo e imprenditori come Salvatore Ligresti fino a giornalisti come Valentino Parlato. A testimoniare di quanto sia complesso e strategico il rapporto con la Libia. Ma ieri l'unica voce del governo è stata quella di Margherita Boniver, presidente del Comitato Schengen e inviato speciale per le emergenze umanitarie del ministro Frattini, il cui nome sembra essere indicato dall'Italia per l'incarico di Rappresentante speciale dell'Ue per il Corno d'Africa, quando ha affermato che il governo "sta facendo tutto il necessario" per risolvere la vicenda "prima di tutto umana dei cittadini eritrei in territorio libico". E bene ha fatto Boniver a precisare che certe polemiche sul mancato attivismo dell'Italia in questo frangente drammatico sono "infondate e soprattutto antistoriche e controproducenti, perché non rispettano la sovranità della Libia".
Tuttavia. Tuttavia gli accordi bilaterali e il diritto internazionale impongono al nostro governo di distinguere, nei respingimenti, tra immigrazione clandestina e profughi che hanno necessità e diritto all'asilo. E ancor più, esiste una responsabilità, politica prima ancora che morale, che impone di richiedere a un partner con cui si è stipulato un solenne "trattato di amicizia" comportamenti virtuosi e non delittuosi, e il rispetto dei diritti umani. Si possono non condividere le critiche di chi ritiene l'Italia "moralmente responsabile" per via dei respingimenti. E si può anche non essere dei fan dell'Unhcr, soprattutto quando la portavoce Laura Boldrini denunciava i respingimenti.
Tuttavia, quando la sede dell'Unhcr in Libia è stata chiusa, qualche settimana fa, dal ministro Frattini si è sentito solo un invito alla Libia a essere "flessibile nell'attuazione della chiusura", ma che la legge libica andava "rispettata ovunque". E ora che la sede dell'Unhcr sta riaprendo, non pare che il merito sia della voce tonante dell'Italia. Ma il senso della responsabilità politica che l'Italia ha nel suo "rapporto mediterraneo" con la Libia è chiaro, allora la sua voce il ministro degli Esteri deve farla sentire, quando è necessario. E ugualmente il ministro dell'Interno non può ritenere circoscritto il suo pur egregio lavoro all'azzeramento degli sbarchi, è suo compito anche vigilare che gli impegni,come quelli per combattere la tragedia dell'immigrazione  clandestina, siano rispettati da un partner. E inoltre il diritto di asilo è sacro, non va messo tra parentesi.



Cara Unità
Luigi Cancrini
lUnità, 06-07-2010
TIZIANO SCAPIN
Un crimine contro l'umanità
Onorevole Maroni fermi, fermate il massacro dei prigionieri eritrei in Libia. Non si ostini a sprofondare il Paese in questo baratro di vergogna che la Storia non potrà mai perdonare. Non si faccia ricordare come mandante politico di uno dei più vergognosi olocausti del terzo millennio.
RISPOSTA -Il nostro giornale è uscito ancora ieri segnalando, in copertina, il bavaglio che gran parte dei media italiani si sono imposti sugli orrori che si stanno consumando in Libia. Con forza io vorrei qui riaffermare che gli eritrei respinti da Maroni e dal governo italiano non sono dei clandestini ma dei rifugiati politici. Che essi avevano e hanno dunque diritto ad essere accolti in Italia in base alle convenzioni internazionali da noi liberamente sottoscritte. Che fra loro ci sono donne e bambini. Che quello libico è un regime dittatoriale aspro e crudele cui Berlusconi sta dando una copertura diplomatica per ragioni economiche e perché, come ha segnalato Staino, lo aiuta a scaricare quelli che lui considera dei rifiuti umani: i soli che il suo governo è in grado oggi ancora di scaricare. Che tutto ciò ci riporta indietro di molti anni, al tempo in cui a massacrare gli eritrei erano, vergognosamente, i soldati italiani. Che le responsabilità di questo massacro sono del Governo italiano oltre che di Gheddafi e che è davvero incredibile il silenzio su questa tragedia di Maroni, di Frattinì, di Berlusconi e del Papa.


L'aeroporto lombardo «frontiera più avanzata per l'ingresso dei clandestini»
Maroni: Malpensa è la «nuova Lampedusa»

il Sole, 06-07-2010
ROMA- Chiusa la "voragine Lampedusa", l'immigrazione clandestina ha cambiato latitudine e mezzi e ha trovato un nuovo varco: dal mare della Sicilia ai cieli lombardi, la nuova frontiera di chi cerca di entrare in Italia in modo irregolare è ora Malpensa. «I controlli sulle coste libiche hanno chiuso le rotte e nei primi mesi di quest'anno non è arrivato praticamente più nessuno a Lampedusa» ha osservato il ministro dell'Interno Roberto Maroni intervenuto alla presentazione di una ricerca sul contrasto all'irnmigrazione irregolare allo scalo milanese. Il nuovo obiettivo è ora l'aeroporto di Malpensa. «Da un anno è la frontiera più avanzata per l'ingresso di immigrati clandestini, perché da un anno Lampedusa è uscita dai traffici di clandestini dalla Libia - ha detto Maroni -. La frontiera aerea è la più insidiosa, perciò porterò questa ricerca - ha annunciato il ministro dell'Interno - all'attenzione della commissione europea nel prossimo Consiglio di inizio ottobre, perché è utile estenderla agli altri aeroporti del continente allo scopo di presidiare punti di accesso come gli aeroporti mentre si sta allargando l'area Schengen». Pagando 10-15mila euro le organizzazioni criminali offrono agli immigrati un "servizio" che include spesso l'utilizzo di documenti falsi.
Il nuovo scenario non comporta, però, l'apertura di un Cie (centro di identificazione ed espulsione) a Malpensa, come chiesto dal vicesindaco e assessore alla Sicurezza di Milano Riccardo De Corate «Prima di raddoppiare i centri dove ci sono già, come in Lombardia, bisogna aprirne nelle regioni che non ne hanno nemmeno uno» è stata la risposta di Maroni. Confermato, perciò, il piano di aprire «nel 2010 Cie in Veneto, Toscana, Marche e Campania, mentre nel 2011 nelle altre regioni ancora sprovviste. Se ovviamente - ha spiegato Maroni -nelle regioni in .cui un Cie c'è già ci fossero richieste di averne un altro le prenderemmo in considerazione, anche perché un Cie è uno strumento che aumenta la sicurezza».
Ieri il titolare del Viminale ha parlato anche di altro: Expo 2015 e piano sicurezza. «È necessario accendere i riflettori sull'Expo di Milano 2015 per vigilare sia sulla tracciabilità dei flussi finanziari, sia sull'elenco delle aziende, che devono appartenere a una white list» ha detto Maroni parlando a Udine a un incontro sulla sicurezza degli enti locali. «Ogni euro - ha aggiunto - dovrà venir seguito nei suoi passaggi di mano in mano, in quanto la sua tracciabilità vuol dire garanzia di far bene contro la criminalità organizzata».
A Udine Maroni ha affrontato invece la questione delle ronde previste dal pacchetto sicurezza. «Mi sono ripromesso di rivedere la normativa e i regolamenti nazionali a un anno dalla loro approvazione - ha annunciato il ministro - per vedere cosa funziona e cosa no».



"E' Malpensa la nuova Lampedusa"

Immigrazione, allarme di Maroni sugli aeroporti. "Ma lì nessun Cie"
La Stampa, 06-07-2010
Francesca Paci
ROMA-La nuova frontiera degli immigrati irregolari si chiama Malpensa. Secondo uno studio della Sea, la società di gestione degli aeroporti di Milano, lo scalo internazionale lombardo ha preso il posto di Lampedusa nei sogni proibiti di chi fugge da miseria, guerre, carestie. Leggendo le cifre del nuovo rapporto incrociate con quelle del Viminale sembra infatti che gli accordi con Gheddafi abbiano sigillato a tal punto le coste libiche da lasciare gli spietati Caronti del Mediterraneo pressoché disoccupati. Se la tolleranza zero premia, come sostiene il ministro dell'Interno Roberto Maroni argomentando che da un anno l'isola siciliana «è uscita dal traffico di clandestini», significa che è tempo di concentrare gli sforzi laddove, interdetti dalle rotte marittime, gli ingressi illegali pressano di più. Malpensa come Parigi Charles de Gaulle, Heathrow, Francoforte, Amsterdam.
Sebbene tra il 2006 e il 2009 il numero di coloro che sono atterrati in qualche modo a Malpensa e sono stati rispediti indietro sia sceso da 3.986 a 784, il biglietto aereo di sola andata è la scommessa con la fortuna 2010. La Sea evidenzia infatti che seppur il viaggio costa fino a 10,15 mila euro è però molto più sicuro. Certo, ammette il presidente di Sea Giuseppe Bonomi, «la riduzione degli arrivi è in parte dovuta al dehubbing». Ma non solo: «Il calo dei respingimenti non è proporzionale a quello del traffico aereo di Malpensa». Ossia: tutto merito della rinvigorita severità dei controlli, coadiuvati oggi dalla sperimentazione del body scanner.
Chi lavora con l'immigrazione osserva da anni lo slittamento da Lampedusa a Malpensa. «Gli aeroporti sono sempre stati ventri molli, è da lì che entrano gli stranieri regolarmente dotati di visto turistico o di lavoro, la maggioranza dei futuri clandestini» osserva Giovanna Zincone, presidente del centro studi sull'immigrazione Fieri e consulente del Capo dello Stato per i problemi della Coesione Sociale. «Tre quarti degli attuali irregolari hanno soggiornato nel nostro paese alla luce del sole finché non è scaduto loro il permesso e gran parte dei regolari sono stati per un periodo fuori legge» conferma Elvio Pasca, reporter del portale Stranieri in Italia. Niente di nuovo sul fronte occidentale, insom-
ma. Perché, sintetizza il presidente dell'Associazione Migrare Maurizio Calò, cambiando l'ordine degli addendi la somma resta identica: «Le migrazioni sono fenomeni globali che non si arrestano con le barriere ma riequilibrando i sistemi economici. Anche l'Italia nel suo piccolo può contribuire, basta pensare alla Coop che ha comprato la produzione di fagiolini del Burkina Faso dei prossimi cinque anni. Il lavoro scoraggia la fuga di chi ha fame».
E gli altri? A Malpensa troveranno uno sbarramento invalicabile, promette il ministro Maroni, ma non un nuovo Cie: i 10 centri di identificazione ed espulsione sparsi in 9 regioni italiane per ora sono sufficienti. Fin troppo, chiosa Calò: «Siamo i primi a dire no ai clandestini, ma rinchiuderli in una piccola disumana Guantanamo non fa che acutizzare il problema».



Malpensa nuova frontiera dell'emergenza clandestini
Maroni: «Superati gli sbarchi di Lampedusa»
Corriere della Sera, 06-05-2010
Claudio Del Frate

MALPENSA (Varese) — La «prima linea» del contrasto all'immigrazione clandestina si sposta a Nord «e adesso è Malpensa la nuova Lampedusa». Il ministro degli interni Roberto Maroni ridisegna la mappa del traffico di esseri umani e da quando nell'isola al centro del Mediterraneo sono cessati gli sbarchi c'è il rischio che la pressione dei flussi illegali scelga nuove rotte, quelle del traffico aereo in particolare. Maroni ha esternato la sua preoccupazione ieri mattina a Malpensa, dove Sea - la società che gestisce gli aeroporti di Milano - ha presentato una ricerca sull'immigrazione clandestina che passa proprio attraverso lo scalo lombardo.
Il confronto con Lampedusa è al momento simbolico e per fortuna i numeri registrati a Malpensa sono lontani da quelli dei barconi stracarichi di immigrati intercettati alla deriva tra la Sicilia e l'Africa. Nel corso del 2009 nello scalo milanese è stato bloccato l'ingresso di 739 stranieri irregolari (l'equivalente del «carico» di quattro barconi che arrivavano a Lampedusa), un dato per giunta in calo dopo che Alitalia ha voltato le spalle a Milano: nel 2006 infatti i «respingimenti» erano stati poco meno di 4.000. II ministro ha escluso che in aeroporto verrà aperto un nuovo centro di identificazione ed espulsione. Il problema, però, esiste in prospettiva.
«Malpensa — ha affermato il responsabile del Viminale — è diventata la prima frontiera per i clandestini dopo che Lampedusa è uscita dal circuito del traffico di esseri umani. Nella nuova strategia dell'immigrazione illegale vengono privilegiate le vie aeree e questo rischia di diventare uno dei punti cruciali assieme a Parigi, Londra e Francoforte».
La ricerca presentata ieri sottolinea che il metodo più comune di accesso al territorio italiano è il visto turistico, scaduto il quale l'immigrato continua a rimanere nel nostro paese; ma frequente è anche il caso di sbarchi con passaporti 0 visti falsificati. Le organizzazioni internazionali incassano per ciascuno di questi trasbordi fino a 15mila euro a persona. Non necessariamente è l'Italia la meta finale del clandestino, ha sottolineato il curatore della ricerca Giulio Sapelli, anzi: spesso lo scalo lombardo viene privilegiato proprio per la sua vicinanza con la Svizzera e la Francia. Il problema della politica è ora adattarsi al mutamento di scenario. «L'Italia e l'Europa — ha detto Maroni — stanno cercando nuove risposte al fenomeno. Quella che noi stiamo suggerendo è di rafforzare il ruolo di Frontex, l'organismo dell'Unione Europea che al momento ha soltanto compiti di coordinamento nelle politiche sull'immigrazione. L'idea del nostro governo è invece quella di assegnare più poteri a Frontex, dal pattugliamento dei confini fino all'esecuzione delle espulsioni».



Malpensa il nuovo fronte caldo «Il pericolo sono i finti turisti»
Gli irregolari arrivano in aereo ma poi si nascondono e non lasciano l'Italia Maroni: «Rischio terrorismo». Mantovano: «Purtroppo eliminati i visti»
il Giornale, 06-07-2010
Emanuela Fontana
Roma L'aeroporto di Malpensa è uno «dei nodi principali dell'immigrazione irregolare per via aerea in Europa». Lo scrive la polizia delle frontiere comunitarie esterne Frontex, lo ribadisce la Sea, la società di gestione degli scali milanesi, in uno studio presentato ieri nell'aeroporto lombardo. Con la chiusura del centro di espulsione di Lampedusa, il disegno delle rotte clandestine si sta modificando, le mappe dei flussi migratori sono cambiate, si tenta l'ingresso in Italia da altri spazi. Per mare, dalla Grecia e dalla Turchia. Oppure in modo più organizzato: con regolare biglietto. E il luogo più sensibile per quest'immigrazione all'apparenza corretta sarebbe proprio Malpensa: la nuova Lampedusa, «la
prima frontiera» dell'immigrazione  clandestina, la definisce il ministro dell'Interno Roberto Maroni. I respingimenti dimezzati (784 contro i 1401 del 2008, con 147 domande di asilo politico) non significano un allentamento dei controlli. Nascondono anzi il pericolo più insidioso. «Il problema numero uno - spiega poi al Giornale il sottosegretario all'Interno Alfredo Mantovano - sono i turisti che rimangono nel nostro Paese». Hanno tutto in regola, ma non se ne vanno più via. So-no gli overstayers, per usare un termine tecnico, i turisti per sempre, o finti turisti. Secondo le ultime stime circa i due terzi dei clandestini in Italia, dunque oltre il 70%, entrerebbero dalle frontiere in questo modo. Non c'è più nemmeno bisogno di un vero permesso: «Purtroppo la direttiva europea -sottolinea il sottosegretario -prevede l'eliminazione del visto: basta una semplice autoattestazione per chi entra in Italia non per motivi di lavoro in cui ci si impegna ad allontanarsi dal territorio italiano entro 90 giorni. Tutto questo fa sì che si entri regolarmente e poi, alla scadenza dei tre mesi, si resti in Italia». È su questo aspetto in particolare che «si sta lavorando», eliminata l'emergenza dei barconi di Lampedusa dopo l'accordo sui respingimenti in mare con la Libia. In questo settore in continua trasformazione quando «si vince una battaglia», spiega Mantovano, «non significa che si è vinta la guerra». Arginata Lampedusa, ecco che le rotte clandestine si spostano su Malpensa, e anche sulla Puglia: «In provincia di Lecce sono ripresi gli sbarchi. Non si vedevano dai tempi dell'emigrazione dall'Albania». Cinquecento dall'inizio dell'anno.
A Malpensa la polizia di frontiera si è trovata a gestire casi di immigrati che nell'area transiti stracciavano il proprio passaporto per rendersi irriconoscibili e per evitare quindi l'espulsione immediata. Alle spalle dei clandestini che tentano l'ingresso per via aerea si arricchisce un racket di smugglers of migrants, smistatori, che preparano pacchetti di documenti-biglietti aerei a cifre che si aggirano intorno ai 10-15mila euro. Il ruolo più impegnativo che si impone al più grande scalo del nord Italia consiste ora, proprio per la caratteristica di hub, in quello di punto di passaggio verso altre destinazioni, «nel fermare quella che è l'insidia maggiore», secondo Maroni: il «terrorismo internazionale». E per questo sono necessari «maggiori controlli», che l'Europa per prima deve mettere in campo, «anche se non sempre», ha ricordato in leggera polemica, «riesce» a «dare risposte».
Nel 2009 è salito il numero dei documenti falsi rintracciati dalla polizia di frontiera: 213 nel 2009, dice lo studio curato dalla Sea. Il vicesindaco di Milano Riccardo De Corato racconta che le forze dell'ordine stanno identificando numerosi cinesi con in mano regolare permesso di soggiorno, «dormono per strada, nei sacchi a pelo». E allora c'è qualcosa che non torna: quel permesso era fittizio, c'è una macchina che smista e dosa gli ingressi all'apparenza «di lusso». Secondo De Corato c'è bisogno di un Cie (centro di identificazione e espulsione) proprio a Malpensa: «Il nostro centro di via Corelli può ospitare solo 90 persone, i clandestini a Milano sono 50mila». Maroni per ora risponde «no». Si partirà dalle regioni sprovviste: «Entro la fine dell'anno» saranno certamente aperti «quattro Cie» in Veneto, Toscana, Marche e Campania.



Malpensa, l'hub leghista che sembra Lampedusa

Il ministro Maroni: lo scalo lombardo è la nuova frontiera dell'immigrazione. Esclusa l'ipotesi di un Cie varesino
Libero, 06-05-2010
Matteo Legnani
MILANO-Certo, l'accostamento non è dei più felici, sul piano dell'immagine: «Dopo Lampedusa, ora è Malpensa la prima frontiera dell'immigrazione clandestina». La frase, pronunciata non da uno dei soliti politici portajella del Pd in transito nello scalo varesino, ma nientemeno che dal ministro dell'Interno leghista Roberto Maroni, fotografa però assai efficacemente il destino beffardo di Malpensa. Che, nata dodici anni fa come prima porta d'ingresso al paese per turisti e businessmen di tutto il mondo, ieri mattina è stata "retrocessa" ad approdo di clandestini da un politico del partito che più credette nel suo brillante futuro tra gli scali aerei europei.
La realtà, ovviamente, non è né così deprimente né così allarmante. Non è che Malpensa si sia trasformata in una novella Lampedusa con divanetti e aria condizionata al posto di brande e container: è semplicemente che, grazie all'accordo con la Libia, sull'isola non vedono l'anima di un clandestino da circa un anno. Mentre Malpensa resta (più di Fiumicino) la comoda porta d'accesso al ricco Nord Italia. E la più vicina ad altri paesi europei come la Germania, la Francia o l'Austria.
Che a Malpensa non ci sia un'emergenza clandestini lo dicono anche i numeri, illustrati ieri nello scalo da uno studio della Sea sull'immigrazione irregolare per via aerea: dai 3.986 casi di respingimento del 2006, si è scesi a 2.750 nel 2007 arrivando poi a 1.401 nel 2008 e a 784 lo scorso anno. Molto ha fatto la riduzione dei collegamenti intercontinentali successiva alla "dipartita" di Alitalia nella primavera del 2008. E molto anche i controlli sempre più efficienti ed efficaci, che hanno scoraggiato i "viaggi della speranza" con mezzi di trasporto "regolari".
Ma il messaggio di Maroni è chiaro: guai ad abbassare la guardia, perchè proprio il venir meno di Lampedusa ha reso   Malpensa   una   porta
d'accesso più invitante e obbligata per le migliaia e migliaia di clandestini che ogni anno lasciano l'Estremo Oriente, il Sudamerica e il Nordafrica per il nostro paese.
Da questo punto di vista, il fatto che il ministro abbia negato l'imminente realizzazione presso lo scalo di un Centro di identificazione ed espulsione (più volte chiesto dai politici lombardi e milanesi) va accolto in senso positivo. Perchè, al di là degli accordi con la Libia di Gheddafi, l'impressione è che il Cie di Lampedusa abbia per anni recitato il ruolo inconsapevole e involontario di calamita dei disperati di mezzo Mediterraneo. E che via quello, siano spariti anche i suoi "utenti".



Dopo l'accordo con Gheddafi Sbarchi ridotti del 90% Al Sud i centri sono vuoti

Libero, 06-07-2010
Sono lontani i tempi in cui l'emergenza immigrazione clandestina faceva rima con Lampedusa. I dati parlano chiaro: nel 2008 i clandestini sbarcati sulle coste meridionali del nostro Paese sono stati in totale 31.281, di cui 30.657 solo a Lampedusa. Nel 2009 gli sbarchi si sono ridotti a 3.185, quasi il 90 per cento in meno. Anche in questo caso è stato il centro agrigentino a fare la differenza accogliendo nel proprio Cie «soltanto» 2.567 immigrati. Merito dell'accordo stipulato nel maggio 2009 con la Libia che prevede che i barconi in rotta verso la Sicilia vengano fermati dalle unità navali italiane e affidati alle cure delle motovedette di Gheddafi.
La capienza del centro dell'isola è di circa 800 posti. Nel febbraio 2009 si arrivò ad ospitare oltre duemila immigrati, 900 dei quali per l'esasperazione diedero fuoco ai materassi e bruciarono per protesta un intero padiglione.
Fino all'inversione di tendenza dello scorso anno, il numero degli sbarchi aumentava di anno in anno: nel 2005 gli immigrati arrivati in Italia so¬no stati 22.939, il 68 per cento in più rispetto all'anno precedente. Nel 2006 gli arrivi sono stati 22.016 e nel2007 20.455
L'inversione di tendenza radicale si è avuta, come s'è visto, tra il 2008 e il 2009. E gli effetti, come spiega il XV Rapporto nazionale sulle migrazioni elaborato dalla Fondazione Ismu (Iniziative e studi sulla  multi etnicità), si sono visti quasi subito. All'inizio del 2009, su un totale di 4,8 milioni di stranieri presenti in Italia 418 mila erano irregolari. All'inizio del 2008 erano invece 651 mila.
Attualmente sono 29 in totale i centri per immigrati irregolari operativi sul territorio nazionale. Le strutture si distinguono in tre grandi tipologie: centri di accoglienza (Cda), centri di accoglienza richiedenti asilo (Cara) e centri di identificazione ed espulsione (Cie). I Centri di identificazione ed espulsione (così denominati con il decreto legge 92 del 23 maggio 2008), sono gli ex «Centri di permanenza temporanea ed assistenza»: strutture destinate al trattenimento, convalidato dal giudice di pace, degli stranieri extracomunitari irregolari e destinati all'espulsione.
La stragrande maggioranza di queste strutture sono tutte al Sud: Bari, Caltanissetta, Catanzaro, Brindisi, Crotone, Trapani. Nella media, spiegano dall'Ismu, nel meridione l'irregolarità è composta per il 40 per cento da nordafricani e per un altro 40-45 per cento da individui dell'area sub-sahariana. Si tratta, dicono gli esperti, di masse di immigrati che si muovono per cercare lavoro e il più delle volte finiscono nella rete dello sfruttamento da parte dai caporali locali che li utilizzano per il lavoro nei campi. Il caso Rosarno insegna. In futuro, se la nuova Lampedusa diventerà davvero Malpensa, anche la mappa dei Cie, come ha annunciato ieri Maroni, rischia di cambiare. E questa in prima linea ci saranno le regioni del Nord.



«Saif Al-Islam garantisca subito per la loro vita»

il manifesto, 06-07-2010
Tommaso DI Francesco
Ad Angelo Del Boca, storico della Libia e del colonialismo italiano, abbiamo rivolto alcune domande sulla vicenda drammatica dei 245 immigrati eritrei deportati nel sud della Libia, alcuni dei quali già espulsi dall'Italia. Come giudichi questa storia, davvero specchio del Trattato firrmato tra Italia e Libia che delega alle autorità di Tripoli il «lavoro» di contenimento e detenzione dell'immigrazione che le  autorità italiane considerano clandestina, cioè Illegale? Davvero non poteva esserci dimostrazione peggiore di quella di vedere addirittura persone respinte dall'Italia, ne risultano almeno 15, deportate da un campo all'altro all'interno della Libia fino all'estremo sud in pieno Sahara. E poi in campi che dicono di passaggio ma che sono di concentramento, pagati anche in parte dall'Italia. Questa è la cosa grave. Ho già denunciato in un convegno a Tripoli questo assurdo storico. Ho dichiarato che mi vergognavo che l'Italia pensasse di fare questi campi perché li consideravo, e li considero, come i campi di concentramento che costruimmo nell'occupazione coloniale e fascista nel 1930-1931. C'erano molti storici libici che però non commentarono. I deportati manu militari dal centro di Misratah, hanno avuto paura di essere di nuovo espulsi verso l'Eritrea e hanno protestato di fronte all'Imposizione di nuovi controlli...
Sì, sono stati deportati prima a Seba e poi a Braq. Conosco bene quei posti. Che, se ci vai da turista, sembrano belli ma se sei dentro un carcere è l'inferno, anche per il caldo intenso e l'umidità. La cosa Incredibile è che questo tipo di deportazione interna non sta scritta nemmeno nel Trattato controfirmato dall'Italia e dalla Libia. Allora, chi sono I responsabili?
No, assolutamente. Ecco un'altra cosa che bisognerebbe ridire una volta per sempre. Quando si fa un accordo con un paese che non ha firmato accordi internazionali di rispetto dei diritti umani, tu devi - se vuoi cautelarti, cioè se vuoi evitare quello che purtroppo sta accadendo - comprendere nel Trattato un articolo che avrebbe dovuto recitare: la Libia deve firmare gli accordi internazionali sui diritti umani del 1951. Accordi che Tripoli non ha mai firmato. Hanno sopportato per un po' di anni la presenza di un organismo dell'Unhcr-Onu che poi hanno cacciato vìa recentemente, nemmeno un mese fa. Così si comprende che i responsabili veri siamo noi. In questi giorni ho inviato un telegramma al ministro degli interni Roberto Maroni, perché non si può sopportare che un paese civile accetti questi comportamenti. Noi abbiamo una responsabilità diretta. Questo Trattato è funzionante da due anni, serve solo a Maroni per dichiarare «contento» che «non ci sono più arrivi di immigrati clandestini». Bella forza! Se questo deve costare morti in mare, gente che viene praticamente torturata e martirizzata in questi campi di concentramento, allora vale la pena di dire basta.
La cosa più grave è che parte di questi Immigrati ora deportati, è stata già fermata e respinta in acque internazionali dalla Marina militare italiana, in aperta violazione del diritto intemazionale. Slamo quindi di fronte ad una doppia violazione? Non c'è dubbio. E bisogna sapere che cosa rischiano questi giovani eritrei che potrebbero essere rispediti in Eritrea. Per alcuni, quelli espatriati per motivi politici, sarà la condanna a morte, per gli altri vorrà dire fare il militare a vita, perché oramai l'Eritrea ha un esercito permanente spaventoso, che si avvale di una sorta di arruolamento coatto. Quale proposta può essere fatta, proprio perché l'Italia è la prima responsabile di tutto questo?
Che vengano riportati in Italia. Ieri Lucarelli e De Cataldo su l'Unità chiedevano di adottarli  costruendo attenzione e iniziativa su questo. Io chiedo che vengano proprio riportati in Italia. È una proposta. Naturalmente, viste le difficoltà del governo italiano in questo momento, sarà difficile che ci ascoltino. Va richiamata l'attenzione di Tripoli, perché questa vicenda è una contraddizione anche interna, per un paese che punta ad essere punto di riferimento dell'intera Africa. Da questo punto di vista il leader Gheddafì è rimasto molto male dal fatto che la sua presidenza dell'Unione africana non sia stata rinnovata, è che invece gli sia stato preferito un paese marginale, ambiguo e tutt'altro che indi-
pendente come il Gabon. Io speravo molto e spero tutt'ora nel figlio di Gheddafì, Saif al-Islam. Voglio ricordare che è uscita in questi giorni la terza edizione del mio libro su Gheddafì ed ho aggiunto un capitolo nuovo, praticamente quasi tutto dedicato al figlio. Che in realtà è un uomo di alto livello, non solo per gli studi che ha svolto a Oxford, ma perché lavora alla stesura della prima Costituzione della Libia e anche perché ha dimostrato lungimiranza politica in più occasioni, liberando per esempio molti prigionieri politici - in due occasioni, prima 88 e poi 42 - non solo islamisti ma anche oppositori politici. Ha avuto il coraggio di dichiarare: «Preferisco chi e siano liberi e che si faccia un dibattito, piuttosto che tenerli sempre in carcere».
Cosa chiederesti dunque a Self Al-Islam?
Che intanto prenda un'iniziativa. Gli chiediamo prima di tutto che pensi alla vita di questi disgraziati che sono internati a Braq. Non è lui che può decidere che siano riportati in Italia, questo deve chiederlo il governo italiano. A Seif Al-Islam, che si è sempre occupato di casi e persone ridotte in cattive condizioni, possiamo chiedere che, in mancanza dell'organismo dell'Unhcr che è stato cacciato, sia lui prendere in mano la sorte, vale a dire la vita, di queste persone disperate. Evitando da subito che siano rimpatriati in Eritrea, perché sa bene che significa la morte o la vita permanente sotto le armi. In una parola che si faccia garante della loro esistenza in questo momento. E, comunque, che intervenga subito.



Due volte vittime tra burocrazia incivile e falsi documenti

l'Unità, 06-07-2010
Quando lo Stato non affronta in modo serio e completo un problema, ci saranno sempre altri pronti a farsi avanti per risolverlo a modo loro. È sempre così.
Può accadere, pertanto, che mentre l’immigrazione è ormai oggetto di studi e convegni, proposte di legge e interrogazioni parlamentari, gli immigrati debbano trovare – quasi sempre in totale solitudine - soluzioni urgenti ai loro problemi di vita. Debbano trovare un lavoro per poter richiedere il permesso di soggiorno o per poterlo rinnovare. Altrimenti, il nostro Stato li considera “clandestini”.
In questa realtà – fatta di norme fumose e di difficile attuazione, di regolamenti amministrativi di ardua comprensione e di persone in fila e in attesa per una vita normale – i delinquenti trovano ampio spazio di manovra.
Così, la Guardia di Finanza di Olbia ha scoperto un’organizzazione fatta per lo più da italiani e da qualche romeno, che si era specializzata nel fornire carte d’identità fasulle, buste paga inventate, attestazioni di datori di lavoro inesistenti. Insomma, tutta la documentazione necessaria per ottenere quel permesso di soggiorno che l’Italia ritarda a concedere.
Un’organizzazione destinata a rimanere nell’ombra se non fosse stato, come nella più ordinaria sceneggiatura di un giallo, per il ritrovamento di una valigia abbandonata e, al suo interno, carte d’identità e documenti di ogni genere pronti per essere compilati e consegnati agli stranieri in attesa.
Un’organizzazione che, nel frattempo, aveva fornito documenti a 150 cittadini extracomunitari che grazie ad essi avevano trovato lavoro apparentemente regolare e che, adesso, saranno con ogni probabilità espulsi. Due volte vittima, insomma.
Italia-razzismo

Share/Save/Bookmark
 


 

Perchè Italia-Razzismo 


SPORTELLO LEGALE PER RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO

 

 


 

SOS diritti.
Sportello legale a cura dell'Arci.

Ospiteremo qui, ogni settimana, casi, vertenze, questioni ancora aperte o che hanno trovato una soluzione. Chiunque volesse porre quesiti su singole situazioni o tematiche generali, relative alle norme e alle politiche in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza nonché all'accesso al sistema di welfare locale da parte di stranieri, può farlo scrivendo a: immigrazione@arci.it o telefonando al numero verde 800905570
leggi tutto>

Mappamondo
>Parole
>Numeri

Microfono,
la notizia che non c'è.

leggi tutto>

Nero lavoro nero.
leggi tutto>

Leggi razziali.
leggi tutto>

Extra-
comunicare

leggi tutto>

All'ultimo
stadio

leggi tutto>

L'ombelico-
del mondo

Contatti


Links