Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

20 giugno 2014

Oggi il documentario alle 21
La vita in Transito dei rifugiati vittime del regolamento di Dublino
l'Unità, 21-06-14
Flore Murad-Yovanovitch
Che cos’è un limbo? Che cos’è vivere in un limbo giuridico? Tra pareti di Stati che ti respingono, ti deportano e ti fanno rimbalzare come un pacco tra loro. Essere un Dubliner: costretto a risiedere nel primo paese dove ti sono state prelevate le impronte digitali, al tuo ingresso in Europa  o se si migra a avanti e sceglie un altro stato, viverci, con il rischio di venir deportato indietro. Sono le vite spezzate di ragazzi richiedenti asilo imprigionati tra stati nel cuore del nuovo film di Paolo Martino, Terra di Transito, prodotto da A Buon Diritto con l’Istituto Luce-Cinecittà e proiettato ore 21 a Roma, nella sede del MAXXI, Museo nazionale delle arti del XXI secolo. In particolare la storia di Rahell, profugo curdo, bloccato in Italia dalle impronte nonostante abbia tutta la famiglia in Svezia. La fuga, Rahell, la conosce da bambino, quando nel 1988 fu costretto a trovare riparo a Damasco assieme alla famiglia, a seguito dell’attacco chimico orchestrato da Saddam Hussein sulla città di Halabja. Poi da giovane, costretto nuovamente a lasciare la Siria e a tentare il viaggio attraverso la Turchia, mesi di sopravvivenza sulle colline di Atene a frugare tra i rifiuti per nutrirsi, come altri decine di profughi chiusi nella prigione a cielo aperto della Grecia. Non poter tornare indietro, essere costretti ad andare avanti, a rischio della propria vita Sotto i tir Bari, i binari della stazione Ostiense, la tenda di Tor Marancia a Roma. Costretti alla mendicità, all’assistenza.



L’Italia cambi il sistema d’asilo E nel 2014 può farlo
l'Unità, 20-06-14
Italia-razzismo

La settimana scorsa la Camera dei Deputati ha bocciato per mancanza di copertura economica alcuni importanti articoli della Legge di Delegazione Europea 2013-bis, contenenti misure significative a sostegno dell’accoglienza e dell’integrazione dei rifugiati. Se fossero passati, il Governo sarebbe stato delegato dall’Unione Europea a modificare (e possibilmente migliorare) il sistema d’accoglienza per i rifugiati e le procedure per il riconoscimento della protezione internazionale.
Attualmente le persone che sbarcano in Italia sono per lo più gestite con provvedimenti di carattere emergenziale, nonostante il fenomeno degli arrivi via mare sia strutturato. Le politiche di accoglienza si rivelano spesso inefficaci rispetto alle esigenze e sicuramente non sono «lungimiranti». Ciò ha fatto sì che la maggior parte dei fondi economici destinati a questo tema viene per lo più spesa per soluzioni che oltre a garantire vitto e alloggio non offrono altri servizi. Sarebbe necessario - come è stato in questo contesto più volte ribadito - aumentare i fondi per altre forme di accoglienza che, in Italia, consistono nello Sprar (Sistema di Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati) e nel Cara (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo). Un passo del genere è stato di recente compiuto dal governo, ma non è sufficiente a rispondere alle richieste.
Le riforme sono estremamente urgenti e ora spetta al Senato modificare il testo di legge già discusso alla Camera, tenendo presente le norme scartate in quel contesto. Il 2014 è l’anno in cui l’Italia ha l’occasione di cambiare definitivamente il sistema dell’asilo, un’opportunità che non va persa in alcun modo.
Oggi è la Giornata Mondiale del Rifugiato e per quest’occasione sono state organizzate in tutta Italia numerose iniziative. In alcune di queste verranno raccontate le storie di chi fugge dal Paese di origine e cerca di realizzare il proprio progetto migratorio.



La «nazione» dei profughi. Oggi sono più di 50 milioni
Mai così tanti dalla fine della II Guerra mondiale
Corriere della sera, 20-06-14
Alessandra Coppola
Un Paese in più al mondo, popoloso quanto la Colombia o il Sudafrica, poco meno dell’Italia: 51,2 milioni di persone. Per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale, i «migranti forzati» hanno superato la soglia dei cinquanta milioni.
È il primo dato che emerge dal nuovo Rapporto dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), diffuso oggi e anticipato al Corriere . Si riferisce a donne, uomini e bambini costretti a lasciare le proprie case e a mettersi in viaggio, in conseguenza di guerre, persecuzioni, violazioni dei diritti umani. Tiene insieme il conteggio degli «sfollati» — rimasti all’interno dei confini nazionali — 33,3 milioni di persone; quello dei «rifugiati» — che hanno attraversato almeno una frontiera — 16,7 milioni, la metà minorenni; più 1,2 milioni di «richiedenti asilo», che nel 2013 hanno fatto domanda di protezione internazionale.
A spingere i numeri verso l’alto è il conflitto siriano, che ha superato il terzo anno e non promette soluzioni. È da qui che arrivano i flussi che fanno tracimare il Rapporto: 2,47 milioni di rifugiati a fine 2013; 6,5 milioni di sfollati interni. Con conseguenze che si irradiano in tutta l’area euromediterranea. «La crisi si protrae — spiega Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr per il Sud Europa — ed è talmente devastante, con la distruzione di villaggi, di intere città, delle infrastrutture, di tutto il sistema sanitario, da non lasciare ai profughi speranze di rientro». I dati del 2013 dicono anche questo: più guerre, più lunghe, più bassa la quota di chi riesce a tornare a casa (solo 416 mila in tutto il pianeta).
Certamente non i siriani, che si sono al principio allontanati in un raggio breve, Libano, Giordania e Turchia, appena al di là della frontiera, e che adesso, osserva Sami, spesso coi bambini al seguito, partono verso progetti di vita altrove, la maggior parte in Europa, qualcuno negli Stati Uniti. Perché le prospettive di rimpatriare (trovando le condizioni per ricominciare) sono scarse.
Corollario della crisi siriana, la trasformazione — nell’arco di un anno soltanto — del piccolo Libano nel terzo Paese al mondo per rifugiati (856 mila), il primo in assoluto (e con ampio distacco) nella proporzione tra abitanti e profughi: 178 ogni mille. Uno sbilanciamento destinato ad avere conseguenze in un incastro già fragile di minoranze. Qui, come nell’intera regione. Carichi così alti pesano inevitabilmente negli altri Stati confinanti, soprattutto in Giordania (641 mila).
In cima alla lista degli approdi, però, restano Pakistan (1,6 milioni di profughi) e Iran (857 mila), effetto ancora della crisi afghana: benché i riflettori si siano spostati altrove, le violenze in queste valli continuano a obbligare migliaia di persone a mettersi in viaggio. Sono ancora gli afghani i più numerosi tra i rifugiati (2,56 milioni), assieme ai siriani, certo, e ai somali (1,12 milioni): tre nazionalità che assieme rappresentano il 53 per cento di tutti i popoli in fuga.
Crisi lunghe, speranza di rinascita in Europa: è una delle ragioni che spiegano l’aumento degli sbarchi sulle nostre coste. In Italia, indica il Viminale, al 13 giugno sono 53.763. Unhcr fornisce al Corriere la cifra delle richieste d’asilo nello stesso arco di tempo, che dà la misura di chi intende restare: 23 mila. Oltre il doppio delle domande presentate nei primi sei mesi del 2013 (10.900), non lontano dalla cifra complessiva dell’anno scorso (27.000). Molto al di sotto, però, delle quote tedesche (42 mila solo da gennaio ad aprile), che lasciano pensare a un nuovo «record». La Germania, già nel 2013, è in cima alla lista mondiale per richieste d’asilo, con un numero che equivale a una città delle dimensioni di Vicenza: 109.580.



Rapporto Onu
Cinquanta milioni di profughi
l'Espresso, 20-06-14
Ha superato per la prima volta la quota di 50 milioni di persone. Non era mai accaduto, dalla fine della seconda mondiale. Mai il numero di rifugiati, richiedenti asilo e sfollati interni in tutto il mondo era andato oltre quel numero. A sostenerlo è l`ultimo rapporto dell`Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, il Global Trends Unhcr 2013, che si basa su dati raccolti da governi, organizzazioni non governative partner dell`Agenzia e dai registri dello stesso Unhcr. Alla fine del 2013 si contavano infatti 51,2 milioni di migranti forzati, ben sei milioni in più rispetto ai 45,2 milioni del 2012. E un dato drammatico, tanto più se letto in questi giorni, in cui centinaia di migliaia di persone sono in marcia attraverso l`Iraq per sfuggire all`offensiva dei jihadisti dell`Isis, e in cui la situazione rimane difficile in Ucraina per più di 17mila "displaced people" (che, pur rimanendo nel proprio
Paese, sono costrette ad abbandonare la casa per via della guerra) o anche in Repubblica Centroafricana, dalla quale 90mila persone sono fuggite solo nel vicino Ciad.
Il rapporto viene presentato oggi, 20 giugno, Giornata mondiale del Rifugiato. Per quest`occasione l`Unhcr ha organizzato
una mostra fotografica itinerante, "The European Dream - Road To Bruxelles". Si tratta di un tir che è partito da Bari e che arriverà nella capitale europea dopo aver toccato tra le altre città Roma, Milano, Ginevra e Strasburgo, per poi tornare in Italia al festival "Cortona on the move" . Al suo interno gli scatti di Alessandro Penso, vincitore del World Press Photo 2014, che raccontano la vita di rifugiati e richiedenti asilo che sono bloccati in Grecia per via di politiche restrittive in materia di asilo e che coltivano il sogno di essere accolti e poter vivere in condizioni migliori. Un progetto di cui fa parte la fotografia che pubblichiamo in questa pagina, e che intende raccontare «il sogno di un`Europa che ascolta, che aiuta, che accoglie».



La "fabbrica dei rifugiati" lavora a ciclo continuo in "sintonia" con le guerre e le dittature
Dal 1° gennaio al 17 giugno sono arrivati in Italia via mare oltre 58mila migranti, di cui più di 9.000 minori. L'UNHCR per la Giornata mondiale avanza 10 proposte di riforma: un piano sull'asilo per cui governo, enti territoriali, società civile e rifugiati pianifichino le attività; e poi andare oltre il sistema dei grandi centri (CARA) e valorizzare la rete dei piccoli progetti nell'ambito dei sistemi europei e internazionali
la Repubblica, 20-06-14
VLADIMIRO POLCHI
ROMA - Fuggono con mamma e papà, viaggiano per mesi, hanno in media cinque anni. Sono i bambini siriani, che sbarcano in questi giorni sulle coste italiane. Chissà se anche loro sanno che il 20 giugno si celebra la Giornata mondiale del rifugiato, istituita nel 2000 per ricordare i milioni di persone costrette ad abbandonare le proprie case? Sì, perché la "fabbrica dei rifugiati" lavora a ciclo continuo: più sono le guerre che scoppiano e le dittature che nascono, più lei produce.
I numeri di Save the Children. Stando al rapporto di Save the Children, "dal primo gennaio al 17 giugno sono arrivati in Italia via mare oltre 58mila migranti, di cui più di 9.000 minori. Quasi tutti i minori accompagnati sono bambini siriani, con un'età media di 5 anni ma anche molto più piccoli, in fuga dal conflitto iniziato 3 anni fa insieme alle loro famiglie o a una parte di esse". Negli sbarchi di quest'anno, infatti, si registra una maggioranza di persone proveniente da Paesi in conflitto, sotto dittatura o con situazioni di grave emergenza. Potenziali profughi, insomma, più che migranti economici
Le proposte dell'Unhcr. L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati in occasione della Giornata mondiale ha elaborato 10 proposte di riforma. Tra queste: "L'Unhcr propone un Piano annuale sull'Asilo dove Governo, Enti Territoriali, società civile e rifugiati pianifichino le attività con l'obiettivo condiviso di garantire standard europei e internazionali". Non solo. Bisogna "andare oltre il sistema dei grandi centri (CARA) e valorizzare la rete dei piccoli progetti nell'ambito del Sistema di Protezione dei Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR). L'esperienza dei CARA ha dimostrato infatti che le maggiori dimensioni dei centri portano a minor qualità in termini di standard di accoglienza". E ancora l'Unhcr esprime "il proprio apprezzamento per l'intenzione del Governo di adottare un Testo Unico sull'Asilo che, quando in vigore, doterà per la prima volta l'Italia di una legislazione organica che ponga norme chiare in tema di soccorso, accoglienza e integrazione dei richiedenti asilo e rifugiati".
L'appello dell'Arci. L'Arci ricorda invece che "meno del 50% delle persone arrivate in Italia in cerca di protezione è stato foto segnalato: siamo diventati un Paese di transito ma questo non è affatto un vanto. L'incertezza del diritto, che caratterizza il nostro sistema asilo, fa sì che nessuno voglia imbattersi nella lungaggini delle nostre procedure, nel rischio di rimanere in un CARA per un anno o in un hotel o trattenuto in un CIE o, ma bisogna esser fortunati, in un centro SPRAR. In occasione di questo 20 giugno facciamo appello alle forze politiche, al governo tutto e ai parlamentari, affinché venga immediatamente potenziata la rete di disponibilità degli enti locali e delle organizzazioni sociali, all'interno dello SPRAR, assumendo le responsabilità che competono a un grande Paese, crocevia del Mediterraneo e dei flussi che lo attraversano. Chiediamo inoltre che l'Europa apra canali d'ingresso umanitari, evitando così che le persone in cerca di protezione siano obbligate a imbarcarsi dal Nord Africa rischiando la propria vita e pagando un prezzo troppo caro per sé e i propri cari".
 


Storia di Nadia, scappata da Homs «Volevo essere felice nella mia Siria»
A 15 anni è stata costretta a lasciare la Siria a causa della guerra. «Mi mancherà sempre Homs. Avevo una vita semplice e bella, avevo tanti sogni che avrei voluto realizzare in Siria».
Corriere.it, 20-06-14
Scappano da una delle peggiori emergenze umanitarie contemporanee – la guerra civile che sta dissanguando la Siria e di cui hanno visto e subito tutta la disumana violenza. Sono migliaia di bambini e adolescenti che, sempre più numerosi, arrivano sulle nostre coste: 1.542 su 2.124 fra quelli soccorsi e poi sbarcati insieme alle famiglie dall’inizio dell’anno nel nostro paese sono siriani. Il racconto di ciò che hanno vissuto è il rapporto di Save the Children (www.savethechildren.it) diffuso in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, che cade proprio il 20 giugno. L’organizzazione - che dal 1919 lotta per salvare la vita dei bambini e difendere i loro diritti – ha raccolto molte testimonianze di minori e giovani adulti in Sicilia, Calabria e Milano. Un grido di aiuto rivolto all’Italia e all’Europa i cui governi – chiede la ong – accolgano i profughi siriani nei loro territori e fermino le procedure di rinvio che violano il principio di non –refoulement.
Storia di Nadia
Sono persone e spessissimo bambini o adolescenti che hanno già sofferto abbastanza, come Nadia, 15 anni, originaria di Homs, la città siriana che in tre anni di guerra ha pagato un alto tributo in termini di vittime. «Abbiamo lasciato Homs due anni e mezzo e fa – racconta mentre giocherella nervosamente con le mani - siamo andati a Damasco dove siamo rimasti per due mesi, poi in Egitto, al Cairo, per altri due mesi, ma anche lì eravamo in pericolo, così siamo andati in Libia. Abbiamo viaggiato in cinque: mamma, papà, due fratellini di 4 e 10 anni». Il suo ultimo ricordo di Homs è casa, «la mia stanza, con tutti i miei poster, i vestiti, le bambole di quando ero piccola, prima che crollasse il tetto. Un razzo ha distrutto il nostro appartamento». Nadia ha finito la terza superiore in Libia, ma vorrebbe proseguire la scuola, fare l’università, studiare legge per diventare avvocato. Lo avrebbe potuto fare in Libia se solo non fosse stato impossibile. «Ogni volta che le persone scoprivano che eravamo siriani ci attaccavano verbalmente o con le armi, ci dicevano di tornare al nostro paese. In particolare, c’era un uomo, un vicino di casa, che mi voleva prendere in moglie, io non volevo, i miei genitori neanche ovviamente. Così ha iniziato a minacciare la mia famiglia, dicendo che avrebbe ucciso tutti, se non avessimo acconsentito. Ci sono tante ragazze siriane nelle mie condizioni. Non solo siriane, certo, ma noi siamo particolarmente colpite perché molte hanno la pelle e gli occhi chiari, una rarità disgustosamente apprezzata da tanti uomini. Ci sono altre ragazze che, come me, sono scappate via con la famiglia».
Il viaggio della speranza
Per il viaggio spiega Mervat, la madre di Nadia, una donna molto curata sulla quarantina, si sono messi d’accordo con altre famiglie per partire in gruppo, pagando 1.500 dollari a persona. «Il viaggio è stato un incubo – confessa la donna - al momento di partire ci hanno ammassato su un gommone, da lì siamo stati spostati su una barca che però non funzionava. La persona che ci ha portato sul barcone ci ha lasciato ed è andata via. Tre ragazzi siriani hanno provato a farla funzionare. Poi abbiamo iniziato a imbarcare acqua, eravamo 150 persone. Quando ho visto l’acqua che mi bagnava le le caviglie ho pensato che non sarebbe successo niente, poi però ho visto che saliva, i miei jeans si sono inzuppati, vedendo che i libici se ne erano tornati indietro a riva ho pensato che ci avevano lasciato lì, a morire. Non ho avuto paura solo per i miei figli. La barca era piena di bambini che hanno iniziato a chiedere ai genitori: “Stiamo per morire?”. Abbiamo provato a tranquillizzarli dicendo che presto sarebbero arrivati gli italiani a salvarci. Finché non sono arrivati veramente. Noi avevamo provato a fare il possibile. Abbiamo cercato di ributtare fuori dal barcone l’acqua – prosegue la donna mostrando a gesti come facevano -. Ma ne entrava sempre di più».
L’arrivo in Sicilia
Mervat interrompe la narrazione, non ha più fiato per proseguire, ricordando l’angoscia di quel viaggio si commuove. Il figlio più piccolo Anas di 4 anni sembra essersi gettato tutto alle spalle, mangia un banana seduto del letto con abitini asciutti e puliti, più tardi andrà a giocare nello spazio dedicato ai giochi del centro d’accoglienza. Nadia lo prende in braccio in continuazione con movenze materne. Lui sembra adorarla mentre il fratellino di 10 anni, Humam, gli fa i dispetti. «Anche loro hanno chiesto a mamma se stavamo tutti per morire – spiega Nadia riempiendo il silenzio della madre -. Poi sono arrivati i soccorsi italiani, fortunatamente. Arrivati in Sicilia, ci hanno portato in un centro d’accoglienza a Siracusa per riposare, ci hanno chiesto se volevamo dare le impronte per l’identificazione ma abbiamo preso tempo dicendo che eravamo stanchi e bagnati. Ci hanno lasciato riposare, poi ci hanno portato a Roma da Catania con un aereo. A Roma ci hanno portato in un altro centro di accoglienza, dal quale ci siamo allontanati senza aver dato le impronte. Così siamo arrivati a Milano, sapevamo che qui avremmo trovato un modo per arrivare in Danimarca dove vive mia zia. Appena arriverò io e mio fratello Humam ci iscriveremo a scuola». Nadia è la più grande dei suoi fratelli, l’unica che probabilmente non riuscirà mai a scrollarsi di dosso una nostalgia che le è rimasta dentro. «Mi mancherà sempre Homs. Avevo una vita semplice e bella. Andavo a scuola e avevo le mie compagne con cui mi confidavo, avevamo tanti sogni che avremmo voluto realizzare in Siria perché lì non ci mancava nulla per essere felici».



Sempre più bambini nei barconi della speranza
Il rapporto Save The Children: «Nel 2014 sono sbarcati oltre novemila minori  Più della metà viene dalla Siria e ha subito fame e molestie»
L'Unità, 20-06-14
Sono quasi tutti siriani, arrivano dopo viaggi che durano anni, con tappe forzate in Libia o in Egitto e spesso hanno subito molestie. Quasi tutti i minori sbarcati in Italia dal 1 gennaio al 31 maggio 2014 sono bambini in fuga. Hanno un’età media di 5 anni, a volte meno, e non tutti sono accompagnati. È quanto emerge da un rapporto di Save the Children. 1.542 bimbi su 2.124 arrivati nel 2014 provengono dalla Siria. Un viaggio terribile iniziato nella maggior parte dei casi 1 o 2 anni fa per sottrarsi a combattimenti che non risparmiano città e villaggi e che colpiscono la popolazione civile e soprattutto loro, i bambini, uccisi, torturati o armati, esposti ad amputazioni o malattie gravi per mancanza di cure, spesso senza cibo sufficiente e senza acqua. A loro è dedicato «L'Ultima Spiaggia. Dalla Siria all'Europa, in fuga dalla guerra», il rapporto presentato da Save the Children alla vigilia della Giornata mondiale del rifugiato per dare loro un nome e un'identità, dare voce alla loro ultima speranza di futuro rivolta all'Italia e all'Europa, e che racconta le loro storie.
Gli arrivi dei profughi siriani sono andati ad intensificare gli ingenti flussi già provenienti dagli altri Paesi: secondo i dati ufficiali e le stime di Save the Children, dal 1 gennaio al 17 giugno 2014 sono arrivati via mare in Italia più di 58.000 migranti, di cui più di 5.300 donne, più di 9.000 minori, di cui solo 3.160 accompagnati. La presenza di bambini e adolescenti sulle imbarcazioni soccorse da Mare Nostrum è oramai una costante. Basti pensare che il 24 maggio, a bordo di una sola imbarcazione soccorsa vi erano 488 migranti tra cui 171 minorenni. La maggior parte, ben 141, erano bambini e bambine siriane che viaggiavano con uno o entrambi i genitori. Nel 2013 l'arrivo dei profughi siriani si è intensificato fino a raggiungere solo tra agosto e ottobre 9.365 persone (805 donne e 1.405 minori), mentre quest'anno la Siria è il secondo principale Paese di provenienza dei migranti arrivati in Italia (6.620 su 41.243 tra il 1/1 e il 31/5), preceduta solo dall'Eritrea. La maggioranza di queste famiglie appartengo alla classe media. Sono professionisti, imprenditori, commercianti, agricoltori o allevatori e sono fuggiti dalla Siria 1 o 2 anni fa per intraprendere un lungo e costoso viaggio, spesso passando per il Libano e l'Egitto. Raccontano che in Libia hanno provato a vivere cercando una casa e un lavoro, ma sono stati esposti a persecuzioni, furti, minacce e violenze. Passano dall’Italia, ma la loro metà sono i Paesi del nord Europa, in particolare, Svezia, Norvegia, Germania e Svizzera.
Esemplare è la storia di Hassan che ha appena 28 anni ed è sbarcato con la moglie, un figlio di 2 anni e mezzo e una bimba di 16 a Lampedusa il 15 ottobre 2013. Appena trasferiti in Sicilia hanno dovuto lasciare le loro impronte digitali anche se non volevano: «Mi hanno detto che le impronte erano solo per l'anticrimine e sarei potuto comunque entrare dove volevo in Europa». Non era così, dopo aver raggiunto l'Austria e aver fatto la domanda di asilo è risultato che erano già registrati come richiedenti asilo in Italia, e sono stati rinviati a Roma. Quella della Siria è una delle più grandi crisi umanitarie del nostro tempo. «Sono 4,3 milioni i bambini intrappolati nel Paese e in grave bisogno di aiuto, ma siamo a 3 mesi dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu sulla facilitazione dell'accesso degli aiuti umanitari e non abbiamo visto cambiare di una virgola la situazione sul campo - ha denunciato Valerio Neri, direttore generale di Save the Children. L'Italia e l'Europa hanno la responsabilità imprescindibile di accogliere questi bambini. «Chiediamo ai Paesi europei di riconoscere la propria responsabilità e predisporre programmi di reinsediamento e altre forme di ammissione umanitaria».



Quasi tutti i minori sbarcati in Italia nel 2014 sono siriani: 5 anni l'età media
Le storie di migliaia di bambini e delle loro famiglie fuggite dalla guerra e in cerca di un futuro in Europa raccolte da Save the Children
la Repubblica, 20-06-14
ROMA - Quasi tutti i minori accompagnati, prima soccorsi e poi sbarcati in Italia dal 1° gennaio al 31 maggio 2014 - 1.542 su 2.124 - sono bambini siriani, con un'età media di 5 anni, ma anche molto piccoli, in fuga dal conflitto iniziato 3 anni fa assieme alle loro famiglie o ad una parte di esse, perché qualcuno non è potuto partire. Un viaggio terribile iniziato nella maggior parte dei casi 1 o 2 anni fa per sottrarsi a combattimenti che non risparmiano città e villaggi in tutta la Siria, che colpiscono la popolazione civile e soprattutto i bambini, uccisi, torturati o armati, esposti ad amputazioni o malattie gravi per mancanza di cure, spesso senza cibo sufficiente e senza acqua.
Voce alla loro ultima speranza. A loro è dedicato L'Ultima Spiaggia. Dalla Siria all'Europa, in fuga dalla guerra, il rapporto presentato da Save the Children, l'Organizzazione che dal 1919 lotta per salvare la vita dei bambini e difendere i loro diritti, in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato per dare loro un nome e un'identità, dare voce alla loro ultima speranza di futuro rivolta all'Italia e all'Europa, attraverso le  storie raccolte nei mesi scorsi nelle aree di sbarco in Sicilia e in Calabria, o nelle città raggiunte per proseguire il viaggio come Roma e Milano. Gli arrivi dei profughi siriani sono andati ad intensificare gli ingenti flussi già provenienti dagli altri paesi: secondo i dati ufficiali e le stime di Save the Children, dal 1 gennaio al 17 giugno 2014 sono arrivati via mare in Italia più di 58.000 migranti, di cui più di 5.300 donne, più di 9.000 minori, di cui più di 3.160 accompagnati.
La costante dei bambini in fuga. La presenza di bambini e adolescenti sulle imbarcazioni in emergenza soccorse da Mare Nostrum ha rappresentato nel 2014 una costante, fino a raggiungere in alcuni casi quasi la maggioranza dei migranti a bordo. Basti pensare che il 24 maggio scorso, a bordo di una sola imbarcazione soccorsa vi erano 488 migranti tra cui 171 minorenni. La maggior parte, ben 141, erano bambini e bambine siriane che viaggiavano con uno o entrambi i genitori.
Il flusso dei siriani in aumento. L'arrivo via mare in Italia dei profughi siriani è iniziato nel 2012, quando il flusso dei migranti in arrivo in Italia ha iniziato ad assumere il carattere di un esodo umanitario, con una maggioranza proveniente da paesi in conflitto, sotto dittatura o con situazioni di grave emergenza. Nel 2013 l'arrivo dei profughi siriani si è intensificato fino a raggiungere solo tra agosto e ottobre 9.365 persone (805 donne e 1.405 minori), mentre quest'anno la Siria è il secondo principale Paese di provenienza dei migranti arrivati in Italia (6.620 su 41.243 tra il 1/1 e il 31/5), preceduta solo dall'Eritrea, ma è il primo Paese di origine se si considerano soltanto i minori in nucleo familiare: ben 1.542 (su 2.124) bambine e bambini arrivati in Italia via mare sono siriani, figli e figlie, che uno o entrambi i genitori hanno tratto in salvo dalla guerra.
Il lungo e costoso viaggio. La maggioranza di queste famiglie appartengo alla classe media siriana, professionisti, imprenditori, commercianti, agricoltori o allevatori, e sono fuggite dalla Siria 1 o 2 anni fa per intraprendere un lungo e costoso viaggio, spesso passando per il Libano e l'Egitto, dove molte hanno vissuto per settimane o mesi nelle periferie del Cairo e di Alessandria in condizioni precarie, ulteriormente peggiorate a causa dell'instabilità politica del paese. In alcuni casi si sono imbarcate per l'Italia direttamente dall'Egitto, in altri sono entrate in Libia attraverso la frontiera.
Le storie raccolte da Save the Children
Secondo le storie raccolte da Save the Children, in Libia hanno provato a vivere cercando una casa e un lavoro, esposti a persecuzioni, furti, minacce e violenze, che coinvolgono anche i minori, e rendono progressivamente insostenibile la situazione. La maggiore concentrazione di siriani in Libia è nella città di Bengasi, dove, secondo le loro testimonianze, la situazione si è deteriorata negli ultimi mesi al punto che i siriani non si sentono più liberi neanche di camminare per le strade e i bambini non possono più frequentare le scuole.
Il racconto di Nadia. La testimonianza di una ragazzina di 15 anni, di Homs, mentre riposa in un centro di accoglienza a Milano prima di proseguire con i suoi fratellini e i genitori il loro viaggio verso la Danimarca."In Libia eravamo molestati, ci dicevano di andarcene... Abbiamo deciso di partire, anche morire in mare era meglio dell'inferno che vivevamo in Libia. Certo, sapevamo che avremmo rischiato la vita affrontando il viaggio in mare, ma erano successe troppe cose brutte. C'era una famiglia che voleva obbligarmi con la forza a sposare il loro figlio. Mentre ero a scuola quel ragazzo mi perseguitava e molestava in continuazione. Ha persino mandato lettere ai miei genitori minacciando di rapirmi. I miei genitori si sono spaventati perché eravamo in una piccola cittadina, e in quel posto tutti si conoscevano ed erano tutti armati. Potevano facilmente fare quello che dicevano. Avrebbero anche potuto uccidere i miei familiari se si fossero opposti al matrimonio. C'erano tante ragazze nella mia stessa situazione, e per questo volevano tutte scappare dalla Libia".
E quello di Hamed. Anche Hamid, 22 anni, vuole andare a nord, in Inghilterra, per potersi far raggiungere al più presto dai fratellini di 8, 10 e 14 anni, e da sua  sorella di 17 che vivono ancora in pericolo a Daraa : "Di notte ci sono i bombardamenti e la mattina i bambini vanno a vedere cosa è successo e chi è morto, dove sono cadute le bombe. Poi tornano a casa e lo raccontano ai genitori  '...papà è morto questo, quello...'  e chiedono: 'quando capiterà anche a noi?'. Non hanno altri giochi, solo pallottole e bombe esplose".
La vicenda di Hassan. Hassan, 28 anni, è sbarcato con la moglie, un figlio di 2 anni e mezzo e una bimba di 16 a Lampedusa il 15 ottobre 2013. Si erano imbarcati comunque, disperati, anche dopo aver saputo del terribile naufragio di pochi giorni prima dove erano morti molti siriani, tante donne e bambini. Appena trasferiti in Sicilia hanno dovuto lasciare le loro impronte digitali anche se non volevano: "Mi hanno detto che le impronte erano solo per l'anticrimine e sarei potuto comunque entrare dove volevo in Europa." Non era così, dopo aver raggiunto l'Austria e aver fatto la domanda di asilo è risultato che erano già registrati come richiedenti asilo in Italia, e sono stati rinviati a Roma, dove Save the Children li ha incontrati e assistiti . "Vorrei poter avere un tetto per me e per i miei bambini. Vorrei che loro potessero andare a scuola e vivere in un posto sicuro."
Ranya, sua sorella, suo fratello e la mamma. Ranya, 12 anni, di Damasco, invece vive da poco ad Amburgo con la sua mamma, una sorella di 18 anni e un fratello di 20: "Io e mia sorella frequentiamo dei corsi pomeridiani di tedesco, di mattina andiamo in una scuola normale e cerchiamo di capire il più possibile anche se è molto difficile". La mamma è stata intervistata da un giornale locale e ha ricevuto una visita di benvenuto dai vicini di casa. "Certo abbiamo solo un mobilio essenziale, i letti disposti in un'unica stanza. Ringraziando il cielo, però, le bambine stanno bene, giocano con i loro coetanei e finalmente si sentono al sicuro."    
Le mete preferite. I paesi europei del nord e centro Europa,  in particolare, Svezia, Norvegia, Germania e Svizzera, sono la meta finale di queste famiglie, che non vogliono restare in Italia, ma proseguire il loro viaggio per raggiungere  familiari o amici che hanno trovato condizioni di accoglienza e integrazione dignitose in quei paesi. Tendono ad abbandonare il prima possibile i centri di prima accoglienza in cui vengono trasferiti dopo lo sbarco sulle nostre coste, possibilmente senza farsi identificare dalle autorità italiane, per il timore, una volta raggiunto il paese europeo obiettivo finale del loro viaggio, di essere rimandati indietro in Italia, primo paese di ingresso nell'UE, come prevede il Regolamento Dublino.
Le richieste all'Unione Europea. Per far fronte nell'immediato all'enorme emergenza umanitaria legata alla crisi in Siria ed evitare che i profughi siriani, in particolare i bambini  e le loro famiglie, si espongano a ulteriori gravi rischi nel tentativo di raggiungere clandestinamente i paesi europei, Save the Children chiede in particolare a tutti gli Stati Membri dell'Unione Europea:
- di acconsentire all'ingresso dei profughi siriani nei loro territori, evitando procedure di rinvio in violazione del principio di non  - refoulement;
- di rispettare il loro impegno per la realizzazione di programmi di re-insediamento o altre forme di ammissione umanitaria per almeno 30.000 siriani (e Palestinesi dalla Siria) entro il 2014, con una priorità per i bambini siano essi accompagnati o non accompagnati;
- di facilitare le procedure di riunificazione familiare riguardanti i profughi siriani e persone già residenti sul territorio europeo;
I bambini che viaggiano da soli. Oltre ai minori siriani giunti prevalentemente con le loro famiglie, fino al 31 maggio 2014 sono giunti in Italia via mare anche 364 minori siriani non accompagnati, che hanno quindi affrontato da soli il loro viaggio. Come loro, per fuggire da conflitti, dittature, violenze, fame o povertà estrema, situazioni senza alcuna possibilità certa di futuro per se o per le proprie famiglie, sono giunti anche altri 4.234 minori non accompagnati. Hanno in maggioranza un'età compresa tra i 14 e i 17 anni (ma si è segnalato un numero significativo di casi con un'età inferiore 12-13 anni), sono in maggioranza maschi anche se si sono registrati di tanto in tanto piccoli gruppi di ragazze, spesso dello stesso paese d'origine, e sono principalmente originari dell'Eritrea (1.709), Somalia (679),  Egitto (516), e di paesi dell'Africa sub sahariana. Il dato continua tuttavia ad aumentare, infatti, secondo le stime di Save the Children aggiornate al 17 giugno 2014, sono quasi 6.000 i minori non accompagnati giunti in Italia dall'inizio dell'anno.
"Il viaggio di Bereket". Per sensibilizzare il pubblico sulla condizione dei minori migranti e sulla difficoltà dei loro viaggi, Save the Children lancia oggi anche un'iniziativa sui social media, attraverso "Il viaggio di Bereket", un "profilo" di un ragazzo eritreo di 15 anni in viaggio verso la Germania per costruirsi una vita e un futuro. Da solo, senza soldi e documenti, spostandosi con mezzi di fortuna, Bereket racconterà al mondo la sua storia e il suo viaggio day by day, con lo stesso strumento e modalità con cui ogni ragazzo "occidentale" descrive ogni momento della sua vita su Facebook. La storia raccontata nel progetto prende spunto dalle reali testimonianze di minori migranti eritrei raccolte dall'Organizzazione, con l'obiettivo di sensibilizzare il pubblico sui rischi enormi cui vanno incontro migliaia di minori soli non accompagnati che intraprendono viaggi che durano anche diversi anni, spinti dalla disperazione e dalla speranza di realizzare il proprio progetto di vita.



Rifugiati, ragazzi in fuga dalla violenza
Avvenire, 20-06-14
Paolo Lambruschi

La fuga di Khaled e Waleed, ragazzi soli in fuga dall’Eritrea, è iniziata 18 mesi fa. Sono cugini rispettivamente di 17 e 14 anni. Vengono da un villaggio di campagna, scappati per non venire reclutati dall’esercito dello stato-caserma che arruola i giovani per un servizio di leva infinito. Loro invece giocano bene a calcio e sulle loro facce indurite si illumina un sorriso infantile quando confessano il sogno di diventare calciatori e restituire alla famiglia i soldi.
Li ha portati in Sicilia l’8 giugno una nave dell’operazione Mare Nostrum. Hanno solo i vestiti che indossano da mesi. Dopo tre giorni a Catania sono partiti per Roma, dove si dorme pagando nelle case occupate di via Curtatone o alla Romanina. Poi i trafficanti li hanno mandati a Milano. Destinazione finale, nei loro piani, è la Norvegia. Stanno attraversando due continenti per chiedere asilo e un futuro. Come gli altri 6.000 minori non accompagnati su 58 mila persone sbarcate sulle coste italiane nel 2014, come rivela il rapporto di Save the Children «L’ultima spiaggia». Circa uno su 9, un’emergenza che cresce. E se quasi tutti i minori accompagnati sbarcati in Italia nel 2014 – 1542 su 2124 – sono bambini siriani di 5 anni fuggiti dalla guerra, la maggioranza dei minori non accompagnati, circa 3.000, è eritrea. Sono i più vulnerabili tra i rifugiati.
 Tempo fa il presidente della commissione regionale antimafia siciliana Nello Musumeci, ne denunciò la sparizione e il rischio che finissero nelle spire della malavita organizzata. Rischio concreto? Per Sandra Zampa, vicepresidente della Commissione parlamentare per l’infanzia ammette che «sappiamo ancora molto poco e i numeri non sono certi. Dobbiamo fare di più, i rischi sono che finiscano a spacciare e a prostituirsi».
Save the Children può confermare che la criminalità li sfrutta lungo il viaggio, spesso anche in Italia.
«Lo sfruttamento anche sessuale avviene in Africa come in Europa da quanto ci dicono. La loro età si sta abbassando – conferma Carlotta Bellini, responsabile per la protezione dell’organizzazione – stanno fuggendo ragazzini di 12 anni per evitare un futuro sotto le armi e di estrema povertà. Ci hanno raccontato di aver subito nel viaggio torture, abusi sessuali e di essere stati costretti ad assistere alle violenze. Sono stati sequestrati da trafficanti spietati, hanno visto persone uccise e abbandonate nel deserto».
Nel mondo, dice l’Acnur, ci sono attualmente 48 milioni di persone in fuga da guerre. I numeri smentiscono chi grida all’invasione. L’Italia, che dovrebbe proteggere i ragazzi soli fino alla maggiore età, li lascia passare. In queste sere Khaled e Waleed hanno dormito come homelessin strada, nei giardinetti di Porta Venezia mentre aspettavano un altro trafficante che li aiutasse a partire, soccorsi solo dai volontari della comunità di Sant’Egidio, dall’Opera San Francesco, dall’ong Gandhi e da Midhin Paolos, una giovane di origine eritrea che coordina gli aiuti dei connazionali. «Da un mese e mezzo la città è una tappa per molti – spiega Ulderico Maggi della comunità di Sant’Egidio – ogni sera aiutiamo almeno 150 eritrei e molti sono minori. Dopo lo sbarco scappano dalle comunità dove vengono accolti in Sicilia. A Milano restano pochi giorni, la città è strategica per proseguire verso nord».
Khaled riassume le tappe del lungo viaggio. «Siamo fuggiti in Etiopia pagando 1.600 dollari. Quindi siamo arrivati in Sudan a Khartoum pagandone altri 1.200. Siamo stati fermi finché le nostre famiglie non ci hanno dato 1.750 dollari per attraversare il Sahara fino in Libia dove ci hanno arrestati e chiusi in un carcere a Tripoli. La polizia ci dava un panino e un bicchiere d’acqua al giorno, eravamo rinchiusi con gli adulti. In un mese e mezzo abbiamo visto abusi e maltrattamenti. Poi abbiamo pagato 1.500 dollari e ci hanno consegnato ai trafficanti che ci hanno portato a Bengasi. Ci hanno imbarcati con altre 540 persone, 100 erano minori. Ci ha salvati una nave italiana dopo quattro giorni in mare. Da tre era finito il cibo».
Le comunità di accoglienza non possono per legge, né riescono, a trattenerli, inoltre non è chiaro chi deve pagarle. Toccherebbe ai comuni, ma hanno finito i fondi. Si discute se tocchi al Viminale o al Welfare e se allargare lo Sprar (il servizio per i rifugiati gestito dai comuni). «Si fermano maliani, senegalesi e nordafricani che pur avendo bisogno di soldi, davanti alla prospettiva di formazione ci pensano – conferma don Vincenzo Cosentino, delegato regionale delle Caritas siciliane –. Il problema è che non si sa chi deve pagare le comunità: se i comuni, che hanno finito i fondi, o il governo». Nel viaggio c’è chi devia su Bologna, nel Villaggio del fanciullo dei dehoniani di padre Giovanni Mengoli.  «Sono passati minori eritrei e siriani, che ripartono subito. Se hanno già progetti precisi è difficile trattenerli». Se li fermano in Svizzera, Francia o Germania chiedono asilo. L’Ue deve accoglierli, ma si è chiusa. Nel 2013 ha concesso lo status di rifugiato solo a 135.700 profughi su 435mila richiedenti. Ma la fuga di Khaled e Waleed prosegue, non si ferma un ragazzo che sogna la libertà.



I milleduecento rifugiati "invisibili" di Selam, il palazzo dei fantasmi
La denuncia nel rapporto di Cittadini del mondo: i migranti, quasi tutti titolari di protezione internazionale vivono senza assistenza in uno stabile occupato vicino al raccordo anulare di Roma. Difficile l’accesso ai servizi anche sanitari. “Luogo simbolo della mancata integrazione”
Redattore sociale, 20-06-14
ROMA – Milleduecento persone, quasi tutte richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale, che vivono senza servizi e assistenza in uno stabile abbandonato a sud di Roma, a poca distanza dal Grande raccordo anulare. Selam è il "palazzo dei fantasmi", dice  Deslane, eritreo, che lì vive da anni insieme a tanti altri migranti, arrivati nel nostro paese per chiedere asilo politico e oggi “invisibili” alle istituzioni.
La storia dello stabile dei rifugiati, uno dei luoghi simbolo della mancata accoglienza nel nostro paese, è oggi raccontata nel rapporto “Palazzo Selam, la città invisibile” realizzato dall’organizzazione di volontariato “Cittadini del mondo”, che dal 2006 ha attivato uno sportello socio sanitario presso l’edificio occupato per far fronte a una situazione di abbandono quasi totale. Il documento denuncia in particolare le condizioni di vita all’interno di questo palazzone, fantasma nei fatti, ma in realtà ben visibile a tutti i cittadini romani che quotidianamente percorrono il raccordo di Roma. Quella di Selam, spiegano, è una strana storia di occupazione, “prima legale poi divenuta illegale e quindi completamente abbandonata a se stessa insieme all’edificio che negli anni è diventato sempre più fatiscente”.
L’occupazione del palazzo, che prima era sede di una facoltà dell’università Tor Vergata, nasce dallo sgombero di un’altra famosa occupazione romana, quella dell’Hotel Africa. Nel 2006 le 400 persone che vivevano lì divise in gruppi più piccoli occuparono altre strutture nella periferia della capitale e nacquero così il centro di via Scorticabove a San Basilio, dove attualmente vivono circa 120 sudanesi, e Selam Palace. Le 250 persone entrate nell’ex facoltà di lettere e filosofia furono immediatamente sgomberate e portate in un tendone adibito a centro di accoglienza di fortuna. Tuttavia le proteste dei rifugiati furono tali che l’amministrazione fu costretta a trovar loro una sistemazione negli ultimi due piani del Palazzo Selam, mentre il resto della struttura fu murata. Nel 2007 furono destinati fondi per il trasferimento degli ospiti nelle strutture di accoglienza, ma dopo il rifiuto dei migranti di spostarsi l’occupazione divenne illegale, l’amministrazione smise di pagare le utenze e di occuparsi di qualunque questione legata al palazzo. Questo fu l’inizio del degrado strutturale dell’edificio mentre al suo interno continuavano ad insediarsi nuovi gruppi di persone, al punto che ad oggi vi abitano circa 1200 persone.
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“Per gli abitanti essere completamente abbandonati dalle istituzioni ha significato tra le altre cose non poter prendere la residenza nel luogo di reale domicilio e quindi di non poter usufruire dei servizi pubblici vicini come la scuola o come il sistema sanitario – spiega l’associazione -. Grazie all’intervento di cittadini del mondo e dell’Unhcr e solo dopo 6 anni dall’occupazione è stato possibile sbloccare la situazione, ma a oggi tutto ciò è nuovamente messo in discussione dal decreto Lupi che non consente di prendere le residenze in luoghi occupati abusivamente”.
Il report denuncia la difficoltà di accesso ai servizi territoriali, sociosanitari e sociali: “spesso la burocrazia non prevede complesse situazioni famigliari con la conseguenza che pratiche importanti rimangono bloccate negando l’accesso a servizi fondamentali, come nel caso dell’esenzione per la mensa scolastica. Gli operatori di tali servizi pubblici – aggiungono - non sono formati per accogliere questo tipo di richieste e spesso per stupidi errori, ai rifugiati politici è precluso l’accesso ad un servizio, un esempio è il non riconoscere il cedolino di richiedente asilo come documento” .
Quello che desta maggiore preoccupazione è “che il 95 per cento delle persone assistite dai volontari dell’associazione è titolare di un tipo di protezione internazionale – sottolinea ancora Cittadini nel mondo - il 76 per cento di queste persone vive in Italia da più di 5 anni, il 21 per cento da più di un anno e solo il 3 per cento da meno di un anno. C’è di fatto  la mancata integrazione dei rifugiati politici sul territorio e l’assenza di politiche volte ad una seconda accoglienza che permetta il graduale inserimento dei migranti nel tessuto sociale”. L’unica differenza la fa il fattore umano: l’intervento degli operatori o delle associazioni. “Queste ultime si pongono come interfaccia tra l’utente e i serviziterritoriali, venendo a colmare di fatto, le profonde lacune dell’accoglienza italiana”.
Nel report si spiega inoltre, che negli ultimi anni il palazzo è diventato meta di migranti che in Italia non vogliono restare: eludendo i controlli alla frontiera, arrivano qui per riprendersi dal viaggio e continuare il cammino verso altre mete europee. Ma il continuo arrivo di nuove persone complica ancora di più la situazione di degrado dello stabile, in cui le condizioni igieniche sono pressoché disumane. (ec)
Su RS, l'agenzia di Redattore sociale, tutti i dati del rapporto "Palazzo Selam, la città invisibile"



Mare nostrum, indietro non si torna
Avvenire, 20-06-14
?Caro direttore,
pensando alle quotidiane tragedie che colpiscono nella traversata del Mediterraneo innumerevoli esseri umani in fuga dai loro Paesi non posso non chiedermi dove sia finito lo spirito nobile e altruista dell’Europa. Mi pare che il finanziare un’operazione come “Mare Nostrum” sia ben poca cosa a fronte della colossale tragedia che investe tanti profughi. Ora mi sento autorizzato dai fatti a credere che si sia istituita un’Europa dei beni, delle banche e della libera circolazione delle merci nella quale speculatori d’ogni sorta la fanno da padroni. Insomma, vedo un’Europa laicamente diabolica, lontana dal sentire profondo dei suoi popoli, e non un’Europa solidale che sa essere affermazione e affrancazione dei suoi popoli! Il mio ricordo corre a quel gran rifiuto nell’Atto costitutivo sottoscritto a Lisbona nel 2003 nel quale, per mostrarsi ultra-progressisti, si negava l’inserimento di una formula nel preambolo introduttivo che si richiamasse alle “eredità culturali, religiose e umanistiche” dell’Europa. Pareva che tale affermazione scontentasse lo spirito di alcuni “costituenti europei” laici(sti) i quali richiesero con vigore l’abolizione dell’esplicito riferimento alle radici cristiano-giudaiche del Vecchio Continente e, quindi, la riconducibilità storica della sua civiltà culturale alla fede in Dio. Ora raccogliamo i frutti di tale scellerata negazione! Mi pare che la ricca Ue manchi ai suoi compiti quando le genti della disgrazia raggiungono i confini di uno dei suoi Paesi; si levano, infatti, barriere d’ogni sorta e si distolgono gli occhi. Certamente è preferibile, per lo sfruttamento e per la speculazione, delocalizzare le nostre industrie nei Paesi più poveri che accogliere i poveri sulle nostre terre… Eppure basterebbe poco per rendere l’Europa a misura umana: poche leggi e molta buona volontà nel sapersi fare prossimo. Io sogno un’Europa di questo genere, un’Europa Unita che non respinga le persone realmente meritevoli d’accoglienza e d’aiuto in ogni parte del suo unico e anche molto ricco territorio.
Luigi Redaelli, Bonate Sotto
Proprio in questi giorni di giugno 2014 avrebbe dovuto concludersi il percorso “a tappe” di revisione delle regole europee in tema di immigrazione e di accoglienza di profughi e rifugiati che l’anno scorso il governo italiano, allora guidato da Enrico Letta, aveva convinto nell’estate del 2013 gli altri Stati membri della Ue ad avviare. Le resistenze passive di altri Paesi sono state tante e forti. E siamo arrivati alla vigilia del semestre italiano di presidenza dell’Unione senza raggiungere (o anche solo sfiorare) il risultato atteso. E questo, caro signor Redaelli, è gravissimo. Ecco perché condivido pienamente il suo giudizio di fondo – giudizio amaro, ma per nulla rassegnato – sulla qualità morale e legale dell’approccio europeo al fenomeno (chiamarlo “emergenza” non ha più senso, da molti anni) del trasferimento forzoso via mare sulle sponde nord del Mediterraneo di quote importanti di popolazione africana e asiatica messe in fuga dalle proprie terre natìe da guerre, persecuzioni religiose e politiche, ingiustizie economiche, spronate dalla paura e dal bisogno e attirate dai “vuoti” creati in Europa dalla crisi demografica e dall’(assurdo) rifiuto dei lavori manuali che caratterizzano le nostre società “evolute”. Purtroppo niente di strutturale è stato fatto, di concerto con l’Onu, per strappare ai trafficanti di esseri umani il monopolio sulle tragiche rotte della disperazione e della speranza su cui si avventura chi cerca di raggiungere l’Europa da Africa e Asia (ma anche, in modo diverso, dall’Est europeo e dall’America Latina). Niente ancora si è mosso per correggere le norme che inducono donne e uomini con tutti i requisiti per essere riconosciuti e accolti come “rifugiati” a rifiutarsi addirittura di declinare ufficialmente le proprie generalità per non vedersi costretti dalle norme Ue a restare nel Paese d’approdo senza poter raggiungere parenti e amici residenti in un altro Stato europeo. L’Italia – con solitaria, generosa ed esemplare scelta – ha invece fatto qualcosa di decisivo: per supplire alla vergognosa inefficacia dell’eurosistema Frontex ha dato vita da sola, con la propria Marina militare, all’operazione “Mare Nostrum” che non ha potuto impedire alcuni nuovi drammi nel braccio di mare tra il Nord Africa e le nostre coste, ma ha salvato migliaia e migliaia di vite umane. Ora, mentre torna a intensificarsi la discussione in sede europea, forse anche per ragioni negoziali tattiche, dalle fila del governo Renzi si sono levate più voci – a cominciare da quella del ministro dell’Interno Alfano – che hanno messo in dubbio la continuazione di quell’oneroso ed essenziale impegno umanitario. Su questo è bene essere chiari: la Ue può e deve dare una svolta solidale e lungimirante alla propria azione e alle troppe inazioni sul fronte delle migrazioni e deve darla in tempi rapidi, ma indietro non si può tornare. L’operazione umanitaria sotto bandiera italiana potrà finire solo quando comincerà un’operazione di portata analoga e maggiore sotto bandiera europea. L’unica insostenibile “debolezza” al cospetto dei partner Ue, dell’intera opinione pubblica continentale, delle coscienze delle persone e – per chi crede – di Dio non è di chi sta facendo la cosa giusta, ma di coloro che chiudono gli occhi e voltano la testa e magari pretendono anche di dare agli italiani lezioni di civiltà e di rigore “europei”. L’Italia può farsi ascoltare e merita sostegno perché ha dato ascolto e offerto soccorso a chi ne aveva bisogno. Si faccia sentire, faccia maturare presto la civile risposta che l’Europa tarda a dare.



Una Lampedusa al confine messicano
Corriere della sera, 20-06-14
Massimo Gaggi
I disperati che cercano di arrivare a Lampedusa o in Sicilia fuggo- no da guerre, persecuzioni e carestie in Africa. Rischiano la vita per attraversare il Mediterraneo su imbarcazioni stracariche di boat people. «È un problema serio che riguarda tutta l’Europa, non solo l’Italia. L’abbiamo detto ai nostri alleati della Nato. Oggi siamo concentrati sull’Est, la crisi in Ucraina, ma quella sud è la seconda frontiera della quale l’Alleanza atlantica deve occuparsi». Due settimane fa, durante la visita di Barack Obama in Europa, nel dirmi queste cose in un incontro conviviale (e quindi off the record, secondo le regole della Casa Bianca), uno dei più stretti collaboratori del presidente del Consiglio per la Sicurezza nazionale aveva, forse, in mente l’emergenza per certi versi simile che anche gli Stati Uniti devono affrontare da alcuni mesi. Gli Usa d’immigrati clandestini, soprattutto ispanici arrivati dal Messico, dai Caraibi e dall’America Latina, ne hanno tanti: almeno 11 milioni. Ormai sono parte integrante del sistema produttivo: senza di loro si fermerebbero il Texas, la Florida, l’agricoltura della California. Ma tutti i tentativi di regolarizzare la situazione sono falliti nonostante una sanatoria sia ormai richiesta, oltre che dai democratici, anche da molti conservatori (ieri l’appello di Rupert Murdoch). Ma, mentre a Washington si negozia e si litiga, alla frontiera col Messico è esplosa un’emergenza del tutto inaspettata. Dopo anni di relativa calma (effetto della recessione), è arrivata un’improvvisa ondata di disperati: a differenza dei boat peo- ple di Lampedusa, questi nuovi clandestini non fuggono da guerre e carestie ma dalle gang criminali dell’Honduras, del Salvador e del Guatemala. E non sono adulti, ma bambini. A volte accompagnati dalle madri, ma più spesso minorenni che si sono messi in viaggio da soli. Il loro Mediterraneo è il Rio Grande e la prima cosa che segnarsi alla polizia: la comunità ispanica s’è convinta che sia questo il modo più sicuro per far vivere questi ragazzi negli Usa come persone libere, anche se da illegali.
Il meccanismo è questo: i ragazzi scappano perché perseguitati dalle gang o nella speranza di raggiungere genitori o parenti che già vivono negli Usa. Sanno che verranno arrestati, ma anche che il governo Usa ha reso meno severe le norme sulla detenzione e l’espulsione dei minori (in realtà quelle misure riguardano solo giovani arrivati parecchi anni fa, ma nessuno ci fa caso: fa più effetto la propaganda repubblicana sulle frontiere-colabrodo di Obama). I ragazzi arrivano in massa e la polizia non sa che fare: i centri di detenzione sono già saturi e i bambini richiedono cure e una protezione particolare. Per legge possono essere rimandati indietro solo i messicani, ma non chi viene da Paesi più lontani e dovrebbe attraversare diverse frontiere.
Così accade davvero che, una volta arrestati e schedati, questi ragazzi vengano dati in affidamento a chi li vuole e li conosce: cioè i loro familiari negli Usa. Prima o poi un tribunale decreterà la loro espulsione, ma intanto sono liberi negli Usa e questo attira altri ragazzi. Ingigantendo il nuovo problema sociale e i guai elettorali di Obama, in vista del voto di mid term di novembre.



Messico-Usa l’odissea dei bambini di frontiera
la Repubblica, 20-06-14
Vittorio Zucconi
?I BAMBINI lo chiamano “El Tren de la Muerte”, ma nessuno sa davvero quanti di loro quel treno della morte uccida.
Però tanti. Daniel Zavala ricorda di averne visti scivolare molti dal tetto dei carri merce traballanti lungo i 3mila chilometri di rotaie fra la partenza da El Salvador fino all’arrivo a El Paso, nel Texas, ma il treno non si ferma per raccoglierli, perché i bambini sono figli del nulla. Non esistono. Una notte vide una bambina che si era addormentata rotolare dal tetto e sentì soltanto un urlo allontanarsi nella notte. Qualcuno sparse la voce che le ruote del treno le avevano tranciato le gambe. Magari non è vero.
Anche Daniel, come i 60, o 70, o 80mila minori - duecento al giorno, morto più morto meno - che quest’anno soltanto hanno lasciato o lasceranno l’El Salvador, l’Honduras, il Guatemala, il Messico affidati dalle famiglie ai coyotes , agli sciacalli che li imbarcano nel viaggio verso la “Frontera del Grande Norte”, degli Stati Uniti, deve soltanto guardare avanti. Come la biblica moglie di Lot, mai voltarsi indietro. Per lui, per tutti loro, l’andata è un tuffo nel vuoto, ma il ritorno è impossibile. Se tornano sanno che le gang, i trafficanti, gli “scafisti” del Tren de la Muerte li uccideranno comunque.
Il viaggio che Daniel ha raccontato all Cnn cominciò quando aveva 16 anni e i narcos entrarono a casa sua a San Salvador per spiegare a lui, e alla madre, che ormai era grande abbastanza per entrare nell’organizzazione e non aveva scelte. Tranne una: tuffarsi nei 3000 chilometri di viaggio attraverso Guatemala City, Puebla, San Luis Potosi, Durango, Chihuahua e il Rio Grande, da attraversare naturalmente a piedi. Evitando d’inciampare nei cadaveri, grandi e piccoli, disseminati nei sentieri e lasciati ai coyote, quelli per bene, a quattro zampe. I parenti, che non erano poveri, ma soltanto disperati, raschiarono 7mila dollari dai materassi, fecero debiti, vendettero tutto quello che era vendibile e Daniel si arrampicò sul tetto del primo merci di passaggio verso il nord, sotto gli occhi dei “coyotes” che sparavano, o buttavano giù, quelli che tentavano di salirci sopra senza avere pagato. Naturalmente sotto gli occhi vitrei e indifferenti della Policía ben pagata per non vedere.
L’illusione, la speranza, il “tutto o niente” di questi viaggiatori della notte che sono l’esatto equivalente degli africani e degli asiatici che s’imbarcano sui relitti galleggianti verso Lampedusa, è di trovare, lassù oltre il fiume, quella nazione che ha scolpito ai piedi della Statua della Libertà, le parole della poetessa Emma Lazarus: «Datemi i vostri poveri, i vostri affranti, le vostre folle ammassate... e accenderò la mia lanterna accanto alla porta d’oro». Le loro storie sono tutte uguali. Violenze, botte e reclutamenti forzosi per i maschi nelle gang che hanno bisogno di continui rinforzi e rimpiazzi, per i vuoti lasciati caduti nella loro guerra quotidiana. Violenze, botte e stupri per le femmine, a cominciare da età che preferiscono non quantificare in un numero.
Ma dietro la golden door, la porta d’ora, Daniel, e le altre migliaia di bambini a volte talmente piccoli da dover portare cucita sulla maglia una pezza con il telefono e l’indirizzo di un parente negli Usa ricamato sopra, non trovano la poetessa con la sua lanterna, ma le guardie del Border Patrol. Ogni giorno arrestano decine di bambini e di ragazze, per rinchiuderli in centri di accoglienza dove, ha raccontato Enrique, un quattordicenne, al New York Times , «non ci sono finestre e siamo così tanti da dover dormire a turno sul cemento, perché non c’è posto per sdraiarci tutti».
Se non siete mai stati alla Frontera del Texas e dell’Arizona in estate, non riuscirete a immaginare quali forni possano diventare, casematte senza areazione né finestre, di giorno e quali frigoriferi quando cala il sole sul deserto.
Quella dei migranti bambini - ne arrivano con ancora i resti del pannolino fissato dalla madre e disintegrato nei sei giorni di viaggio - è l’ultima incarnazione della inarrestabile corsa verso il Grande Norte . La speranza è che le autorità della California, dell’Arizona, del Texas dove l’onda di marea arriva, siano mosse a pietà da quei bambini e ragazzi, più di quanto non lo sarebbero con genitori e adulti, ma la pietà si sbriciola nel solvente dell’opportunità politica, come il pannolino sbrindellato di una bambina di quattro anni che se la fece addosso per il terrore della guardia che la interrogava nella base aerea di Lackland in Texas, oggi convertita in centro di raccolta.
La metà di loro sono immediatamente rispediti oltre frontiera, al loro destino e senza neppure l’assistenza, per modo di dire, dei coyotes che alle fermate del treno si arrampicavano con loro per dar loro abbastanza acqua e cibo per farli sopravvivere. Gli altri, come Daniel Zavala, che hanno un aggancio, un nome, un parente legale negli Usa, entrano nel labirinto delle procedure d’immigrazione per asilo politico, dove le probabilità di smarrirsi sono altissime, quasi quanto quelle di incontrare un serpente a sonagli nel tragitto a piedi verso il Rio Grande. Per uscirne con il rettangolino plastificato della “residenza”, un tempo chiamata la “carta verde” che verde non è più, serve il filo di un avvocato che sappia, conosca, riconosca le trappole e le vie giuste. I figli del Tren de la Muerte con assistenza legale hanno nove volte più probabilità di arrivare al permesso di soggiorno rispetto a chi si arrangia da solo, al massimo con un interprete. Ma un avvocato costa almeno 3.500 dollari, tre o quattro volte il guadagno mensile delle famiglie che li accolgono.
Daniel, che ora ha 17 anni, è stato fortunato. Non è rotolato giù, nel sonno, dal tetto dei carri. Non è morto di sete e d’insolazione nelle ore di lento viaggio sotto il sole del Messico sdraiato come un pollo sopra la piastra di lamiera rovente. Non è rimasto impigliato nei campi di concentramento alla frontiera. Dopo pochi giorni, è stato passato al- l’assistenza sociale, molto più umana, poi a un’organizzazione chiama Kind, acronimo di volontariato legale e umano che riesce a raccogliere 3mila avvocati disposti a lavorare pro bono , gratis, come tutti gli studi legali dovrebbero di tanto in tanto fare. Chi lo ha accolto gli ha indicato la strada maestra per uscire dal labirinto: la divisa della Us Army Rotc, l’uniforme dei corsi premilitari al liceo che indossava, tutto tirato e splendente di mostrine e insegne, davanti alla Commissione d’inchiesta parlamentare, per raccontare il suo viaggio.
Per sfuggire alle armi che nel El Salvador lo avrebbero ucciso, Daniel dovrà quindi affidarsi alle armi, sotto la bandiera degli Stati Uniti. Sempre armi, dunque, ma almeno questa volta sarà lui a imbracciarle.

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