Ma quale accoglienza può esserci nei centri dove si vive rinchiusi?

 

Osservatorio Italia-razzismo 30 agosto 2011
Il regime di Gheddafi ha usato il tema degli sbarchi per minacciare l’Italia. Così come alcuni politici hanno usato gli sbarchi per tenere sotto scacco gli italiani. O meglio: si sono dati da fare perché non ci fosse la minima razionalizzazione del fenomeno degli “sbarchi” e degli “sbarcati”. I numeri che ne descrivono l’entità, quando vengono elencati non sono quasi mai accompagnati da spiegazioni che ne dimostrino la governabilità. 
Ovvero la possibilità di una loro equilibrata distribuzione sul territorio. Le oltre 50mila persone arrivate sono state sistemate in centri, indicati con diversi acronimi che si sono moltiplicati negli ultimi mesi. Ciò ha fatto pensare a un sistema complesso di accoglienza in grado di assecondare la differente durata temporale della permanenza sul territorio, ma non è stato così. Non si vuole generalizzare, ma pare che le differenze tra i centri, si possano ridurre alla sigla, perché come è emerso dai numerosi dossier, le condizioni materiali e psicologiche in cui vivono le persone lì “ospitate”, sono disperate a prescindere dal nome del luogo. Il fatto che siano “rinchiusi” trasmette sicurezza maggiore di quella che si proverebbe se li si pensasse “liberi di muoversi”. Una paura che, come dimostrano altre vicende, ha poco a che vedere con la maggiore o minore familiarità col fenomeno. A Treviso, il comune si è rifiutato di concedere uno spazio ai musulmani bengalesi per i festeggiamenti della fine del Ramadan, costringendo i fedeli a riunirsi in un altro paese. Apparentemente la negazione di un diritto come quello alla professione della propria fede sembrerebbe non incidere sulla vita sociale e invece la somma di atti come questi, tanto più se frutto di decisioni istituzionali, influisce pesantemente sulla relazione tra vecchi e nuovi residenti.
 
 
 
Share/Save/Bookmark