Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

16 luglio 2010

Angoscia a Tripoli: retata tra gli eritrei, imposta una «tassa sulla libertà» di 800 dollari
l'Unità 16 luglio 2010
Umberto De Giovannangeli
Europarlamentari Pd: «Il governo italiano è responsabile della vita di quei profughi»
Già cinque desaparecidos nel lager libico di Brak
Altro che liberazione. Dal lager di Brak filtrano notizie drammatiche: persone scomparse, identificazioni forzate, mancanza di cure per i feriti... L'appello: «Non lasciateci ancora nelle mani dei militari libici».
Cinque «desaparecidos». Una «tassa per la libertà» di 800 dollari a testa. E questa la chiamano «libera-zione». L'odissea dei 245 eritrei detenuti nel lager di Brak, nel sud della Libia», è tutt'altro che conclusa. Le testimonianze raccolte da Mus-sie Zerai - il coraggioso sacerdote eritreo, responsabile dell'ong Ha-besha, un'associazione che si occupa di accoglienza dei migranti africani in Italia - raccontano tutt'altra storia di quella, a lieto fine, propinata dal ministero degli Esteri, Franco Frattini.
AIUTATECI
Zerai ha avuto modo di contattare telefonicamente, l'altra sera, alcuni degli eritrei incarcerati a Brak. Il quadro che ne emerge è preoccupante: nessuno è stato liberato. Li stanno schedando, e nulla, ma proprio nulla è cambiato nella loro condizione: cibo e acqua scarseggiano, continuano ad essere ammassati in due stanzette, i feriti non ricevano cure medi¬che. E alcuni scompaiono, senza far più ritorno. A quanto risulta a l'Unità, dall'inizio di questa drammatica vicenda, più di due settimane fa, sono almeno 5 i «desaparecidos». Dei cinque non si hanno più notizie. C'è chi teme che siano stati uccisi- L'appello che esce dal carcere di Brak è disperato: «Non lasciateci nelle mani dei militari libici. Chiediamo che funzionari dell'Unhcr (l'Agenzia Onu per i Rifugiati, ndr) o dell'ambasciata italiana o di un Paese terzo visitino il carcere in cui siamo ancora segregati per rendersi conto di come veniamo trattati, peggio delle bestie...». Questa è la realtà. La richiesta dei segregati di Brak è sempre al stessa: il riconoscimento del loro diritto all'asilo. «Non siamo fuggiti dall'Eritrea per cercare un lavoro - ripetono - siamo fuggiti da un regime tirannico, che oggi tiene in ostaggio le nostre famiglie...». Questa è la realtà, ministro Frattini. E questi, ad oggi, sono i risultati raggiunti dalla «preziosa mediazione» italiana. A vergogna si aggiunge vergogna.
TASSA SULLA LIBERTÀ
Nelle stesse ore in cui Muammar Gheddafi ordinava l'apertura di una indagine sugli eritrei in Libia - notizia rilanciata con grande enfasi dalle agenzie stampa internazionali e riportata con altrettanta enfasi da giornali in precedenza «disattenti» sulla deportazione dei 250 eritrei -in quelle ore, a quanto risulta a l'Unità da testimonianze attendibili, a Tripoli veniva compiuta una retata nelle case di eritrei. Una retata mirata. Prelevati dalle loro abitazioni e portati in vari centri di detenzione. «Se volete uscire, dovete pagare 800 dollari» a testa: è il discorso che è stato fatto ad ognuno di loro. Una «tassa sulla libertà». Una vergogna nella vergogna.
«Le richieste di aiuto che arrivano dal carcere libico di Brak confermano ciò che da giorni gli eurodeputati del Pd denunciano, e cioè che il fantomatico accordo siglato dai ministri Frattini e Maroni per la liberazione dei 250 profughi "in cambio di lavoro" era non solo oscuro nelle sue modalità, ma anche assolutamente insufficiente a far ritenere chiusa una vicenda tanto drammatica». A sostenerlo sono i parlamentari europei del Pd David Sassoli, Silvia Costa, Rita Borsellino, Patrizia Toia, Sergio Cofferati e Andrea Cozzolino, secondo cui «sarebbe grave se il governo italiano, distratto da lacerazioni interne e rincorso da voci di una sua imminente caduta, facesse scivolare tra i refusi un episodio di cui è direttamente responsabile e che riguarda la vita di centinaia di persone richiedenti asilo». «È adesso più che mai importante che la commissaria agli Affari interni Cecilia Malmstrom e quella ai diritti umani Viviane Reding si adoperino senza tentennamenti, a partire dal Consiglio informale Giustizia e affari interni in programma quest'oggi (ieri, ndr), per verificare concretamente la condizione dei rifugiati nel carcere di Brak e per accertare oltre ogni ragionevole dubbio se i respingimenti siano avvenuti nel rispetto degli accordi internazionali - continuano gli eurodeputati - Chiediamo alla Commissione di verificare direttamente le condizioni in cui versano i profughi. L'Europa o saprà concretamente fondarsi sul rispetto dei diritti umani o non sarà, e questa vicenda rappresenta, per tutti noi che scommettiamo con convinzione sul suo futuro, una prova decisiva». La stessa richiesta è stata avanzata unitariamente dalla La Sinistra unitaria del Gue, i Socialisti e democratici del S&D, i Verdi ed i Liberaldemocratici dell'Aide, tramite tramite una lettera in cui esprimono alla Malmstrom la loro «preoccupazione di fronte alle nuove accuse apparse sulla stampa italiana». ?



L'allarme della Fondazione Kennedy

l'Unità 16 luglio 2010
Eritrei prigionieri in Libia: "La libertà si predica, l'ingiustizia si pratica" La "Robert F. Kennedy Foundation of Europe" esprime il proprio dissenso rispetto alla gestione della questione dei cittadini eritrei prigionieri a Brak, in Libia.
È di oggi la notizia, ripresa dalla stampa nazionale, che i cittadini eritrei prigionieri in Libia non siano stati liberati, ma versino ancora in condizioni disumane presso il campo "lager" di Brak. Secondo le testimonianze rese da alcuni prigionieri, a Brak mancano cibo, acqua e assistenza medica. Pochi giorni fa alcuni esponenti istituzionali si erano affrettati a proclamare una presunta libertà concessa ai prigionieri eritrei, in cambio di imprecisate attività lavorative da effettuarsi secondo le rigide indicazioni del governo libico. Una parte dei rifugiati, attualmente prigionieri in Libia, era stata in precedenza respinta dalle forze di sicurezza italiane. È necessario che venga fatta maggiore chiarezza sui criteri in base ai quali opera il respingimento effettuato dalle autorità nazionali italiane. Se appariva inaccettabile che la libertà fosse stata concessa ai rifugiati come corrispettivo di lavori "sociali" non meglio chiariti, ancora più inaccettabile risulta ora il fatto che, secondo recenti testimonianze, nessun cittadino eritreo sia stato liberato.
La Fondazione Kennedy, sempre sensibile e attenta al rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo, come la sicurezza della persona e la libertà dalle torture e dai trattamenti degradanti, esprime fermamente il proprio sdegno per la condizione in cui il governo libico ha costretto, in stato di prigionia, i circa 250 rifugiati. Non può essere ulteriormente tollerato un tale abuso dei diritti umani. La Fondazione Kennedy si appella pertanto alle istituzioni europee, italiane e libiche, affinché si riesca a garantire ai rifugiati la tutela dei loro diritti, sanciti dalla Convenzione di Ginevra del 1951. Ai cittadini eritrei deve essere concessa una libertà effettiva e non condizionata a contropartite poco chiare ed elusive del rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo.



Ecco il video dei respinti

Stefano Liberti
Il Manifesto del 13 luglio 2010
Un video smentisce le bugie dette dal Viminale sui rifugiati eritrei detenuti in Libia. Il filmato, arrivato al manifesto da Tripoli, mostra una motovedetta della Marina militare italiana affiancare un’imbarcazione carica di immigrati per respingerla in Libia. A bordo ci sono alcuni degli eritrei oggi rinchiusi a Braq L’immagine è nitida. Alcune decine di ragazzi su una barca, tutti muniti di giubbotto salvagente. Hanno lo sguardo sorridente, quasi sollevato. Festeggiano e gridano: «Italia, Italia». Poco dopo, spunta sullo schermo una grande nave della nostra marina militare. È grigia e sul fianco ha la sigla P410. Si muove verso la barca con a bordo i ragazzi. I loro volti continuano a esprimere gioia. Un gommone con la scritta «marina militare» si stacca e si avvicina al natante in difficoltà. A bordo alcuni italiani in uniforme lanciano bottiglie d’acqua alle persone a bordo. Poi il video dissolve. L’epilogo non si vede, ma ce lo hanno raccontato nei dettagli molti di quei ragazzi. Come già scritto sul manifesto del 6 luglio scorso, i passeggeri della barca sono stati inizialmente trasbordati sulla nave grande per essere rifocillati. E poi sono stati riportati al putno di partenza, nella città costiera di Zuwarah. Un viaggio a ritroso tanto più beffardo in quanto è stato condotto con l’inganno: «Ci hanno detto che ci stavamo dirigendo in Italia, che saremmo potuti arrivare a Roma o Milano, invece hanno fatto rotta verso sud», ci ha raccontato più di uno dei partecipanti a quel viaggio.
La barca era a 30 miglia da Lampedusa, cioè molto vicina alle acque territoriali italiane. Ma, in virtù della nuova politica inaugurata nel maggio del 2009, i viaggiatori sono stati riportati in Libia, senza preoccuparsi di capire se sullo scafo ci fossero potenziali richiedenti asilo. La traversata in senso inverso si è conclusa malamente più di 12 ore dopo, quando la barca P410 ha consegnato il suo carico umano a una motovedetta libica al limitare delle acque territoriali della Jamahiriya. La nave libica è poi approdata al porto di Zuwarah, sulla costa della Tripolitania, e gli 82 viaggiatori - 76 eritrei, tre etiopi e tre egiziani - sono stati portati in due diversi centri di detenzione.

Il video - che ci è stato recapitato attraverso internet da uno degli sventurati partecipanti a quel viaggio, oggi a Tripoli dopo aver trascorso diversi mesi nel centro di prigionia Misratah - è la prova che smentisce il nostro governo. «Non è dimostrabile che i ragazzi chiusi a Braq sono stati respinti dall’Italia», ha detto nei giorni scorsi il ministro degli interni Roberto Maroni. Noi sappiamo che 11 dei reclusi di Braq hanno partecipato a quel viaggio. Abbiamo i loro nomi e i loro cognomi. Le loro storie sono state registrate sia nel campo di Misratah, dove sono stati portati un mese dopo il respingimento, sia nell’ufficio di Tripoli dell’Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati (Unhcr).

Adesso ci sono anche i loro volti. Se il governo volesse, potrebbe fare le opportune verifiche incrociate. E scoprire che gli 82 viaggiatori, tra cui nove donne e tre bambini, sono tutti ancora in Libia. Undici sono nel gruppo dei 205 eritrei che il 30 giugno scorso sono stati trasportati a Braq come «punizione» per essersi rifiutati di riempire dei formulari in tigrino, temendo di venire deportati in Eritrea. Alcuni altri sono riusciti a uscire dal centro di Misratah e vivono oggi a Tripoli nascosti, temendo un nuovo arresto. Altri ancora sono in altri centri di detenzione nella Jamahiriya.

Ma quello del 1° luglio non è il solo respingimento che riguarda da vicino i 205 ragazzi eritrei rinchiusi da ormai quasi due settimane nel carcere di Braq. Un altro è avvenuto l’8 settembre. Un’altra nave italiana, questa volta più vicina alle coste della Libia. Li ha raccolti e consegnati alle autorità di Tripoli. Quarantotto di quei respinti sono oggi nel centro di detenzione nel sud della Libia. Il 21 novembre, un’altra operazione. Questa volta fatta in maniera diversa: una barca carica di 86 persone - tutti eritrei e somali - è alla deriva in acque internazionali. Sono a circa 60 miglia da Lampedusa, nelle cosiddette acque Sar (ricerca e soccorso) di competenza maltese. Solo il giorno precedente un’altra imbarcazione era riuscita ad approdare a Pozzallo, in provincia di Ragusa, con a bordo circa 200 eritrei. Troppi per un governo che ha fatto della cancellazione degli sbarchi una priorità. Così, questa volta gli italiani decidono di non intervenire. Chiamano i libici e dicono loro di venirsi a riprendere il carico di viaggiatori, nonostante la barca si trovi a 120 miglia dalle coste della Jamahiriya. Dopo diverse ore arriva una motovedetta libica (la Zwara) e riporta nel paese arabo tutti i migranti. Quarantaquattro di loro sono oggi nel carcere di Braq. A quanto ha scritto all’epoca il quotidiano della Valletta Times of Malta, «le autorità di soccorso di Messina e Palermo hanno coordinato l’operazione con le autorità libiche, e mantenuto il contatto con il Centro di coordinamento del soccorso delle forze armate maltesi». Il che vuol dire che gli italiani (e i maltesi) non hanno solo violato la Convenzione di Ginevra, che vieta di respingere verso paesi non sicuri potenziali richiedenti asilo, ma anche le regole del diritto marittimo, dal momento che non hanno prestato soccorso a una barca in difficoltà e l’hanno esposta a ulteriori rischi durante l’attesa dell’intervento della motovedetta libica.

Secondo il sito Fortress Europe, osservatorio sulle vittime dell’emigrazione, sarebbero 1409 i «respinti» nel canale di Sicilia dal maggio 2009. Di questi - le cifre sono state fornite dallo stesso governo libico - 245 erano eritrei. A Braq, secondo le cifre in nostro possesso, ce ne sono 103, vittime dei tre respingimenti sopra citati. Non avendo firmato la Convenzione di Ginevra del 1951, la Libia non riconosce il diritto d’asilo. Tanto che, coerentemente, non definisce i cittadini eritrei «richiedenti asilo», ma «immigrati illegali». L’Italia, che invece ha firmato la Convenzione di Ginevra, li respinge in mare. E continuerà a farlo: nella finanziaria appena approvata sono previsti 2 milioni di euro «per la proroga della partecipazione di personale del Corpo della guardia di finanza alla missione in Libia in esecuzione degli accordi di cooperazione sottoscritti tra la Repubblica italiana e la Grande Giamahiria araba libica popolare socialista per fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione clandestina e della tratta degli esseri umani».

-  [ Guarda il video ]




I reati? Non hanno colore

Valerio Onida
il Sole 24Ore   16 luglio 2010
Complice forse la giornata di "silenzio stampa" del 9 luglio, non hanno avuto molta eco finora due sentenze della Corte costituzionale in tema di immigrazione irregolare depositate l'8 luglio. La prima dichiara l'illegittimità costituzionale della norma, contenuta nel primo "pacchetto sicurezza" del 2008, che aveva introdotto l'aggravante dei reati, consistente nell'essere stati commessi da persona che si trova illegalmente sul territorio nazionale. Qualunque reato era punito più gravemente (con un aumento della pena fino a un terzo) se commesso da uno straniero extracomunitario in situazione di irregolarità.

La seconda sentenza dichiara invece non fondate o inammissibili le questioni di costituzionalità sul nuovo reato di ingresso o trattenimento nel territorio dello stato in violazione delle norme sull'immigrazione, introdotto e punito (con l'ammenda da 5 a 10mila euro) dal secondo "pacchetto sicurezza" del 2009.

Sul piano generale, la prima cosa da segnalare con soddisfazione è che la giustizia costituzionale ha fatto il suo corso: magari un poco tardi (due anni dopo l'approvazione della legge, nel caso dell'aggravante), ma viene restaurato il primato dei valori costituzionali. Commentiamo qui la prima delle due decisioni, riservandoci di farlo per la seconda in un successivo intervento.

Con la prima sentenza è dunque caduta una misura imposta in Parlamento con la forza dei numeri da una maggioranza vittima della nuova ideologia anti-immigrati, in contrasto palese con i fondamenti e i limiti costituzionali del diritto penale. Nessuno poteva pensare che la minaccia dell'aggravante costituisse una efficace dissuasione dal commettere reati, che sono comunque puniti. Essa aveva il solo senso di un messaggio all'opinione pubblica e agli elettori: gli immigrati "irregolari" non sono persone da trattare (e da sanzionare, se commettono illeciti) come le altre, ma costituiscono con la loro sola presenza un pericolo per la società.

Questa ideologia distoglie l'attenzione dalle ragioni di fondo dei flussi migratori e dalla considerazione dei modi corretti per governarli, salvaguardando i beni e i diritti costituzionalmente rilevanti (attraverso una saggia politica dell'immigrazione legale, e la lotta a tutte le forme di "sommerso", dal lavoro nero alla criminalità organizzata, che di fatto alimentano in larga misura la irregolarità).
La Corte ancora una volta ha applicato il principio costituzionale che è a base di tutti gli altri, l'eguaglianza «senza distinzione... di condizioni personali e sociali» (articolo 3 della Costituzione). Ha ribadito la inammissibilità di norme penali che attribuiscano rilevanza - indipendentemente dalla necessità di salvaguardare altri interessi di rilievo costituzionale - a una qualità personale e la trasformino in un vero segno distintivo delle persone rientranti in una data categoria, in uno "stigma"; che la violazione delle norme sul controllo dei flussi migratori «non può introdurre automaticamente e preventivamente un giudizio di pericolosità del soggetto responsabile»; che ciò contrasta anche con il principio costituzionale di legalità dei reati e delle pene, per cui si punisce il soggetto per le condotte illecite tenute e non «per le sue qualità personali». Ha sottolineato infine che l'introduzione successiva del reato di immigrazione irregolare peggiorava ulteriormente la situazione, perché portava a una doppia penalizzazione (autonoma, e a titolo di aggravante) della stessa condotta.

Ciò significa che lo stato italiano deve divenire più "permissivo" in tema di contrasto alla immigrazione irregolare? Certamente no. Vuol dire solamente che deve smettere di considerare l'immigrazione irregolare come un problema soprattutto di ordine pubblico, da affrontare ampliando il ventaglio degli strumenti repressivi penali. Questo atteggiamento porta a distorcere la realtà e a corrompere i principi della politica criminale. Per altro verso, porta a vantarsi dei respingimenti in mare delle barche dei disperati, che, per "proteggere" le nostre coste, non esitano a mettere nelle mani di un regime come quello libico le sorti di esseri umani indifesi, mettendo fra parentesi i diritti umani. Porta a ignorare la grande varietà di situazioni e di circostanze che stanno dietro al fenomeno dell'immigrazione, e a "sparare nel mucchio".

Le altre strade ci sono. Sono più difficili, è vero, richiedono più coraggio, più inventiva, più realismo, più capacità tecniche, organizzative e politiche, più risorse. Soprattutto richiedono la volontà di guardare in faccia i problemi nelle loro dimensioni e nelle loro cause, e non di inseguire un "facile" consenso elettorale fondato sulla paura e sulla chiusura.




«E' rischio Rosarno nel centro immigrati di Palazzo San Gervasio»

la Gazzetta del mezzogiorno
PALAZZO S.GERVASIO (POTENZA) – C'è un nome che dalle parti di Palazzo San Gervasio, in Lucania, vogliono tenere lontano: è quello di Rosarno. Ma l’ombra che il nome di questa località evoca è insistente. A Palazzo, ogni anno, tra agosto e settembre arrivano centinaia di immigrati, attirati in questo lembo di Sud tra Lucania e Gargano dai pomodori maturi, pronti per la raccolta.

E dal 1999 ad accoglierli trovano un capannone, una piccola palazzina e 15mila metri quadri di terreno con una tensostruttura. Un complesso che doveva ospitare un centro fieristico e si è trasformato invece in un rifugio di fortuna, dove, con una capienza massima di 250 persone, se ne ritrovano stipate 600, 1.000, nelle fasi di punta anche 1.400.

In quest’area convergono anche tanti lavoratori impegnati nei campi pugliesi. Sono uomini che vengono dal Marocco, dall’Ucraina, e poi Tunisia, Cina, Moldavia. Passano di qui prima di andare a raccogliere le arance in Calabria e in Sicilia. Nelle maglie di questo meccanismo trovano spazio tanto lavoro nero e la piaga del caporalato, italiano e straniero.

Il Comitato Schengen ha deciso di accendere un faro su questa situazione e oggi è andato in missione sul posto. Perché «bisogna evitare una nuova Rosarno», ha detto la presidente Margherita Boniver. Con lei c'erano il vice presidente, Ivano Strizzolo (Pd) e Vincenzo Taddei (Pdl), deputato lucano, anch’egli membro del Comitato, che chiede anche alla Regione Puglia di prendersi le proprie responsabilità.

«Qui non c'è un problema di ordine pubblico», hanno sottolineato tanto il prefetto, Luigi Riccio, quanto il questore, Romolo Panico. In effetti, non ci sono attriti tra la popolazione e i lavoratori stagionali. Ma è anche vero, come ricordano le stesse forze dell’ordine, che lo scorso settembre tre immigrati sono rimasti feriti, accoltellati in una rissa tra etnie scoppiata nel campo. Un campanello d’allarme che allora non ha fatto rumore. I fatti di Rosarno, con il cittadino del Togo ferito e le violente manifestazioni che seguirono, non erano ancora accaduti. Ora quell'ombra pesa.

A Palazzo la situazione è diversa, il centro non è contiguo al paese. Ma è comunque esplosiva: i servizi sanitari sono del tutto insufficienti, gli immigrati si ritrovano a dormire in tende e all’aperto. C'è chi togli i rubinetti ai lavandini e vende l'acqua. «E' una situazione limite», sintetizza il questore, preoccupato soprattutto per il rischio incendi.

Tra due settimane, quindi, se il centro aprirà, sarà di nuovo emergenza. Un’emergenza che si ripete da 11 anni. Per ora infatti, il campo è chiuso. Lo ha disposto il sindaco, Federico Pagano. Ma ora, con gli immigrati che stanno arrivando e senza un’alternativa, dice che lo riaprirà e nel contempo, ritenendo impossibili da rispettare le disposizioni arrivate dalla Regione per gestire l’area, si dichiara pronto a lasciare spazio a un commissario ad acta. Dalla Regione, in questi anni, sono arrivati anche circa 800 milioni. Centellinati anno per anno, lamenta però il primo cittadino, così da rendere impossibile un intervento risolutivo. È il rimpallo delle responsabilità.

La Caritas e le associazioni di volontariato si chiedono che fine abbiano fatto quei soldi e nel contempo hanno dato la loro disponibilità a gestire in comodato d’uso gratuito l’area. Ma per ora senza risposta. C'è poi un’altra parte in causa, centrale: le imprese agricole, che «dovrebbero fare la loro parte, anche attraverso le organizzazioni di categoria», ha sottolineato Strizzolo. Ma oggi gli enti del mondo agricolo, pure invitati dal Comitato, praticamente non si sono viste.



Maroni scrive e conferma «Il Cie si farà a Campi»

Corriere fiorentino 13luglio2010
Da tempo l’attenzione è rivolta a un ex campo d’atterraggio dirigibili a S. Angelo a Lecore, nel comune di Campi Bisenzio. La destinazione è indicata in una lettera che il ministero degli interni ha inviato alla Regione

Sarebbe nel Comune di Campi Bisenzio l’area individuata per realizzare un Cie in Toscana. L’indiscrezione, secondo quanto appreso, è trapelata nel tardo pomeriggio ed è stata resta nota dall'agenzia Ansa. Da tempo l’attenzione è rivolta a un ex campo d’atterraggio dirigibili a S. Angelo a Lecore, nel comune di Campi Bisenzio. La destinazione è indicata in una lettera che il ministero degli interni ha inviato alla Regione e già recapitata. Si pone così fine al lungo dibattito sulla localizzazione del centro di identificazione e espulsione per gli immigrati in Toscana.

LA VISITA DI MARONI - Nella sua ultima visita a Pisa, il Ministro dell’Interno Roberto Maroni aveva preannunciato che avrebbe presentato una proposta per la Toscana entro la fine di luglio, in modo da poter realizzare la struttura entro il 2010. La scelta fa parte dei 4 nuovi centri di identificazione annunciati più volte da Maroni che sorgeranno in Veneto, Toscana, Marche e Campania, regioni dove queste strutture non sono presenti, ma questa proposta, come Maroni dichiarò tempo fa, non vuole essere una imposizione in quanto è aperta a ipotesi alternative che devono essere presentate dal presidente della Regione Toscana Enrico Rossi. Fin dalla campagna elettorale Rossi ha espresso contrarietà ai Cie e ha proposto un modello alternativo con centri di piccole dimensioni, tempi di permanenza limitati, gestiti da associazioni e che siano anche luoghi di inclusione sociale dove proporre processi di regolarizzazione per chi non ha commesso reati gravi. Al tempo stesso la Lega Nord della Toscana ha auspicato più volte la realizzazione di un centro in Toscana, magari in una zona vicino a aeroporti o caserme.

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