Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

10 gennaio 2011

Il caos nel Maghreb può spingere migliaia di immigrati in Europa
il Giornale,10-01-2011
Rolla Scolari
Le misure per contenere i prezzi degli alimenti base prese dal governo algerino sabato non hanno fermato la protesta popolare. Giovani manifestanti continuano a invadere le piazze del Paese, manifestando con violenza contro la crescente inflazione, la disoccupazione e il disagio sociale. Negli scontri sono rimaste uccise quattro persone e sarebbero circa 800 i feriti, la maggior parte tra le forze dell’ordine. Le tensioni non si placano anche in Tunisia, dove il regime del presidente Zine El Abidine Ben Ali ha ammesso la morte di otto persone negli scontri tra polizia e manifestanti, anche qui giovani. Le ragioni della protesta sono simili: il malessere sociale, la disoccupazione, il difficile accesso giovanile al mondo del lavoro uniti alla mancanza di libertà politica.
Le contestazioni algerine sono iniziate soltanto pochi giorni fa, ma il dissenso tunisino va avanti ormai da metà dicembre, senza destare particolari reazioni da parte della comunità internazionale. In Francia, Le Parisien s’interroga sul riserbo della diplomazia nazionale nei confronti della crisi. Per il sito del quotidiano parigino, tra le motivazioni della cautela ci sarebbe anche la preoccupazione delle autorità per un’inasprirsi dei flussi migratori dai due Paesi verso l’Europa. Alla base delle contestazioni, infatti, c’è soprattutto il malessere sociale causato da una difficile condizione economica. «Se mai la situazione dovesse peggiorare – ha spiegato ai giornalisti francesi Karim Pakzdad, dell’Istituto di relazioni internazionali e strategiche di Parigi – la Francia teme il tracimare dell’immigrazione nel Paese, con le tensioni che questo comporterebbe».
La preoccupazione potrebbe non essere soltanto della Francia, che a causa del suo passato coloniale ha un legame particolare con Algeria e Tunisia, ma dell’intera Europa, Italia compresa. Per Abdennour Benantar, ricercatore franco-algerino, il malcontento dei giovani nel Maghreb difficilmente porterà a nuovi importanti flussi migratori. Spiega al Giornale come la situazione sia cambiata da 1988, anno in cui l’Algeria è stata teatro di imponenti sollevazioni popolari che portarono poi alle violenze del fondamentalismo islamico degli anni Novanta. «Tra il 2002 e il 2003 sia Algeria sia Tunisia, in seguito alle pressioni dell’Unione europea, hanno creato un arsenale giuridico che argina tremendamente l’immigrazione: chi lascia il Paese oggi per cercare di entrare illegalmente in un’altra nazione rischia il carcere. Il controllo delle frontiere, soprattutto quelle marittime, è molto forte, ed esistono accordi sull’immigrazione tra governi nordafricani ed europei. Adesso, la maggior parte degli immigrati che raggiunge l’Europa arriva dall’Africa sub sahariana, non dal Maghreb come una volta». È inoltre troppo presto per capire se il dissenso algerino o tunisino andrà avanti abbastanza a lungo da causare nuovi flussi migratori, anche se le misure prese dal governo algerino per arginare l’aumento dei prezzi degli alimenti «avranno un impatto minimo» sulla popolazione, e in Tunisia le proteste non sembrano perdere intensità.
La situazione economica, sociale e politica di Algeria e Tunisia è assai diversa, ma sicuramente esistono alcuni elementi comuni alla base delle tensioni che hanno investito nelle stesse ore i due Paesi. Prima di tutto, secondo Benantar, in piazza ci sono soltanto giovani, ovvero la maggior parte della popolazione. E molti di loro sono disoccupati. Inoltre, il movimento popolare è completamente apolitico, non esiste un interlocutore, una figura con cui i governi possano parlare: «Questo rende più difficile la gestione della crisi da parte delle forze dell’ordine». E in entrambi i casi, le manifestazioni sfidano regimi autoritari vecchi e incapaci di gestire le richieste di una popolazione sempre più giovane.



Despoti maghrebini Il gradimento di Frattini e Berlusconi

Il governo italiano giustifica i suoi buoni rapporti con regimi oppressivi per il loro contributo alla lotta contro il terrorismo Una rozza forma di realpolitik le cui vere ragioni sono altre
l'Unità, 10-01-2011
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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Sparano sulla folla che protesta per l'aumento dei prezzi. In Tunisia. In Algeria. Si ribellano contro oligarchie da sempre al potere che hanno delapidato ricchezze, fatto bancarotta sociale, politica, morale. In priva fila i giovani. In maggioranza acculturati. Giovani senza futuro. E se da Algeri e Tunisi si allarga l'orizzonte a Tripoli, ciò che si staglia è un regime che imprigiona i dissidenti e rinchiude i migranti africani in veri e propri lager, Tutto questo è sotto gli occhi di tutti. Ma c'è chi fa finta di non vedere. È il ministro degli Esteri italiano. Lui, Franco Frattini, ha un'idea diversa. Opposta. Quella del "male minore". Dietro alla quale si cela l'unica, vera diplomazia praticata dal governo del Cavaliere: la diplomazia degli affari. I morti sembrano non pesare nelle valutazioni del titolare della Farnesina. Come non hanno pesato gli eritrei respinti dall'Italia e torturati dalla polizia di Gheddafi. Per l'Italia, Tunisia e Algeria «sono Paesi che garantiscono stabilità al Maghreb e  chi dice cose diverse non ha il minimo senso di responsabilità», sentenzia Frattini in polemica con lo scrittore Tahar Ben Jelloun, secondo cui Roma e Parigi hanno responsabilità nelle proteste che sono scoppiate nei due Paesi, perché sono state troppo deboli nei confronti dei regimi locali. Che quelle contestate dalle piazze di Tunisi e Algeri siano regimi "dinastici" (a Ben Ali succederà un membro della famiglia, a Bouteflika il fratello) per il titolare della Farnesina sono dettagli. Perché ciò che conta è che Algeria e Tunisia «sono Paesi che hanno contrastato il terrorismo subendolo direttamente in casa propria - rileva Frattini -. L'impegno di Ben Ali contro il terrorismo non può essere sottaciuto». Mentre può esserlo la documentata denuncia delle più importanti organizzazioni umanitarie, interne e internazionali, che hanno ripetutamente documentato come il regime tunisino abbia calpestato i diritti umani, civili, conculcato le libertà politiche, censurato la stampa indipendente...
Non c'è da meravigliarsi di questa "dimenticanza". Perché per il capo del governo italiano, la Tunisia ha il volto accattivante di uno dei suoi "sodali" di lungo corso: il finanziere-produttore cinematografico Tahar Ben Ammar. Per il Cavaliere la Tunisia che conta, l'unica che esiste, è quella che ha in mano il potere. Da sostenere sempre e comunque. Con cui fare affari, sia pur per interposte persone. Esemplare è la visita di Berlusconi a Tunisi.
È il 18 agosto 2009. La mattina del Cavaliere trascorre in un incontro con il presidente Ben Ali, ma il clou della sua visita è nel pomeriggio con la partecipazione a Ness Nessma, programma di Nessma TV, la televisione satellitare tunisina acquisita, lo scorso anno, per il 50 per cento, da Mediaset e da Quinta Communications, società di produzione di Tarak Ben Ammar di cui è socio di rilievo anche il gruppo Fininvest e nel cui capitale, alla fine di giugno, è entrata, tramite la Lafitrade, pure Tripoli. La Tunisia diviene per il Cavaliere un enorme teatrino mediatico dove poter fare, liberamente, il suo show. E i suoi affari.
La "diplomazia degli affari" attraversa il Nord Africa. E unisce Tunisi, Algeri, Tripoli. L'Algeria, per l'appunto. Qui a dettar legge è il "ministro degli Esteri" che conta davvero nella "diplomazia degli affari" cara a Berlusconi: l'ad di Eni, Paolo Scaroni. Alcuni esempi: di-cembre 2009: l'Eni si aggiudica la licenza esplorativa di Kerzaz, nelT Algeria sud occidentale, a seguito di una gara internazionale indetta dall'agenzia algerina Alnaft. La licenza ha un'estensione di 16.000 Km quadrati in regime di concessione. Eni è presente in Algeria dal 1981, Paese nel quale partecipa in 24 licenze già in produzione. Nello stesso periodo Saipem si aggiudica un contratto onshore in Algeria per €1,3 miliardi. Il contratto che è stato assegnato a Saipem (società per azioni facente parte del gruppo Eni) dalla compagnia algerina Sonatrach, riguarda la realizzazione delle infrastrutture connesse ad un impianto di trattamento per il GPL (gas di petrolio liquefatto) nel complesso di Hassi Messaoud.
Il complesso è situato nella parte centrale dell'Algeria, circa 900 km a sudest di Algeri. La costruzione sarà completata nella prima metà del 2012. Non solo gas. Ventisette Dicembre 2010: il Ministero dei Trasporti della Repubblica Algerina ha aggiudicato alla Astaldi, in raggruppamento di imprese, il contratto per la progettazione e la realizzazione di una nuova linea ferroviaria lungo la tratta Saida-Tiaret. Il valore complessivo delle opere è di 417 milioni di euro (Astaldi in quota al 60%). Tunisia. Algeria. Per il governo del Cavaliere sono terre di affari. E se si spara sulla folla, pazienza.



Crisi sociale Maghreb, PSI Liguria ad ass. Vesco: “evitare fenomeni di immigrazione illegale”

Albenga Corsara, 10-01-2011
Ciò che sta accadendo in queste ore in Tunisia, Algeria e potenzialmente in tutto il Maghreb, non può passare inosservato – a dichiaralo è il segretario socialista ligure Maurizio Viaggi. «Si parla di “Rivolta del Pane”. Le proteste sono contro il carovita e i rincari dei generi alimentari di prima necessità: pane, olio e zucchero. Stiamo assistendo al dramma della miseria e della fame».
«La comunità magrebina è la più numerosa in Italia e in Liguria. Con questi paesi del Mediterraneo, esistono antichi legami storici e culturali ed adesso importanti accordi di collaborazione con l’Italia e con la Liguria. Dal prossimo 31 Gennaio, con decreto del governo, sono aperte le domande per i flussi migratori di lavoratori proprio da quei paesi. Questi ingressi vanno favoriti evitando che la grave situazione di disagio alimenti l’immigrazione clandestina ed il mercato dell’illegalità».
«All’Assessore Regionale Enrico Vesco, con delega all’immigrazione, chiediamo di monitorare attentamente l’evolversi della situazione, assicurando il sostegno socialista a favore di tutte quelle iniziative tese a contribuire alla soluzione della grave crisi che sta attraversando quell’area del Mediterraneo», conclude il segretario socialista ligure Maurizio Viaggi.



Una città di stranieri dentro Milano

Quasi 250 mila gli stranieri nel capoluogo meneghino e "contano" nei fatti...
MIlano Web, 09-01-2011
In una società che apparentemente fa fatica a rinnovarsi e in un territorio che s’interroga sulla sua identità, il lascito più evidente del decennio che si è appena concluso è la crescita delle comunità straniere. A Milano risiedono, secondo le statistiche diffuse a fine 2010 dal Comune, 212 mila persone con cittadinanza estera. A partire dal 2000, le presenze estere (con riferimento ai soli cittadini "regolari") sono aumentate dell’80%, mentre i residenti italiani sono calati del 7%.
A tali stime, e a quelli che seguiranno, ci sembra opportuno fare una premessa: mentre gli stranieri devono avere la residenza se vogliono vivere nelle nostra città, gli italiani spesso sono solamente "domiciliati" a Milano, soprattutto se vi si trovano per ragioni di lavoro, anche se in "pianta stabile", magari anche da molti anni. Si spiega così, a nostro parere, il dato relativo alla diminuzione dei nostri connazionali, che risultano essere 1 milione e 104 mila.
In totale la popolazione milanese risulterebbe così di 1 milione e 316 mila abitanti, un dato evidentemente che non coincide col numero "reale" di persone che vivono nell’area del capoluogo. La stessa cosa avviene a Roma, dove le stime parlano di 2 milioni e 700 mila abitanti contro una popolazione che si calcola essere di circa 4 milioni. Per inciso, gli stranieri residenti a Roma sono 290 mila, ma la composizione è molto diversa. La comunità più cospicua, ad esempio, è quella rumena, con 65 mila individui.
A Milano, invece, i rumeni sono 11 mila, e sono superati da filippini (32 mila), egiziani (27 mila), cinesi (18 mila), peruviani (17 mila), ecuadoregni (13 mila), srilankesi (13 mila). I peruviani nell’ultimo anno sono cresciuti del 9%, superati solo dagli ucraini (+15%), che in totale superano di poco i 5 mila, così come gli albanesi. 
A questi numeri assoluti possiamo affiancare le stime relative alle presenze quartiere per quartiere, al lordo della premessa di cui sopra. Se infatti la quota di residenti stranieri più alta si tocca al centralissimo Parco delle Basiliche, con il 45,4% (stessa percentuale si registra a Dergano), il dato va "letto" con attenzione: da un lato si tratta di una zona prevalentemente di uffici, dall’altro molti italiani vi figurano solamente "domiciliati".
Non a caso i numeri delle zone periferiche si assomigliano: 29,4% a Bovisa, 26% a Villapizzone, 26,2% a Comasina, 24,4% ad Affori, 20,6% a Greco, 26,9% in viale Padova, 29,6% in Piazzale Loreto, 27,2% all’Ortica, 32% a Ponte Lambro, 19,8% a Piazzale Lodi/Corvetto, 20,4% al Giambellino, 28,8 in Piazza Selinunte. Nella zona del Bosco in Città si sale al 62%.
I numeri non tornano con le valutazioni spannometriche?
A leggerli, sembrerebbe che la kasbah di viale Padova non presenti una situazione più "critica" di altri quartieri. Evidentemente sussiste una percentuale di stranieri che "sfugge" a queste statistiche. Oppure è la presenza compatta di singole comunità a segnare con un "tratto" più forte la composizione demografica del territorio. Ma anche in questo caso i numeri si scontrano con luogo comune. A Villapizzone ci sono infatti più cinesi che in Canonica-Sarpi; nella zona di piazza Bande Nere i filippini sono tanti quanti in viale Monza. E in un quartiere popolare come il Gallaratese, la presenza di stranieri scende al minimo cittadino: 6% (mentre la media è del 16%).
La provincia di Milano non è comunque tra quelle in cui il tasso di crescita degli stranieri è "maggiore". In realtà, l’aumento più consistente si registra in tal senso a Latina, Caltanisetta, Enna e Nuoro. Più in generale, è proprio il Mezzogiorno la zona del Paese in cui l’incremento negli ultimi anni è più forte.
Quanti degli stranieri residenti hanno diritto al voto?
A oggi, tutti coloro che appartengono ai paesi dell'UE, a patto che ne facciano domanda. E poi coloro che hanno ottenuto la cittadinanza italiana. Si stima che l’elettorato straniero potrebbe in tal senso situarsi attorno ai 40 mila aventi diritto. Un numero che è inficiato (così come capita con gli italiani) dal fatto che molti (nelle ultime consultazioni amministrative il 37%) rinunciano a esercitare il proprio voto.
Ricordiamo in tal senso che la cittadinanza a oggi si ottiene dopo una presenza continuativa di 10 anni nel nostro Paese (ai membri degli stati UE ne bastano 4), oppure per matrimonio, dopo 2 anni di permanenza in Italia. Possono inoltre chiedere la cittadinanza i figli di immigrati che siano nati qui, naturalmente al compimento del 18° anno d’età.
In Parlamento giacciono alcune proposte di legge che vorrebbero contrarre da 10 a 5 anni il tempo necessario per ottenere la cittadinanza. Ma è assolutamente improbabile che vengano approvate nel corso di questa legislatura.
Circa 170 mila residenti stranieri non potranno dunque accedere alle urne: un dato di fatto che riduce di molto l’impatto potenziale delle liste che hanno per candidato-Sindaco uno straniero, vera novità per le amministrative 2011.
Ricordiamo infatti che è stata presentata, all'inizio del Dicembre 2010, 'Milano Nuova', coalizione che si affida, nella corsa a Palazzo Marino, ad Abdel Hamid Shaari, il Presidente del Centro islamico di viale Jenner. La lista dovrebbe avere comunque una connotazione multi-etnica e non confessionale: non si tratta di un partito musulmano, e in essa dovrebbero comparire anche alcuni candidati italiani. Shaari ha spiegato di non voler schierarsi né a Destra né a Sinistra, ma dalla parte del buon senso, soprattutto su temi come ambiente, istruzione e sanità. È chiaro però che un punto fondamentale del suo programma riguarda le sanatorie relative al permesso di soggiorno.
Un altro punto spinoso è quello della costruzione della moschea. “Non è nel programma. Noi la rivendichiamo in quanto diritto di culto garantito dalla Costituzione, ma è una battaglia che devono fare i musulmani, noi la sosteniamo, ma non è il momento di mettere tanta carne sul fuoco” - ha spiegato Shaari, forse nel tentativo di spegnere sul nascere le polemiche innescate da Lega e PdL dopo l’annuncio della lista.
Basta leggere la dichiarazione in merito del presidente del consiglio regionale, Davide Boni, che ha definito l’iniziativa di 'Milano Nuova' come: “preoccupante, demagogica e strumentale, un gesto di evidente discriminazione nei confronti del Paese ospitante, perché nessun italiano ha mai ostacolato la possibilità di candidarsi in questo Paese agli immigrati integrati e già in possesso della regolare cittadinanza italiana".
È chiaro però che la quasi completa "estinzione" dei partiti tradizionali, e la conseguente crescita delle liste civiche, comportano una diversa concezione della politica, specie in ambito "locale", e la nascita di raggruppamenti di individui che condividono non necessariamente ideologie, ma elementi identitari, siano essi di censo, di etnia o di appartenenza ad un territorio, come accadde peraltro ai primordi della compagine guidata da Umberto Bossi, allorché si chiamava 'Lega Lombarda' e si presentava solo nelle regioni settentrionali. E la "voglia di partecipazione" è pur sempre un importante "sintomo" di integrazione. 
E non vogliamo sottrarci a un tema sfaccettato come quello delle moschee. Nella politica opportunità ed ideali spesso si controbilanciano. Da un lato, c’è chi si preoccupa, con spirito illuminista, di garantire la libertà di culto. Dall’altra, chi si concentra sull’ordine pubblico e sulla pace sociale. Tra costoro, un ulteriore spaccatura è costituita tra coloro che credono che una moschea costituirebbe uno strumento di "controllo" in più del potenziale eversivo delle frange estremiste e chi, invece, è convinto che in questi luoghi si possa cementare un’ideologia anti-occidentale. Si tratta di posizioni entrambe legittime. Non trova, invece, una collocazione "ragionevole" (nè legale) quella posizione per cui esistono cittadini di Serie A e di Serie B, religioni "garantite" e religioni "vietate" (sempre che non violino i diritti fondamentali dell’individuo e la sicurezza della collettività).
Alla luce di queste osservazioni, ci sembrano certamente più ideologici i contenuti del movimento 'Io amo l’Italia' di Magdi Cristiano Allam, il quale intende presentarsi a sua volta alle elezioni comunali, con la lista 'Io amo Milano'. Il giornalista d’origine egiziana, convertito al cristianesimo, ha precisato che proprio la battaglia contro la costruzione di una moschea a Milano sarà uno dei punti "fondamentali" del suo programma. Il modello di integrazione che Magdi Allam propone è quello di una piena condivisione dei nostri valori. Indubbiamente si tratta di una formula che potrebbe raggiungere consensi in quelle comunità straniere fortemente orientate (anche più degli italiani) al cattolicesimo, a partire dai filippini, per di più nell’assenza di un partito esplicitamente confessionale.
Ma c’è da chiedersi se abbia più senso una lista apolitica in difesa delle priorità degli stranieri o una che, puntando a intercettare il sentimento di "appartenenza" al nostro Paese da parte di cittadini esteri, definisca a priori lo schieramento nel Centrodestra, come ha fatto Magdi Allam. Ci verrebbe da dire che non c’è nessuno di più integralista di un convertito….
Si stima che 40 mila voti valgano almeno 3 eletti nel Consiglio Comunale e una percentuale che può risultare molto "interessante" per entrambi gli schieramenti in caso di ballottaggio. Al punto che non possiamo escludere l’ipotesi di un assessorato concesso a un cittadino straniero, se ciò servisse ad assicurarsi questa fetta di voti. Ecco perché il problema degli immigrati non può essere liquidato con banali formule elettorali.
I dati di ISMU, una fondazione che studia le questioni della multi-etnicità, parlano in realtà di ben 244 mila stranieri a Milano, tra "regolari" e "non". Non sappiamo se, come dice qualcuno, i "clandestini" si concentrino tutti in "alcuni" quartieri o siano distribuiti nel territorio. Possiamo però dire che "nulla" è stato fatto per "regolare" la distribuzione degli stranieri, a partire da un controllo più severo sulla concessione delle locazioni "in nero". Nel 2001 i numeri ISMU parlavano di “solo” 140 mila stranieri in città. Nell’ultimo decennio Milano ha dunque assorbito una città delle dimensioni di Monza. Una città tutta “estera”.
Pensare che l’abbia fatto in maniera "indolore" è probabilmente utopico. Ragionare su ciò che comporta quest’afflusso e fare dunque in modo che sia "omogeneo", dovrebbe costituire il primo passo. Non si può d’altronde sommare alla Milano “regolare” una città "clandestina". Tornare a ragionare sull’estensione della cittadinanza e della residenza significa non solo concedere 'diritti', ma anche introdurre 'doveri'. La società multi-etnica c'è, ormai, nei "numeri", quindi nei "fatti"; il più "miope" (e forse anche "pericoloso") atto ideologico che si possa fare oggi è continuare a negarne l'esistenza...



SPORTELLO UNICO PER L'IMMIGRAZIONE. "STABILIZZARE I PRECARI"

Sono cinquanta in Toscana, sedici a Firenze
Met, 10-01-2011
Nello Sportello unico per l'immigrazione, istituito nel 2003 a seguito della legge Bossi-Fini, lavorano anche 50 precari in Toscana (di cui 16 solo a Firenze, tra Prefettura e Questura) su un totale di 650 lavoratori interinali in tutta Italia. Per tutti il contratto era in scadenza al 31 dicembre 2010. Con una mozione delle Commissioni Lavoro e Cooperazione internazionale, illustrata dal Presidente della Settima commissione Giuseppe Carovani e approvata all'unanimità, il Consiglio provinciale ha invitato il Presidente della Provincia e la Giunta ad adoperarsi presso il Governo e il Ministero dell'Interno perché sia garantito il pieno ed "efficiente funzionamento degli sportelli unici per l'immigrazione situtati presso prefetture e questure", attraverso la stabilizzazione del personale precario impiegato. Si tratta di "scongiurare la dispersione di un patrimonio umano e di conoscenze particolari e specifiche, maturate in anni di lavoro precario ed esperienza sul campo".



Forza Nuova: "No all'immigrazione" tensione con attivisti di sinistra

la Repubblica, 08-01-2011
In piazza dell'Unità, una delle zone a più alta densità di immigrati, Forza Nuova (meno di dieci i presenti) ha organizzato un presidio per dire no all'immigrazione. Alcune decine di militanti di sinistra hanno organizzato una contro-manifestazione per dire no ai ''nuovi fascismi''. Poliziotti e carabinieri in forze e in tenuta antisommossa.
Ha creato confusione e qualche disagio alla circolazione la raccolta firme di FN che chiedeva di bloccare il nuovo decreto flussi. Un banchetto, disertato di fatto dalla cittadinanza, messo a pochi metri dalla lapide che ricorda la battaglia della Bolognina. Per questo un gruppo di 'antifascisti/e' (così la firma sul volantino) dei centri sociali ha deciso di essere presente urlando slogan contro Fn e di solidarietà agli immigrati contestando chi ha autorizzato il presidio. Alcuni autobus sono stati deviati quando i manifestanti si sono spostati per pochi minuti su via Matteotti per poi fermarsi, per tutta la durata della raccolta firme, al centro della piazza.



Rosarno, un anno dopo in piazza: «Ancora schiavi, nulla è cambiato»

l'Unità, 08-01-2011
Luciana Cimino
A un anno dai tragici fatti della piana calabrese, gli immigrati di Rosarno sono tornati a far sentire la loro voce con una doppia manifestazione nella cittadina che 12 mesi fa fu teatro dei violenti scontri e a Roma, con un sit-in sotto il Ministero delle Politiche Agricole. Da allora molto è cambiato ma non le loro condizioni. I migranti sono stati dispersi (dalla Puglia a Castel Volturno, da Cassibile all’Agro Pontino) ma delle promesse fatte all’indomani della terribile “caccia al negro” che seguì la rivolta dei braccianti non ve ne è traccia. Sono rimasti schiavi, di uno schiavismo che non si può neanche definire “moderno” perché della modernità non ha niente e la catena che una volta era di ferro oggi si chiama ricatto da permesso di soggiorno e da lavoro.
Dei circa 150 lavoratori ospitati dal centro sociale ex Snia Viscosa, nel popolare quartiere capitolino del Prenestino, la maggior parte ha avuto il permesso per motivi umanitari, che ha durata, però, solo di un anno. Provengono da Mali, Costa d'Avorio, Guinea, Burkina, Ghana, Senegal e spesso sono laureati o diplomati ma in Italia si sono ritrovati a raccogliere pomodori e arance a nero per 20 euro al giorno sotto la mannaia del caporalato. Ieri, con il supporto di associazioni come l’Osservatorio Antirazzista, in circa un centinaio hanno srotolato striscioni sotto il ministero dell’Agricoltura.
«Le vostre arance non cadono dal cielo », c’era scritto su uno di questi a sottolineare come i prodotti della nostra agricoltura siano ottenuti al più grazie a forza lavoro sotto pagata e senza diritti. «Dopo un anno le cose non sono cambiate – denuncia Sang, 43 anni, una moglie e 6 figli in Gambia e un passato e un presente da bracciante nel Foggiano e in Calabria – la rivolta ha messo in luce in quali condizioni viviamo e lavoriamo ma ancora siamo precari, ancora le nostre case sono abbandonate e senza servizi ancora il lavoro è a nero». «Abbiamo bisogno di documenti, di un lavoro regolare e che non sia sottopagato – continua – anche se adesso c’è un dialogo con le istituzioni la situazione non cambia mai». E aggiunge: «in Italia c’è razzismo, non affittano case dignitose a noi neri». Abu, 30 anni è fuggito dalla guerra in Costa D’Avorio. «Io sono fortunato perché ho il lavoro da magazziniere anche se sono laureato in informatica gestionale - spiega -ma sono venuto a manifestare per i miei compagni, bisogna cambiare questo sistema del ricatto del permesso di soggiorno, noi vogliamo il lavoro, senza lavoro non si può vivere, ma anche dignità».
Forte tra i manifestanti è la delusione per il fallimento dell’accordo tra Provincia di Roma, Coldiretti e Confagricoltura volto a promuovere l’inserimento lavorativo regolare nelle aziende agricole romane. A fronte di una richiesta di manodopera di diverse centinaia di persone sono stati fatti solo 4 contratti. «È stata la prova, se mai ce ne fosse stato bisogno, che nelle campagne del Lazio se si assume lo si fa a nero e non si riesce a promuovere il lavoro regolare», commenta Veronica dell’Osservatorio Antirazzista. Tuttavia migranti, centri sociali e associazioni non si fermeranno. Per domenica hanno annunciato una raccolta delle arance che crescono spontanee per le vie di Roma e poi «torneremo alla Provincia per chiedere di dare seguito al protocollo di aprile, se non si prendono la responsabilità le parti istituzionali e quelle del mondo produttivo agricolo non può cambiare», aggiunge Marco dell’Osservatorio.
Intanto una delegazione di manifestanti è stata ricevuta ieri mattina dal Mipaaf. Nella piattaforma la richiesta di condizioni di accoglienza dignitose e assistenza sanitaria per i lavoratori delle campagne, l’apertura di un tavolo presso gli enti locali con le associazioni datoriali per «scardinare un sistema produttivo paraschiavistico», la creazione di un sistema di etichettatura etica per i prodotti della filiera che garantisca non solo la qualità organolettica ma anche quella sociale. Inoltre i lavoratori di Rosarno hanno chiesto che venga garantito il permesso di soggiorno a chi denuncia il caporale o condizioni di lavoro irregolare, come già avviene in altri paesi europei .



Rosarno, solo piccole novità positive Ma resta la piaga dello sfruttamento

Oltre 400 immigrati hanno manifestato davanti alla Prefettura di Reggio Calabria per chiedere condizioni di vita dignitose e permessi di soggiorno per poter lavorare. Ma la maggior parte degli immigrati, raccoglitori di arance, sopravvivono sotto il giogo infame dei caporali al soldo della 'ndrangheta
la Repubblica, 07-01-2011
ROBERTO CALABRO'
ROSARNO - Un anno dopo la rivolta dei migranti: tutto è cambiato, ma nulla è cambiato. Una constatazione disarmante, che è diventata lo slogan della Rete Radici, un network di associazioni (Action 1, daSud 2, Libera Piana e Tenda di Abramo 3) che dallo scorso novembre ha monitorato da vicino le condizioni di vita e di lavoro degli africani rimasti a lavorare nelle campagne della Piana di Gioia Tauro. E che oggi ha accompagnato 400 migranti in una manifestazione che da Rosarno si è spostata a Reggio Calabria, fin sotto la Prefettura, per chiedere condizioni di vita dignitose e permessi di soggiorno e di lavoro. Al viceprefetto vicario del capoluogo calabrese sono state portate le istanze dei nuovi schiavi della Piana. Schiavi dei caporali al soldo della 'ndrangheta e schiavi di una legislazione assurda che li rende invisibili e ricattabili.
Le loro storie. Come Lamine Diarra, 31 anni, del Mali. In Italia dal 2005. "Quello che chiediamo sono i documenti. Vogliamo vivere e lavorare in regola. Io sono in Italia da quasi sei anni, vivo a Rizziconi. Quando ci chiamano, lavoriamo dall'alba al tramonto per 25 euro al giorno. E non sempre ci pagano. Ma senza documenti non possiamo fare valere i nostri diritti, non possiamo neppure prendere in affitto una casa".
Pochi cambiamenti. Quello di Lamine non è un caso isolato. Il monitoraggio condotto dalla rete
Radici tra novembre e dicembre 2010 su 200 cittadini africani ha svelato che nessun cambiamento sostanziale è avvenuto rispetto al 7 gennaio dello scorso anno, quando l'ennesima angheria commessa ai danni di alcuni di loro ha scatenato la rivolta violenta dei braccianti di colore. E ha mostrato a un'Italia attonita il degrado, i soprusi e lo sfruttamento a cui questi ragazzi sono sottoposti quotidianamente.
Almeno sono spariti i grandi ghetti. Francesca Chirico, dell'associazione daSud, una delle sigle che compongono la rete Radici, ci racconta: "Dallo scorso anno a oggi i due cambiamenti più evidenti riguardano gli alloggi e la dimensione del fenomeno. Sono spariti i grandi ghetti storici, la Rognetta, l'ex Opera Sila, la Cartiera, demoliti dalle ruspe o resi inaccessibili. Ma sono stati sostituiti da piccoli insediamenti, casolari e ruderi sparsi in mezzo alle campagne in cui le condizioni igienico-sanitarie non sono certamente migliori di quelle che abbiamo avuto modo di vedere in tv o nei reportage fotografici.
Diminuite le presenze. E' cambiata anche la dimensione del fenomeno: rispetto alle 3.000 presenze negli anni precedenti, secondo le nostre stime quest'anno i lavoratori africani in tutta la Piana non sono più di 800, al massimo mille". Per via della fuga avvenuta subito dopo la Rivolta dello scorso anno, ma anche per colpa della crisi che ha colpito l'agricoltura: oggi i braccianti di colore vengono chiamati a lavorare in media non più di due-tre giorni alla settimana.
Ma sempre sfruttati. Quello che non è cambiato è lo sfruttamento, 20-25 euro per 8-10 ore di lavoro sfiancante, e l'odiosa pratica del caporalato. Anche se i controlli dell'Inps e dell'Ispettorato del lavoro si sono fatti più stringenti. Il primo passo per potere aspirare a condizioni di vita e di lavoro dignitose passa per il riconoscimento dello status giuridico di questi lavoratori invisibili. Molti di loro non sono illegali, ma richiedenti asilo. Quindi legittimati a restare sul territorio italiano, ma senza la possibilità di firmare un regolare contratto di lavoro. Intrappolati in una sorta di limbo giuridico che li rende vulnerabili e ricattabili.
Le loro richieste. E' per questo che oggi, prima ancora che un tetto sotto cui stare in maniera decorosa, gli africani della Piana hanno reclamato a gran voce il superamento della legge Bossi-Fini e del pacchetto sicurezza. Per poter soggiornare e lavorare in Italia, legalmente e senza essere sfruttati e umiliati.



Com'è Rosarno un anno dopo la strage

l'Unità, 06-01-2011
Gianluca Ursini
Per le strade intorno Rosarno, i campi dal verde fosco sono punteggiati dal sole: mèlange di arance abbandonate. «A 5 centesimi al chilo, andateveli a raccogliere voi», sbeffeggiano il forestiero amareggiati i caporali a tarda sera, sulla statale 118 che attraversa la Piana e unisce una realtà metropolitana di paesini divisi da ettari di agrumeti e uliveti centenari: Rizzìconi, Rosarno, Laureana, Drosi, San Ferdinando, Taurianova e giù verso il mare le luci del porto di Gioja.
Rumeni, Bulgari, magherebini, persino un improbabile argentino biondo come un Gesù che di giorno fa il cassiere all’Iper, guidano i furgoncini da dove smontano gli africani, la minoranza. Per la gran parte, un migliaio di bulgari, macedoni, rumeni e ucraini che dopo la rivolta del 2010 non se ne sono mai andati, mai stati espulsi. Chi perché comunitario,chi perché bianco. E qui di troppo erano solo i nivuri.
Gli africani, che nel 2011 in gran parte non sono tornati, si vedono in giro solo all’alba e in gruppi divisi per nazionalità: guineani, malesi, ghanesi, pochissimi nigeriani, come in passato moltissimi burkinabé e ivoriani, forgiati da anni nei campi di cacao. Ma lì non pioveva ogni giorno come nel cuore umido della Calabria più verde. «Abbiamo registrato 800 presenze di migranti», conta Peppe Pugliese dell’Osservatorio Migranti CalAfrica, mentre porta in giro un allampanato pastore, David McFarland della chiesa Evangelica, a distribuire coperte. «Hanno superato il migliaio», ribattono dalla rete di Ong del progetto “Radici”, che chiede per i lavoratori un permesso di soggiorno per non faticare in nero.
«Conviene raccogliere le clementine, i mandarini, almeno rendono 20 centesimi, qui si deve affrontare una universale crisi del lavoro nell’agroalimentare meridionale, delle condizioni di lavoro e dei flussi di manodopera: a questi prezzi non conviene assumere, forse nemmeno produrre», allarga le braccia Antonino Calogero della Cgil locale. Per i braccianti la paga continua ad essere da 20 o 25 euro a giornata. Si comincia alle 5 sulla statale poi alle 8, finita la contrattazione col padroncino che può lucrare sulla tua schiena 10 euro, ti ritrovi nel “giardino”. Alle 5 è buio, tutti a casa. Quale casa? Un anno fa esplose la rabbia nelle fabbriche abbandonate e occupate dagli anni 90: la Cartiera a S. Ferdinando, abbandonata coi tetti sfasciati di Eternit in luglio dopo un incendio; rimaneva l’ex fabbrica di succhi “Rognetta” alle porte di Rosarno. Ora demolita, con 800mila euro del Viminale i rosarnesi avranno un mercato, al chiuso.
Dormitori, no. C’erano i silos della ex “Opera Sila” sulla strada per Gioia, dove in contrada Bosco ci sarebbero stati in gennaio gli scontri più animati con l’auto di una donna incinta data alle fiamme. Nelle tre notti successive, 150 bravi pattugliavano i campi con le mazze da baseball battute ritmicamente sull’asfalto della statale a cercare un “cuginetto” che tentasse la sortita. A Rizziconi, alla Collina, in due casoni sequestrati alle sorelle Albanese, clan dei più feroci, in 200 sopravvivevano senza acqua né luce. Tutto finito nel 2011. Ora i nivuri sono meno della metà dei 2500, presenti al momento della rivolta, quando la chiusura delle fabbriche del Nord li spinse verso i campi del Meridione.
Lavoro non ce n’è, non si mettono insieme più di tre giornate a settimana e a sera il western Union vicino l’unico hotel ora ingombrato dalle tv satellitari straripa di africani per spedire i soldi. Dormono tutti in casolari sulle strade tra Rizziconi, San Ferdinando e Rosarno; non più di 20. Hanno paura della caccia. «Da ottobre in bande girano per i casolari a controllare quanti siano gli africani», spiega sconsolato un parroco. Gli unici a ribattere alle mafie sono volontari e Chiesa. In una frazione di Rizzìconi la Caritas locale ha creato il “modello Drosi”: il sacerdote fa da garante e 50 migranti trovano affitto a prezzi moderati.
«In un anno avremo il centro Formazione professionale con 120 alloggi per i migranti regolari», assicura la neosindaco Elisabetta Tripodi. «Intanto sgombereremo il cementificio Beton Medma sequestrato al clan Bellocco; poi in primavera costruiremo tre palazzine, con un milione e mezzo già stanziato».
Secondo “Radici” «gran parte delle 800 presenze censite sono regolari richiedenti asilo – spiega Francesca Chirico – ma all’asilante le questure rilasciano un cedolino che permette il soggiorno: non si può firmare un contratto». Il risultato è lavoro nero. Nonostante gli oltre mille controlli in autunno dichiarati dall’Inps, sempre agli stessi orari, sempre il lunedì. Nonostante l’inchiesta Migrantes di maggio del pm Stefano Musolino e del procuratore di Palmi Giuseppe Creazzo: oltre 30 sfruttatori comunitari in manette. 



«Accoglieremo i migranti in un’area sequestrata ai clan» - Intervista a Elisabetta Tripodi

l'Unità, 06-01-2011
Gianluca Ursini
Stasera in piazza a Rosarno si torna per una festa dimenticata da anni: la serata della Mondialità. Rappresentanti delle etnie malesi, burkinabè senegalese e maghrebine balleranno in piazza coi rosarnesi e mangeranno le crespelle preparate dai volontari. Uno sforzo per tornare agli anni della convivenza, che aveva sognato il sindaco Peppino Lavorato, a capo del comune Medmeo negli anni 90 con Pds e Ds. Il «6 dicembre era la festa di lavoratori italiani e africani insieme», lo slogan che ricordava a chi gli chiedeva consigli, il compagno di lotte di Giuseppe Valarioti, ucciso dalle ‘Ndrine 30 anni fa. A rinverdire la buona pratica c’è Elisabetta Tripodi, 44 anni, eletta nella tornata elettorale di dicembre al ballottaggio contro un ex sindaco di centrodestra, Giacomo Saccomanno. Rosarno è di nuovo rossa, ma è soprattutto rosa: Tripodi è la prima signora a dirigere il comune Medmeo. Dopo gli incidenti del 2010, i rosarnesi hanno voluto il cambio... «Il dato che più mi conforta non è la mia affermazione, o quella della mia lista, ma il fatto che si siano presentati molti candidati che non aveva mai svolto attività politica: 13 neoeletti su 20 consiglieri. E soprattutto, dopo anni in cui le donne erano assenti o si contava una sola consigliere di sesso femminile, abbiamo cinque elette, il 20% non è molto rispetto ad altre realtà, ma per noi rappresenta il vero motivo di speranza». Legalità e lavoro sono ancora due emergenze qui. «Hanno chiuso, qui nella Piana di Gioia, molte realtà che impiegavano anche centinaia di calabresi, la carenza di offerta è una realtà sia per i migranti che per i calabresi: conosciamo adesso anche problemi di reinserimento per i lavoratori di mezza età, oltre al problema mai risolto della non occupazione giovanile. Sulla legalità, rilanciamo sulle pratiche di trasparenza: abbiamo concluso due anni di sperimentazione, alla Stazione Unica appaltante presso la Prefettura reggina, ove si svolgevano bandi di gara per gli appalti superiori ai 150mila euro. Con noi, ogni lavoro per importi anche inferiore ai 50mila sarà appaltato dalla Stazione unica, con trasparenza e certificazione antimafia, e lo faremo anche per i conferimenti di beni e servizi dai 20mila euro in su». Manca ancora una forma di accoglienza stabile ai migranti. «I lavori cominceranno a breve in una struttura sequestrata al clan Belloco. Abbiamo a disposizione un milione e mezzo di euro per costruire tre palazzine con un centro per la formazione professionale e alloggi per 120 lavoratori stagionali. Ma siamo costretti ad applicare le norme vigenti sulla regolarizzazione, anche se non condivido l’approccio della Bossi-Fini che vede i migranti solo nell’ottica della sicurezza. Il problema è indirizzare i flussi di lavoro. Per questa stagione, possiamo solo offrire dei corsi di lingua italiana». E come accoglienza stabile? «Di concerto con la Protezione civile, allestiremo una tendopoli, la Regione ha effettuato un sopralluogo e dato il placet sull’area prescelta, in territorio urbani, con gli allacci regolari a rete fognaria e forniture idriche. Da Roma invieranno container per oltre 100 migranti, noi abbiamo a disposizione docce e bagni già funzionanti per offrire condizioni igieniche decenti»



Una piccola chance nella corsa ad ostacoli per regolarizzarsi

l'Unità, 08-01-2011
Il decreto flussi sarà utilizzato da molte persone straniere come una sorta di sanatoria, ovvero come la possibilità di regolarizzare, con l’ottenimento del permesso di soggiorno, la presenza già in corso sul territorio italiano. Infatti molti lavoratori presenti in Italia, d’intesa con il datore di lavoro, il 31 gennaio saranno pronti a “cliccare” sull’apposito tasto di invio, per far partire la domanda e sperare di “vincere una quota”.
Ma l’essere già presenti sul territorio non costituisce una via preferenziale, tutt’altro. Infatti chi riesce a ottenere un posto deve comunque lasciare l’Italia e ritirare il visto per rientrarvi presso l’ambasciata italiana nel paese di origine rischiando, nei passaggi di frontiera, di incorrere in un controllo. E questo potrebbe avere come conseguenza l’espulsione con divieto di ritorno per 10 anni. Dal momento che molti sanno della funzione di sanatoria che svolge il decreto flussi, perché non adottare un provvedimento che renda meno rischiosa l’entrata e l’uscita dal paese per chi ha già ottenuto un visto di ingresso regolare in Italia pur destinato a scadere? Un provvedimento, cioè, che eviti l’espulsione coatta e il divieto di reingresso. Una possibilità consiste nell’applicazione della direttiva 2008/115/CE in cui all’articolo 7 si legge che la misura coercitiva, in caso di uscita volontaria va applicata solo “se sussiste il rischio di fuga”. E l’articolo 11 prevede che il reingresso sia possibile nei casi di rimpatrio volontario. Insomma, sarà pure poca cosa l’opportunità offerta da quella direttiva, ma utile comunque a far sì che i flussi siano meno un’affannosa corsa ad ostacoli e più un percorso di regolare integrazione.



Quelle battaglie nella terra di nessuno che alimentano la frontiera dell'odio

Gli insulti nei blog dell'ultradestra: "È una venduta comunista". Il suo collegio elettorale è quello al confine con il Messico dove ogni notte transitano e spesso muoiono i clandestini che tentano di entrare nel Paese dei loro sogni
la Repubblica, 09-01-2011
VITTORIO ZUCCONI
ERA da poco passato mezzogiorno, nell'Arizona dove il sangue bolle più in fretta del tè e le pistole parlano più forte della legge, quando Gabrielle Giffords, una parlamentare democratica, è stata abbattuta da un proiettile in testa sparato a bruciapelo all'aperto 1, durante un comizio. Almeno altre 17 persone presenti sono state raggiunte nella tempesta di proiettili sparate da una pistola mitragliatrice.
Sei sono morte e tra loro un bambino di nove anni. Ore e ore di intervento disperato al cervello dell'onorevole Giffords nell'ospedale della città di Tucson, l'hanno lasciata in condizione critiche, prima data per morta, poi in fin di vita, poi con buone prospettive di sopravvivere secondo l'annuncio del chirurgo.
È stato un mezzogiorno di fuoco autentico, da western della nuova politica impazzita, davanti a un negozio di alimentari in un modesto shopping center, in queste località un tempo chiamate "territori del New Mexico", non per caso utilizzate dal cinema come fondale per la storia di violenza e di giustizia sommaria che hanno costruito la frontiere del west e del sud ovest. Nei dubbi, e nelle speranze, che ancora circondano la sorte di questa donna rieletta alla Camera dei Deputati appena tre mesi or sono dopo una furibonda battaglia elettorale contro uno dei più fanatici campioni del "partito del tè" più estremo che ha richiesto tre giorni di riconteggio per assegnarle
il seggio per pochi voti, l'attentato sembra quasi una notizia attesa, un evento tragicamente prevedibile nel clima arroventato di odio che gli ultimi anni, e l'avvento del movimentismo degli ultrà della destra gonfi di rabbia, hanno generato.
Il collegio elettorale della Giffords è l'ottavo, che copre la terra quasi di nessuno fra i Messico e l'Arizona, il luogo dal quale transitano ogni notte, e spesso muoiono, i clandestini che corrono fra i cactus e i serpenti a sonagli seguendo le guide, i coyote, che spesso li abbandono a morire di sete. L'avversario della Giffords, il repubblicano Jesse Kelly, aveva ottenuto l'investitura della santa patrona dei nuovo ultrà, la cacciatrice di renne Sarah Palin, e poche settimane prima del voto aveva organizzato una "pubblica sparatoria" invitando i partecipanti a "eliminare la Giffords anche con i fucili". Non è lui, Kelly lo sconfitto, ad essere stato arrestato come sospetto per la sparatoria, e l'identità del possibile attentatore che doveva possedere armi automatiche per compiere una tale strage, è tenuta segreta. Ma questa, nell'Arizona dell'estrema frontiera davanti all'immigrazione legale e illegale, nello stato dove tutto si arroventa come la sabbia del deserto di Sonora che separa Tucson dal Messico, è la febbre che sta divorando di rabbia e di odio i cittadini e sta infettando l'America. E la storia americana insegna che appiccare incendi di rabbia e di odio ideologico o razziale inevitabilmente conduce all'omicidio politico.
L'indignazione e le condanne ufficiali che hanno accompagnato le ore di attesa per l'esito dell'intervento sulla Giffords e la sorte dei molti feriti gravi, la definizione di "attacco spregevole" venuta dal presidente Obama che è stato avvertito mentre assisteva con la figlia Malia a un incontro di basket e di "gesto insensato contro tutti noi" diffusa dal nuovo presidente della Camera appena insediata, il repubblicano moderato John Boehner non cambiano e non cambieranno nulla in quell'Arizona che vive il dramma insolubile dell'immigrazione e la lotta politica nel forno di passioni eccitate dalla diffusioni universale di armi. Insieme con l'Alaska e il Vermont, l'Arizona permette il trasporto di armi da fuoco nascoste senza licenza e le armi hanno il difetto di sparare e uccidere facilmente.
L'incontro politico, il piccolo comizio che la Giffords aveva organizzato in un anonimo centro commerciale di Tucson, una città di un milione di abitanti dove ormai i "bianchi non di origine ispanica" sono il 49% della popolazione, dunque minoranza, non aveva nessuna pretesa di speciale protesta, ma semmai di conferma della popolarità della deputata, forte di una posizione che ovunque apparirebbe fortemente centrista, ma che nell'allucinazione xenofoba o anti democratica che ha afferrato tanti cittadini, dovevano sembrare scandalosamente di sinistra.
Tra il pubblico che assisteva all'incontro, c'erano bambini, madri con neonati, latinos e persino un giudice della Corte Federale, la più alta magistratura. Anche il bambino e il giudice sono stati uccisi.
La piccola Kennedy dell'Arizona, la deputata, è sposata con un ufficiale dell'aeronautica in servizi attivo, Kelly, che ha combattuto in Iraq ed è parte della squadra di aviatori impiegati dalla Nasa per spedizioni nello spazio. Aveva sempre votato per il rifinanziamento dell'occupazione e delle guerra in Iraq e Afghanistan, aveva applaudito la decisione di utilizzare la Guardia Nazionale, l'esercito territoriale che ogni Stato arma, per controllare la frontiera con il Messico ad appena 100 chilometri da Tucson, ma era - e forse questa è la "colpa" che ha mosso il criminale - dichiaratamente ambientalista, favorevole al finanziamento pubblico delle ricerche sulle staminali embrionali e contraria alla inaudita legge dell'Arizona che permette alla polizia di arrestare chiunque appaia, si noti, appaia come un immigrato senza documenti. Questo in una città e in uno stato, dove il 33 per cento della popolazione, una persona su tre, ha sangue latino nelle vene. In Arizona, nella contea di Mariposa, regna da anni come un commissario politico, il famigerato sceriffo Arpajo, implacabile persecutore di forestieri.
Sui blog dei fanatici di destra, come nella campagna elettorale furibonda condotta dal campione sconfitto del "partito del tè", la Giffords era stata variamente descritta come "un clown", un "perfetto esempio degli idioti che ci governano da Washington", una "comunista venduta ai trafficanti di uomini", "un'assassina di bambini non nati" (gli embrioni) o, trattandosi di una donna, come l'immancabile "puttana delle lobby".
Si saprà domani soltanto quali danni abbia fatto il proiettile che attraversato il cranio di Gaby Giffords, anche se il capo del team di neurochirurghi che l'hanno operata sono "ottimisti" sulla sopravvivenza di una donna colpevole di null'altro che di non essere una fanatica xenofoba. Sembra quasi una piccola ricompensa del destino, il fatto che il capo dei chirurghi che potrebbero averle salvato la vita sia un straniero, un immigrato venuto da lontano.



La piccola dominicana che lotta per i sans papier

Francia, 16 anni, difende gli immigrati da Haiti "Schiavi invisibili che lavorano per tre euro"
La Stampa, 10-01-2011
ALBERTO SIMONI INVIATO A BARAHONA (Rep. Dominicana)
E  un giorno fortunato quando nella ciotola di riso c'è anche del pesce. Pesci minuscoli, di quelli che i pescherecci che alimentano i mercati occidentali ributterebbero a mare. Nel «Batey Cuchilla» invece questi pesciolini e il riso significano sopravvivenza. Repubblica Dominicana, appena al di là del confine con Haiti. La terra è punteggiata di «batey», comunità di lavoratori che da punto di vista giuridico non esistono. Non sono nulla né per lo Stato dove vivono, la Repubblica Dominicana, e nemmeno per quello dove sono nati i loro genitori, la vicina Haiti. Vivono in un limbo giuridico, «una situazione di irregolarità permanente» l'ha definita la Corte Interamericana dei Diritti dell'Uomo. Senza documenti non c'è identità, senza identità non c'è alcun diritto. E senza diritti si è alla mercé di sfruttatori e di chi nei «bateyes» decide vita e morte, regole e leggi per i tagliatori di zucchero. Lavoro massacrante, per 168 pesos al giorno, 3 euro.
Francia Simon ha 16 anni e fino al mese scorso il suo sguardo non valicava il perimetro del «Batey Cuchilla», comunità di circa cinquecento persone. Vive lì con la madre e due fratelli. La chiamano «La fuerta», gioca a calcio e a baseball con i ragazzi, e già questo in un Paese in cui il machismo è quasi una «religione», la dice lunga sulla sua tempra. Una ragazza un po' speciale se il 29 novembre all'Aja ha ricevuto l'lnternational Children Peace Prize, il Nobel per la Pace per i giovani, emanazione di quello dei «Grandi», la cui istituzione si deve proprio a una decisione di alcuni Nobel «veri».
Lo inaugurò Mikhail Gorbaciov nel 2005. Quest'anno la medaglia è andata a Francia. Viaggio in Olanda, ritiro del premio consegnatole da Rigoberta Menchù e ritorno a casa. Sotto lo sguardo vigile di una Ong Usa, World Vision che l'ha proposta per la nomination e ora ne cura la sicurezza e l'istruzione in un liceo, il succo della vittoria. Francia però è divenuta suo malgrado un personaggio scomodo. Le radio locali, unico veicolo di informazione (e propaganda) non appena si è diffusa la notizia della sua vittoria, si sono scatenate: «È una negra», «non è dominicana, non rappresenta il nostro popolo», il tono di alcuni commenti. Per ora, spiega Domenico Abbate, volontario italiano impegnato in prima linea per aiutare i «batey», «non ci sono state minacce fisiche, ma il clima è pesante. Stiamo spiegando a Francia cosa sta succedendo».
La sua vita è stata travolta da un uragano, l'Olanda per lei, dice Abbate, «significa freddo» e nemmeno sa sulla cartina dove si «trovino i Paesi bassi». Realtà lontana per una adolescente vissuta fra le mura del «batey», la discriminazione come compagna, la fame come nemica. Il merito della sua vittoria sta nell'aver aiutato 136 persone a ritrovare l'identità. C'è un buco nella Costituzione dominicana che consente ai lavoratori dei «batey» di chiedere la cittadinanza. Un buco che qualcuno ha scoperto.
L'iter burocratico è lungo e non esente da trappole, volutamente piazzate dalle autorità locali che temono l'invasione dei «sans papier». Francia ha studiato la legge, e aiutato le persone a richiedere questa «Declaraciòn Tardìa de acta de nacimiento», apripista per poter diventare cittadini. Azione di sfida già di per sé ritenuta «una colpa» dai dominicani. Che considerano i «batey» zona off limits dove poter sfruttare manodopera a costo zero e offrire zero servizi. Parlare dei «batey», rivelarne le misere e disumane condizioni di vita è un rischio. Chi si ribella, confessano alcune fonti locali dietro anonimato, «viene maltrattato e viene buttato dall'altra parte del confine. Molta gente è sparita, e chi viene sorpreso fuori da queste bidonville ai check-point è costretto a pagare un dazio».
Clima del terrore costato l'espulsione in passato anche a due religiosi occidentali che avevano osato rivelare l'esistenza di queste bidonville. Per questo la vittoria di Francia è scomoda, per questo i «caporali» del luogo la vorrebbero ridurre al silenzio e far scendere il sipario sulla sua storia di riscatto. Che potrebbe significare un domani la vittoria del popolo dei «batey».


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