La scelta di Jean Claude camerunense e giornalista

 

Osservatorio Italia-razzismo 
Lo scorso 3 maggio è stata celebrata la giornata mondiale della libertà di stampa. Una giornata, questa, voluta dall'Unesco che, per l'occasione, dal 1997 conferisce il premio Guillermo Cano World Press Freedom Prize a persone, organizzazioni o istituzioni che hanno dato un contributo evidente alla difesa e/o alla promozione della libertà di stampa ovunque nel mondo, specialmente dove essa è minacciata. Il nome del premio non è affatto casuale. 
È quello di un giornalista colombiano assassinato nel 1986 all'ingresso della sede del giornale  El Espectador, per cui lavorava. 
Il motivo dell'omicidio è legato all’inchiesta sui traffici di droga in Colombia che portava avanti con non poche difficoltà. La storia di Cano non è unica, purtroppo. Nel 2012, secondo la Federazione internazionale dei Giornalisti di Bruxelles, sono 121 le persone uccise per ragioni legate allo svolgimento del mestiere del giornalista. Una cifra drammatica che fa capire quanto ancora c’è da fare perché il diritto alla libertà di stampa possa essere pienamente esercitato. Le vittime di questa negazione, però, non sono solo quelle che perdono la vita. Ci sono molti giornalisti che a quella sorte riescono a scampare, ma si trovano costretti a fuggire anche dal loro Paese per chiedere asilo altrove. Di essi non si conosce il numero perché, una volta giunti nel nuovo Stato, preferiscono mantenere l'anonimato. Ciò accade soprattutto dove non esistono particolari forme di tutela per chi appartiene a quella categoria, come in Italia. Qui, infatti, i giornalisti sono inseriti nei normali circuiti di accoglienza in cui convivono con molti altri richiedenti asilo o rifugiati, e in cui il rischio di essere riconosciuti, e minacciati o perseguitati, dai loro connazionali è davvero alto. Ma non solo. Quegli stessi connazionali potrebbero addirittura rappresentare una reale minaccia per la loro incolumità in quanto possibili spie di governi ancora in carica nei paesi d'origine. È questo che motiva il perpetuarsi della condizione di fuga da parte dei giornalisti rifugiati, costretti a nascondersi, mascherarsi e - perché capita anche questo - negare la propria identità. Ciò significa che, il fatto di decidere se richiedere o meno il riconoscimento della professione in Italia, diventa una scelta da ponderare molto dettagliatamente sia perché si tratterebbe di uscire allo scoperto e, dunque, rischiare; sia perché la procedura burocratica è molto lunga. Ma qualcuno di temerario c'è. Un paio di settimane fa, Jean Claude Mbede, giornalista camerunense rifugiato in Italia dal 2008, si è iscritto all'Ordine nazionale dei giornalisti professionisti. È la prima volta che in Italia accade un fatto del genere e, si spera, che non rimanga l'unico. Se così fosse il nostro Paese perderebbe tanto in termini di competenze. Queste persone, infatti, sono assolutamente preparate sulla situazione politica e sociale di paesi di cui, qui, si parla ancora poco.  
10 maggio 2013
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