Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

30 gennaio 2015

I confini di guerra dell`Europa
il manifesto, 30-01-2015
Guido Viale
Dobbiamo imparare a ridisegnare i confini dell`Europa, prima ancora che sulla carta geografica, nella nostra rappresentazione mentale. Ad aver allargato quei confini non sono solo né soprattutto i motori della globalizzazione: la "libera" (cioè controllata da un numero sempre più ristretto di uomini ricchi e potenti) circolazione di Capitali, merci e informazioni,  bensì le privazioni e la violenza esercitate direttamente sui corpi vivi delle persone.
Ai confini politici (meglio sarebbe dire, amministrativi) dell`Europa ci sono infatti guerre, ormai trasformate in belligeranza endemica senza frontiere che l`Europa contribuisce ad alimentare con la subalternità agli Stati Uniti, che quei  conflitti hanno promosso e foraggiato, armando forze che poi gli si rivoltano contro e che non sanno più come fermare: Israele e Palestina, Libano, Iraq, Libia, Siria, Ucraina e, sullo sfondo, Eritrea, Niger e Nigeria, Afghanistan e Pakistan... Quei conflitti - insieme alla crisi ambientale e alla miseria indotta da politiche commerciali predatorie - continuano a creare milioni di profughi (i di fronte ai quali appaiono irrisori i «flussi» che l`Unione Europea cerca di arrestare con  Frontex, o di scaricare sugli Stati più deboli ed esposti con l`arma di Dublino 3).
I centri di annientamento
Oggi essi premono ai confini; ma prima o dopo li sfonderanno in massa a meno di adottare politiche di sterminio di cui si vedono le prime manifestazioni: al di là e al di qua dei confini «amministrativi» dell`Unione Europea sono in funzione da anni veri e propri centri di annientamento psicologico e fisico di migliaia di esseri umani a cui non si riconoscono i diritti intrinseci a una cittadinanza che, se è, non può essere che mondiale. Al di là, con finanziamenti italiani ed europei, come in Libia e in Sudan, o in forme affidate all`inventiva contrapposta di governi e migranti, come in Marocco, Egitto, Turchia, sono stati istituiti veri e propri campi di internamento e pattuglie armate con il solo scopo di fermare quell`umanità dolente prima che arrivi a toccare il sacro suolo dell`Unione sottraendoli allo sguardo dei cittadini europei mentre vengono massacrati. Al di qua, si moltiplicano i centri di detenzione, come i CIE in Italia, con costi e ruberie che, altrimenti indirizzati, basterebbero a garantire a uomini e donne imprigionate una vita decente per armi; e vengono continuamente creati, sgomberati e tatti risorgere campi per il popolo dei sinti e dei rom, a cui si sta negando il diritto di cittadinanza anche quando ne sono titolari.
Charlie Hebdo e non solo
Ma questa è solo la punta dell`iceberg: centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini sono condannati all`inesistenza  giuridica dalle leggi che istituiscono e puniscono il reato di clandestinità; sono destinati a girare da un ricovero di fortuna all`altro, pur essendo noto che la clandestinità produce, attira e moltiplica non solo criminalità minuta, ma soprattutto reclutamento da parte della criminalità grande e protetta.
Chi fa queste scelte non dice come pensa di «venirne a capo»; a quali approdi miri se non a una continua recrudescenza per «normalizzare» - e far accettare, passo dopo passo - lo sterminio di intere comunità. Infine, quelle guerre ai confini «amministrativi» dell`Europa, ma ben dentro il suo territorio «politico», stanno creando anche nel cuore del continente un solco sociale ed esistenziale profondo tra migranti o immigrati di seconda o terza generazione che mantengono ancora dei legami, stretti o laschi, o anche solo ideali e, sempre più religiosi, con i paesi di origine e le loro comunità, da un lato; e, dall`altro, un numero crescente di elettori «autoctoni», sospinti dalle «destre» - e dal loro inseguimento da parte di tanta «sinistra» - a percepirsi come un popolo invaso e espropriato della propria identità. Povertà, miseria, emarginazione e frustrazione prodotte dall`austerity non fanno che radicalizzare la contrapposizione tra chi si sente escluso da un mondo «normale» a cui gli era stato promesso di accedere e chi ancora pensa di appartenervi e vive nel timore di venirne emarginato - ed è spinto a vedere in chi già lo è per una «tabe originaria» a causa di questa minaccia. Questa contrapposizione,  rinfocolata per ragioni elettorali dagli imprenditori della paura, comincia a far proliferare imprese terroristiche  i massacri della redazione di Charlie Hebdo e nel supermercato kasher di Parigi, che estendono al cuore dell`Europa i fronti delle guerre in corso ai suoì confini. E, certo, non ad opera della massa anonima dei nuovi arrivati, per lo più con mezzi  di fortuna, che si vorrebbe fermare «chiudendo le frontiere»; ma per mano di un numero crescente, ancorché ridotto, di giovani che una radicalizzazione distorta sospinge verso il fondamentalismo e una violenza senza ritorno.
I ragionieri del debito
In questo contesto i ragionieri del debito e della spesa pubblica alle dipendenze degli interessi che hanno preso il comando  dell`Unione Europea mostrano tutta la miseria, la cecità e l`impotenza di una politica senza sbocco. Nei teatri di guerra i  governi dell`Unione non hanno una politica per venirne a capo. Ma nei paesi membri - compresi quelli cosiddetti «forti», come la Germania - dove le differenze sociali si fanno insostenibili, l`austerity sta creando una conflittualità a sfondo razziale che ha uno sbocco obbligato sia nell`azzeramento di tutte le aspettative riposte fin dai tempi del Manifesto di Ventotene nella costruzione dell`edificio europeo; sia in un catastrofico dissolvimento delle sue istituzioni, a partire dall`euro.
La società europea - e non solo - non può più essere ridotta alla divisione e al conflitto tra capitale e lavoro, i cui confini sono sempre più labili e le cui forme sempre meno definite; e nemmeno alla tripartizione tra élite, classe media e gruppi marginali, dato che la classe media è stata assottigliata e devastata dalla crisi. Ormai troviamo anche qui, in successione, «l'1 per cento» di padroni del mondo; una «casta politica» di destra e sinistra asservita ai loro interessi; un
«mondo del lavoro» - di chi il lavoro ce l`ha - sempre più precario, disgregato e insicuro; e un arcipelago di emarginati - il ritorno alle «classi pericolose» dell`800 - a un estremo del quale c`è il popolo dei reclusi nei campi per profughi, immigrati e clandestini, e il cimitero dei naufraghi del Mediterraneo.
Ma per fortuna non c`è solo questo. Se si creassero in Europa delle enclaves di tolleranza e accoglienza, i legami che permangono tra profughi, migranti e le loro comunità di origine potrebbero essere una base per una alternativa di governo  anche nei paesi da dove sono fuggiti. La dimensione euromediterranea è già una realtà.
Il ciclo di lotte di questa fase è nato in Tunisia, sulla sponda sud del Mediterraneo, con le primavere arabe, presto «normalizzate», o schiacciate nel sangue, o entrambe le cose, non senza interventi militari devastanti e insensati, che hanno lasciato non solo macerie, ma anche giganteschi grumi di odio, milizie armate assetate di denaro e potere, instabilità permanenti. Perché quelle primavere, nate da un rifiuto del modello economico e sociale esportato dall`Occidente - con il venir meno, ben prima dell`89, di un`emancipazione perseguita adottando, formalmente, percorsi «socialisti» - non hanno  trovato nei paesi della sponda nord del Mediterraneo un modello alternativo a cui rifarsi.
Da Syriza a Kobane
Nondimeno, l`effetto è rimbalzato prima in Spagna con il movimento M15; poi. in tutto il continente nordamericano, con Occupy Wall Street e Occupy the World, e poi di nuovo in Europa, con Syriza e soprattutto Podemos, che ne hanno raccolto e consolidato gli spunti più creativi.
Ma se anche noi possiamo vantare un`esperienza esemplare come la lotta ventennale della Val di Susa - una delle punte più avanzate della resistenza contro lo scempio sociale, ambientale ed economico dell`evoluzione del modello occidentale, che ha dato respiro a tutti quei NO-qualcosa che costellano il panorama delle lotte sociali in Europa - è ancora sull`altra sponda  del Mediterraneo, proprio nel cuore della guerra guerreggiata, nelle comuni autogestite del Rojava e nella difesa di Kobane, che si trova l`esempio più avanzato di autorganizzazione, di condivisione, di resistenza e, soprattutto, di rovesciamento  radicale di quella sottomissione totale della donna all`uomo che costituisce la bandiera di tutti gli integralismi: di quello feroce e sanguinano del fondamentalismo islamico come di quello tradizionalista (o sconciamente sessista: pari sono) in  cui si è rifugiata «la difesa dei valori occidentali».
Un esempio, quello del Rojava, che porta finalmente alla ribalta della lotta sociale - e purtroppo anche della guerra - un  rovesciamento dei rapporti tra uomini e donne che può minare alle radici tanto la ferocia dei regimi islamici integralisti  quanto la cultura patriarcale che ancora domina, in Oriente e in Occidente. È il rovesciamento a cui ci invita da alcuni decenni la rivoluzione femminista per insegnarci ad affidare la lotta politica e sociale, e il nostro modo di organizzare conflitto e partecipazione, a una critica radicale dei mille risvolti in cui si incarna la cultura patriarcale.



Algeria, il crocevia dei migranti è controllato dai jihadisti
Avvenire, 30-01-2015
Sara Lucaroni
Gran parte dei sub-sahariani che sbarcano in Europa prosegue il proprio viaggio verso la Germania e i Paesi scandinavi. Ma non i migranti ghanesi, gambiani e soprattutto maliani, quasi 10mila dei quali arrivati in Italia nel 2014.
Loro chiedono protezione perché fuggono dalla guerra civile in un Paese spaccato: islamisti e ribelli tuareg contro il governo di Bamako. Sono i principali fruitori della rotta africana settentrionale che porta alla Libia attraverso l’Algeria. Arrivano da Gao diretti a Tamanrasset, terminal algerino di bande criminali attive nel Sahel. Terroristi e trafficanti di uomini che nell’area, nonostante l’intervento francese e la missione Onu, hanno continuato a contrabbandare armi, droga e merci, stretto accordi con milizie oltre confine e taglieggiato i passeurs.
A Gao i camion vanno a nord con i migranti e tornano con le merci. Chi raggiunge l’Algeria e le coste paga a tappe. Migliaia di dollari per ogni tappa. Le vie per l’Algeria, attraverso il deserto contano su basi segrete e vie non segnate dalle mappe, regno dei Tuareg e dei gruppi centro-africani legati ad Al Qaeda.
Forte è l’influenza del capo del gruppo salafita Mokhtar Belmokhtar, algerino, alleato proprio con il Mujao, Movimento per l’Unità e la Jihad in Africa occidentale.
E l’Algeria è diventata così il grande crocevia per chi raggiunge la Libia che per chi decide di entrare in Europa attraverso le enclavi spagnole in Marocco. Non solo partendo dal Mali, ma anche da Niger, Gambia, Senegal, Ghana, Costa d’Avorio, Nigeria e Siria, attraverso uno scalo aereo dall’Egitto. Il 70% sono siriani e maliani.
«Nell’ultimo anno sono aumentati i migranti vulnerabili, donne vittime di violenza, madri sole con figli, minori non accompagnati – spiega Gino Barsella, delegato del Cir per l’Algeria – e i siriani, il cui aumento è stato influenzato dalle politiche del Marocco, dove subiscono lo stesso trattamento destinato ai sub-sahariani. La società algerina si è trovata per la prima volta ad affrontare il problema dei centri di accoglienza e i programmi di ritorno volontario, ha creato campi di accoglienza dei quali non sappiamo nulla».
L’Algeria è in trasformazione. I 'clandestini' non hanno diritti, spesso finiscono in strada, di loro si occupa la Mezzaluna Rossa algerina, braccio umanitario dello Stato, che con la crisi del Mali aveva sospeso i rimpatri e con la guerra in Siria ha accolto i rifugiati con misure speciali. Poi è arrivato l’incremento dei flussi dal Niger: i nigerini erano lavoratori stagionali nelle aree del sud algerino, oggi si spingono a nord. Molti hanno trovato rifugio in tendopoli alla periferia di Algeri e Orano, vivono di elemosina, sono arrivati da Zinder, Arlit e Agadez pagando 1.100 euro ai trafficanti. A Tamanrasset, Ouargla e Ghardaia nei cantieri edili cercano lavoro. Circa 3.000 sono stati rimpatriati in dicembre perché irregolari.
Recenti arresti a Tamanrasset hanno portato alla luce il commercio di armi libiche e di migranti nel nord del Mali. Da qui molti raggiungono il Marocco passando per Maghnia, Adrar e Oran. Oppure percorrendo la Mauritania, dalla via che da Dakar raggiunge Rabat e Casablanca. L’Algeria è una frontiera e una barriera per chi si dirige verso il Marocco con passaporti falsi o nascondendosi nei mezzi in transito. Migliaia i siriani, partiti da Haman, che attraverso l’Algeria raggiungono Melilla. Tariffa 7.000 dollari per una famiglia con due figli.
Arrivano invece da Camerun, Guinea, Mali e Costa d’Avorio i 400 migranti attualmente accampati nel bosco di Gurugú, in territorio marocchino, in attesa di oltrepassare le barriere costate alla Spagna in 20 anni 200 milioni di euro. Se la polizia del Marocco compie abusi ed espulsioni forzate verso l’Algeria, la Guardia Civil spagnola è accusata di consegnare i migranti catturati tra le barriere agli agenti marocchini. La Ong Prodein documenta da tempo le violente pratiche di respingimento. Il 95% di chi cerca di passare non ce la fa, sostiene, e circa 16.000 le persone che ci hanno provato più volte nel 2014. Di questi, il 30% sono minorenni.



Apologia di terrorismo a 8 anni: Ahmed scuote la Francia
Secondo i legali il bambino sarebbe «indagato». La scuola: «Abbiamo solo segnalato frasi anomale»
Corriere della sera, 30-01-2015
Stefano Montefiori
Parigi L’unica cosa accertata è che Ahmed, 8 anni, alunno di seconda elementare in una scuola di Nizza, all’indomani della strage a Charlie Hebdo si è rifiutato di osservare il minuto di silenzio e ha detto in classe «sono dalla parte dei terroristi». Mercoledì è stato convocato in commissariato e interrogato assieme al padre.
Per il resto, dell’accaduto esistono due versioni molto diverse: sadismo degli insegnanti e prova dell’ossessione antimusulmana di cui è preda la Francia dopo le stragi del 7-9 gennaio, secondo l’avvocato della famiglia e il Ccif (comitato contro l’islamofobia); oppure, giusta reazione di maestro e direttore della scuola, preoccupati che il bambino possa avere ripetuto frasi ascoltate in famiglia o altrove. Dopo ore di polemiche durissime ieri pomeriggio il governo, tramite il ministro dell’Educazione nazionale Najat Vallaud-Belkacem, ha preso posizione a favore della scuola: «Lo dico con forza, non solo l’équipe scolastica si è comportata bene, ma il suo lavoro di controllo, pedagogico e sociale è utile e merita il nostro ringraziamento».
Le due versioni restano interessanti e ugualmente drammatiche e dicono molto sulla tensione di queste settimane. L’avvocato della famiglia, Sefen Guez Guez, noto a Nizza per le sue battaglie legali contro il sindaco di destra Christian Estrosi, mercoledì ha reso pubblica la vicenda twittando dal commissariato con lo pseudonimo S. Ibn Salah.
Secondo la ricostruzione sua e del Ccif, il bambino sarebbe indagato con il padre per «apologia di terrorismo»; il giorno dopo l’attentato il maestro lo avrebbe portato dal direttore, nella classe accanto, e questi gli avrebbe ordinato per tre volte davanti a tutti di dire «Je suis Charlie» (la frase di solidarietà con le vittime, ndr ), minacciandolo anche di non dargli la solita dose di insulina (Ahmed è diabetico). Poi, mentre Ahmed giocava con la sabbia nel cortile della ricreazione, il direttore gli avrebbe detto «smettila di scavare, tanto non troverai il mitra che ti servirebbe per ucciderci tutti». L’avvocato ha anche denunciato il direttore della scuola perché avrebbe sbattuto la testa del bambino e lo avrebbe schiaffeggiato. Il padre invece è stato denunciato dal direttore per «intrusione nell’istituto scolastico», solo perché sarebbe entrato per incitare Ahmed, sotto choc, a non restare chiuso in bagno e ad andare a giocare con i compagni.
Secondo la ricostruzione della scuola e, in parte, delle autorità, Ahmed avrebbe detto invece con grande chiarezza «bisogna ammazzare tutti i francesi, io sono nel campo dei terroristi, i musulmani hanno fatto bene, i giornalisti meritavano di morire»; il bambino si sarebbe rifiutato di partecipare anche alla marcia di commemorazione delle vittime, non sarebbe indagato per apologia di terrorismo ma solo il padre sarebbe stato denunciato, e non perché entrò a scuola preoccupato ma perché minacciò a più riprese gli insegnanti; nel cortile non c’è sabbia, e quindi la frase sul mitra sarebbe impossibile. Smentita anche la minaccia dell’insulina. Fabienne Lewandowski, vicedirettrice della sicurezza pubblica del dipartimento Alpi Marittime, ha detto a Francetv Info che «le frasi del bambino erano molto strutturate e ben costruite. Perché è arrivato a dire parole simili? Chi lo ha influenzato? Un bambino di quell’età che pronuncia frasi del genere deve essere segnalato».



Se la Francia ha paura di un bambino
La Stampa, 30-01-2015
Domenico Quirico
Ahmed è francese e musulmano. Ripetiamolo per non dimenticarlo: francese e musulmano. Ahmed ha otto anni. Lo hanno portato in commissariato gendarmi di quella République che ha inventato l’eguaglianza, la Rivoluzione, i diritti umani, quasi tutto. Se non fossero veri, potrebbero grottescamente esser sbucati dal racconto di Pinocchio: fermato, il bambino, «ope legis» perché nella sua scuola aveva rifiutato di unirsi alla universale deprecazione dell’orrendo attentato contro il settimanale satirico «Charlie Hebdo».
Richiesta evidentemente estesa anche ai minori. Il sospetto per le quinte colonne, gli infiltrati, le cellule dormienti, si propaga oltre gli orli del fatto, così come una macchia di inchiostro si espande sulla carta assorbente, acida e nera. Ahmed dunque è il luccichio minorile di quell’ altra Francia, adulta, che non ha sfilato nei boulevard e che resta pericolosamente ostile e rabbiosa. Il terribile silenzio di quelli che non dicono niente, il silenzio di coloro che sanno di essere perduti.
Hanno denunciato, per proprietà transitiva, il padre: per apologia di terrorismo. La legge (purtroppo! devono aver pensato i tutori dell’ordine repubblicano) non consentiva di proseguire nella punizione del mini terrorista. Che cosa diventerà quel bambino, ora che la realtà l’ha così brutalmente gettato al di la dello specchio, ora che gli tocca riconoscere la insensatezza speculare del mondo? Gli sarà ancora possibile guardare con meraviglia che è la vera magia dell’infanzia? La prima partita della vita l’ha perduta. O forse davvero il passaggio dalla innocenza alla saggezza avviene nel momento in cui ci accorgiamo che non tutti ci vogliono bene… Si impone qualche considerazione sul senso di colpa. Nell’Ottocento la Francia è stata protagonista della scienza positivistica che tendeva a dissolvere l’idea di colpa. L’uomo non era responsabile dei suoi delitti che venivano ricondotti alle tare fisiche, alla ereditarietà, alla educazione, all’ambiente. Tutto questo poteva chiudersi in una massima: anche il colpevole è innocente. Oggi viviamo in un sentimento opposto, si tende ad imputare a ognuno le colpe che non ha commesso: della sua razza, del suo popolo, della sua classe, dei suoi padri, della sua religione. Il principio è: anche l’innocente è colpevole. Un soffio di colpevolezza, di rimorso senza perché, esce da tutto il mondo totalitario che abbiamo attraversato e ahimè! stiamo attraversando.
Questa colpa totalitaria è il fondamento tragico delle epurazioni moralistiche. Il boia è sempre puro, l’assassinato sempre colpevole.
I gendarmi che hanno così puntigliosamente condotto al commissariato il precoce «terrorista» (e il maestro che ha li ha convocati) ignorano di avere dei precursori. Non sanno che la rivoluzione siriana, poi diventata guerra civile e ghiotta occasione di incubazione proprio del fanatismo islamista, ha avuto come miccia proprio l’arresto di alcuni ragazzini da parte dei «mukhabarat», i servizi di sicurezza del regime di Bashar Assad. Colpevoli di aver scritto su un muro «Bashar vattene!», slogan orecchiato durante una manifestazione contro il regime. «Terroristi potenziali»: sentenziarono immediatamente i gendarmi siriani, meglio prevenire: e li portarono al commissariato.
La domanda è: cosa ci distingue da loro, dai lanzichenecchi del califfo, dagli assassini del fanatismo, dalle guardie pretoriane del totalitarismo islamico e loscamente laicista? Non le parole scritte sulle costituzioni o nei discorsi dei politicanti, sono stinte, vuote, non basterebbero. Ci distinguono un sostantivo e un verbo: la capacità di distinguere. Tra il terrorista e un bambino per esempio, tra la vittima e gli assassini. E l’applicare il diritto che è misura e ragione e non la sharia della colpa collettiva.



"Negro", "zingaro", "terrone"... così i razzisti italiani odiano su twitter
Dall'analisi dei cinguetti le mappe dell'intolleranza nel nostro Paese. Contro immigrati e meridionali, ma anche contro donne, disabili, ebrei e omosessuali
stranieriinitalia.it, 29-01-2015
Roma – 29 gennaio 2015 - “Spastico”, “frocio”, “zoccola”, “negro”, “rabbino”... L'intolleranza è fatta anche di insulti, vomitati contro le minoranze o contro l'altra metà del cielo. Quelli che affollano Twitter permettono di  disegnare le mappe dell'odio nel nostro Paese.
Ispirandosi ad esperimenti simili già fatti in altri Paesi, l'associazione no profit Vox – Osservatorio italiano sui diritti ha monitorato il social per otto mesi, studiando quasi due milioni di cinguettii insieme alle università di Milano, Roma e Bari.
Il progetto ha preso in considerazione razzismo, omofobia,  odio contro le donne, contro i diversamente abili e antisemitismo, evidenziando con un software i termini che più tradiscono questi sentimenti. Quindi ha individuato le zone dove, caso per caso, ricorrono più frequentemente.
Considerati i 5 gruppi, scrivono i ricercatori, l'intolleranza è polarizzata soprattutto al Nord e al Sud, poco riscontro invece nelle zone del centro come Toscana, Umbria, Emilia- Romagna. Una situazione, che si capovolge per quanto riguarda l’antisemitismo, fenomeno in evidenza soprattutto nel Lazio e nel centro Italia.
Il secondo dato assai preoccupante riguarda la misoginia, sulla quale si concentra la maggiore proliferazione di tweet intolleranti. Il numero di tweet contro le donne, infatti, in 8 mesi è arrivato a 1.102.494, con 28.886 tweet geolocalizzati.
Per quanto riguarda il razzismo, individuato in oltre 150 mila tweet, a farla da padrone sono termini come “terrone”, “zingaro” e “negro”, seguiti da “muso giallo” e “mangiabanane”. I cinguettii razzisti si addensano in Lombardia, in Friuli e Basilicata, mentre Sicilia e Calabria, terre di frontiera per gli sbarchi, non registrano picchi significativi.
“Abbiamo rilevato le parole sensibili più twittate -scrivono i ricercatori -  e le abbiamo contestualizzate, scoprendo interessanti co-occorrenze: gli accostamenti, cioè, più ricorrenti con alcuni termini. Per quel che riguarda il razzismo, interessanti le co-occorrenze con personaggi nel mirino della rete, come Balotelli e Thohir”.

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