Quando lo straniero cambia i consumi

Italia-razzismo
Qualche giorno fa è stato presentato a Roma il Rapporto Immigrazione e Imprenditoria 2014 del Centro studi e ricerche Idos. I dati raccolti descrivono la vivacità degli imprenditori stranieri, le cui attività sono cresciute del 9,5% tra la fine del 2011 e il 2013, a differenza delle imprese italiane che in quello stesso periodo hanno registrato un calo dell’1,6%. Le ditte straniere sono poco meno di mezzo milione (esattamente 497.080) e rappresentano l’8,2 per cento di tutte le imprese presenti nel territorio nazionale. 
Sono per lo più (94%) imprese individuali condotte esclusivamente da un titolare immigrato che non è socio di un italiano, come accade con società cooperative. Anch’esse, comunque, aumentate del 15,9%. L’analisi del fenomeno ha rilevato una corrispondenza tra settore e nazionalità dell’imprenditore: ovvero che a una determinata provenienza corrisponde una precisa attività. Ed ecco che allora le imprese manifatturiere di origine straniera sono gestite da cinesi (48,9 per cento), quasi un terzo (29,2 per cento) delle attività commerciali è diretta dai marocchini e la stessa percentuale riferita al settore edile è guidata dai romeni. Nella ristorazione i cinesi restano i primi seguiti dai bengalesi (col 18,6 per cento) che primeggiano nei servizi.
Come si spiega una tale corrispondenza? E qual è la ragione di una costante crescita delle piccole aziende condotte da imprenditori non italiani, in una congiuntura segnata così profondamente dalla crisi globale, e dalla riduzione altrettanto costante del numero di imprese italiane? Molti i motivi. Il principale fattore di agevolazione dello sviluppo delle imprese con titolare straniero è rappresentato dall’ambiente. Ovvero dal fatto che nascono e vivono all’interno di una rete «di comunità» (intesa in senso ampio e non rigido) e che utilizzano tutte le opportunità dalla stessa offerte, seguendo e sollecitando la curva della domanda nelle fasi di espansione e facendosene proteggere nelle fasi di rallentamento. Ne discende, per molte di quelle imprese, qualcosa di assimilabile a una specializzazione etnica: un numero ristretto di settori di impiego, il ricorso a manodopera costituita in gran parte da connazionali, spesso esclusi da qualunque regolamentazione di natura contrattuale, salariale e previdenziale, e - ecco un fenomeno in forte
espansione - la produzione e la commercializzazione di merci tipiche dei paesi di provenienza (abbigliamento, alimenti). In quest’ultimo caso, tali imprese soddisfano una richiesta di prodotti etnici che giunge sia dai connazionali presenti nel nostro paese, sia da un numero crescente di italiani. L’interesse per i prodotti «etnici», soprattutto quelli alimentari, è dimostrato dal sempre più frequente ingresso degli stessi nel circuito della grande distribuzione. Si pensi al reparto «dolci del Ramadan» nei supermercati Auchan e Coop, e a quello della carne halal.
Ciò indica come la presenza di stranieri produce nuove domande e nuovi consumi. Ma soprattutto descrive bene il mutamento della nostra società.
l'Unità, 17-07-14
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