Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

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                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

08 novembre 2011

 

Una carretta al Museo del Mare di Genova. Per non dimenticare
l'Unità, 8-11-2011
Italia-razzismo    Osservatorio
Il 17 novembre verrà inaugurato il padiglione Memoria e Migrazioni del Museo del Mare di Genova, e al suo interno verranno esposti due barconi approdati a Lampedusa. Per legge, il destino delle “carrette del mare” è di essere distrutte, ma la volontà del museo di ospitare una traccia della tragedia che si consuma ogni giorno, da anni, nel Mediterraneo ha ottenuto che si superassero tutti gli ostacoli così da preservare una memoria. È questo che, su un altro piano, ha realizzato Alessandro Leogrande nel suo Il naufragio (Feltrinelli 2011), facendo rivivere la storia della Kater I Rades, imbarcazione albanese partita il 28 marzo ’97 dal porto di Valona, colata a picco a seguito delle manovre di una corvetta della Marina militare italiana che tentava di farle invertire la rotta. Quella notte sono morte 81 persone. Come dice Leogrande, la Kater rappresenta quasi una premessa di quello che sarebbe accaduto: le prime regole di respingimento, la criminalizzazione di chi cerca di arrivare in Italia, l’indifferenza con cui si archiviano queste morti. Per volere dei superstiti e dei familiari delle vittime il relitto della Kater fu recuperato 8 mesi dopo il disastro ma, alla fine del processo d’appello (che ha condannato il comandante della corvetta italiana per naufragio colposo e omicidio colposo plurimo), il suo destino sembrava segnato. Troppo costoso cercare di riparare, trasportare, preservare quella carcassa arrugginita. Bisogna distruggerla. Ma molte associazioni si sono battute per quel relitto e, finalmente, la Kater diventerà un monumento - un monumento al dolore umano - nel porto di Otranto. Poter guardare la Kater, le barche di Lampedusa portate a Genova, e sentire la loro storia, forse ci aiuterà a vedere che a perdere la vita sono persone. Non soggetti indesiderati da tenere lontano ad ogni costo.
 
 
 
La Lega le piene e i rom
il Riformista, 08-11-2011
In questi giorni di paura, rabbia e disperazione causata dalle alluvioni di Genova e dallo stato di allarme in Piemonte per le piene di fiumi e torrenti, c'è chi ha trovato il tempo di ringraziare la pioggia per aver trovato un nuovo formidabile alleato nella storica battaglia della Lega contro i campi rom. «Ora che la pioggia è riuscita nell'impresa in cui aveva fallito il sindaco Piero Fassino, ossia lo sgombero del campo nomadi abusivo sul Lungo Stura Lazio, mi auguro che il Comune provvedere all'identificazione di tutti gli irregolari che vivevano in quel campo. Se questo non dovesse accadere, e i nomadi dovessero rioccupare l'area, la responsabilità sarà solo del sindaco. I torinesi vogliono meno salotti radicai chic e meno zingari irregolari». Questo è quanto dichiarato dal parlamentare leghista torinese, Davide Cavallotto (classe 1976) e responsabile dei Giovani Padani del Piemonte dal 2000 e responsabile organizzativo della Lega Nord subalpina dal 2008.
Immediate le reazioni. «Soltanto cinismo e razzismo possono aver ispirato le parole del deputato leghista che invoca l'effetto anti-Rom della pioggia torrenziale che ha seminato morte e distruzione in tutt'Italia» ha dichiarato Rosa Villecco Calipari (vicepresidente dei deputati del Pd), mentre il sen. Roberto Della Seta (Pd), ha sostenuto che «in questo caso non c'entra la politica, non c'entrano le divergenze di opinione su temi delicati come l'immigrazione o l'integrazione delle comunità Rom. C'entra solo l'umanità: chi come Cavallotto non è capace di provare solidarietà e pietà verso esseri umani costretti a vivere in condizioni di grande disagio e ulteriormente provati dal maltempo, è semplicemente un pover'uomo». «Quelle di Cavallotto sono affermazioni gravissime e incommentabili» ha, infine, sottolineato l'on. Giorgio Merlo (Pd) «augurarsi che le persone vengano colpite da eventi naturali per poter risolvere un problema caro alla Lega, è una frase molto grave, che la dice lunga sulla concezione del rispetto umano e della dignità delle persone di chi l'ha detto».
 
 
 
I rom riuniti a Roma: ora basta pregiudizi 
Avvenire, 08-11-2011
Paola Simonetti 
«Cohl Chetane», «tutte unite», le comunità rom faranno sentire la loro voce domani a Roma, davanti a Montecitorio in una manifestazione nazionale unitaria a partire dalle 9, «per ottenere riconoscimento dello status di Minoranze. La predisposizione della Strategia nazionale. Per ottenere i Diritti negati da sempre». Perché il termine «zingaro» è divenuto un marchio d’infamia, così come la condanna al nomadismo, all’origine dettato da mestieri itineranti. Il popolo «romanì» non vuole nessuna di queste definizioni: nessuna potrà mai tratteggiare una tradizione millenaria, fatta di abilità artigiane, musicali, ludiche, perse in un lungo peregrinare, fuggendo da persecuzioni e massacri. Poche sono le verità veicolate in Italia sui «rom», altro termine impropriamente generico, che al suo interno vede invece cinque grandi comunità: romanès, Rom, Sinti, Kale, Manouches e Romanichals. Unica la lingua, 18 i dialetti che la caratterizzano, sullo sfondo di una bandiera verde e azzurra con una ruota a 16 raggi ed un inno, il «gelem gelem». Anche il tanto abusato sinonimo per definirli è un falso dell’informazione: perché «nomadi» loro non lo sono più da tempo. 
La mancanza di conoscenza profonda del popolo rom ha reso deboli o nocivi gli interventi pratici che le amministrazioni locali cercano di mettere in campo in Italia: come gli sgomberi forzati che, denunciano le organizzazioni per i diritti umani, lacerano i fragilissimi contatti con i servizi territoriali, mandando in fumo i dati raccolti faticosamente dai censimenti locali. I rom rimangono nell’isolato pantano delle nostre città, a guardare da lontano un universo che non gli appartiene. Il fallimento pratico, secondo le analisi di associazioni e istituzioni, ha dietro un fardello di pregiudizi, errate terminologie, ma anche carenti metodi di censimento e osservazione, che continuano a definire in modo approssimativo una realtà sociale complessa e in costante mutamento. Primo assunto da scardinare, stando all’ultimo rapporto sul tema presentato qualche mese fa dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, è il crederli ancora «nomadi» e «stranieri». Il documento ha stimato che il numero di rom presenti in Italia è tra 140mila e 170mila persone, di cui il 60% è costituito da italiani e il 90% è stanziale. Secondo il ministero dell’Interno nel nostro Paese le famiglie che ancora viaggiano in carovana rappresentano il 2-3% dei rom, sinti e caminanti. In moltissimi sono arrivati nel nostro Paese nel 1400; più della metà è residente e ha la cittadinanza del nostro paese, tanti vivono in appartamento e svolgono qualsiasi tipo di  lavoro. E compongono un popolo di giovanissimi: i minori di 14 anni sono il 40% della popolazione totale, mentre gli adulti che superano i 60 anni rappresentano una percentuale bassissima. Nei campi nomadi vivono circa 40.000 persone, di cui metà sono cittadini italiani. Con buona pace di chi paventa «invasioni barbariche», il Rapporto dice anche che il nostro è il Paese europeo in cui la presenza di queste popolazioni registra la percentuale più bassa (pari allo 0,02% della popolazione), ma anche quello che ha il primato dei campi nomadi: «Una realtà - si legge nel rapporto - che con pochissime eccezioni, non esiste in altri Paesi europei. E si tratta di una realtà caratterizzata, per usare il linguaggio delle convenzioni internazionali, da condizioni inumane e degradanti». Numeri questi, che sono da considerarsi ancora oggi solo stime, data la grande difficoltà di avere censimenti precisi di popolazioni dove «molti degli appartenenti a questi gruppi mettono in atto strategie mimetiche allo scopo, laddove è possibile, di essere assimilati al resto della popolazione». 
Battere l’ignoranza sull’argomento, dunque, è «il punto di partenza senza il quale - sottolinea il Rapporto - nessuna politica può essere costruita». 
 
 
 
«Nomadi e stranieri? Sono solo falsità»
giornalisti Un volumetto per evitare i termini impropri
Avvenire, 08-11-2011
DA ROMA
La stima sulla loro presenza in Italia è di 140mila persone, il 60% italiani e il 90% stanziale, molti in Italia dal 1400. È falso dunque che i rom sono per definizione «nomadi e stranieri». Ma si continua a ignorare questa «verità sostanziale dei fatti». Ora i giornalisti si prendono la loro parte di responsabilità nella diffusione di pregiudizi antigitanisti e corrono ai ripari con un agile volumetto di Stamparomana, il sindacato dei giornalisti di Roma e Lazio assieme all' Associazione giornalisti Scuola di Perugia, Comunità di Sant'Egidio e assessorato Lavoro del Lazio. Titolo: «Ho visto anche degli zingari felici (Di chi parliamo quando parliamo de rom)", citazione di una vecchia canzone di Claudio Lolli. Il "popolo romani" chiede di non usare il termine "zingari" usato da amministratori e giornali in senso dispregiativo, vedi il recente il neologismo "zingaropoli". «Che un cittadino si esprima così non sorprende, che degli stessi preconcetti siano portatori i professionisti dell'informazione è inaccettabile» scrive il segretario di Asr Paolo Butturini nel fascicolo curato da Titty Santoriello. Nazareno Guarmeri, presidente della Federazione Romani, spiega l'articolazione delle comunità romanès. La bandiera che li accomuna è verde e azzurra con una ruota a 16 raggi: a Rovereto sventola assieme a quella delle altre nazioni vicino alla Maria Dolens, la Campana della pace fusa col bronzo dei cannoni del '15/'18. «Suscitano allerta e mai simpatia - scrive don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco -mentre vanno raccontati i fatti, senza pregiudizi negativi né positivi». Luca Bravi, docente a Firenze, spiega che lo stereotipo del nomadismo affonda le radici nel Porrrajmos (il grande divoramento) l'olocausto negato dei rom, 500mila vittime per le quali non c'è stato nessun risarcimento. Il vademecum sì chiude con le parole di Benedetto XVI dell'11 giugno ai rappresentanti Rom da tutta Europa: «Amata porzione del popolo di Dio pellegrinante». (L.Liv.)
 
 
 
DaleFarm FINE DI UN SOGNO
il manifesto, 8-11-2011 
Viola Caon
LONDRA
Sono passate più di due settimane da quando la polizia di Basildon, nella contea dell'Essex, 43 chilometri a est di Londra, si è presentata all'accampamento nomadi di Dale Farm per sfrattare le 86 famiglie di traveller irlandesi che dopo 10 anni di battaglie legali non avevano ancora ottenuto un permesso di permanenza.
La storia è lunga e complessa e coinvolge un insieme intricato di ragioni sociali, discri-minazioni e scetticismi culturali. Dale Farm è stata occupata per la prima volta negli anni '80 da una famiglia di traveller irlandesi che ha poi ottenuto un permesso legale per stabilirsi con i propri caravan in una parte del terreno, ma è tra il 2000 e il 2001 che la comunità si è ampliata a vista d'occhio, Data la natura comunitaria degli Irish travelìers, che la legge britannica riconosce come gruppo etnico, al nucleo originale si sono infatti aggiunte altre famiglie, fino ad arrivare a un'eccedenza, secondo i piani di regolamentazione locale, di 86 nuclei familiari, più di mille persone.
«Se sono traveller, che viaggino!», hanno cominciato a obiettare i residenti della zona. Cominciano più o meno a questo punto le contraddizioni e le incomprensioni che hanno portato allo sfratto del 19 ottobre. I traveller - e insieme a loro rom,  gypsy e zingari di varie etnie - non possono più condurre un'esistenza nomade nel Regno Unito dalla fine degli anni 70 inizio '80, quando una nuova legge ha dichiarato illegale l'occupazione per lungo periodo di territori pubblici o demaniali. «Da quel momento in poi, il governo inglese ha detto a questa gente: 'compratevi un pezzo di terra e stabilitevi lì'. Peccato che, in generale, questa è una soluzione che non tiene conto delle radici culturali dei traveller; inoltre, nel caso specifico di Dale Farm, il distretto di zona non si è minimamente impegnato a trovare una
soluzione accettabile per sistemare queste famiglie», dice Tricia Phillips, direttrice del Peckham Settlement Community Centre che si occupa di integrazione e politiche sociali nel quartiere a sud del Tamigi.
Tricia era a Dale Farm il giorno dello sfratto e racconta di aver assistito a un abuso di potere da parte della polizia senza precedenti, su persone per lo più indifese: «La polizia dell'Essex si è presentata in forze e ha agito senza curarsi della presenza dei bambini, colpendo deliberatamente alcune donne che si opponevano». L'arrivo della polizia presso l'accampamento è arrivato dopo mesi di dura contrattazione tra i rappresentati dei traveller e le autorità locali. Da una parte il capo del distretto Tony Ball, dall'altra il leader dei traveller Richard Sheridan, che lo scorso 15 marzo si è visto rifiutare la richiesta di un finanziamento di 6 milioni di sterline per comprare un terreno che fosse considerato a norma dalle autorità locali.
«Hanno speso molto di più - risponde animatamente al telefono Sheridan - lo sfratto è costato a Ball 18 milioni di sterline e E costo totale dell'operazione, tra spese legali e impiego di forze della polizia, è arrivato a 30-40milioni. Avrebbero speso un decimo se ci avessero aiutato a trovare un altro posto. Per giunta, non hanno risolto il problema!». La richiesta di fondi da parte dei traveller al distretto di zona rientra in una delle norme stabilite nel 2002 dal governo neo-laburista secondo la quale le autorità locali si devono impegnare a trovare, insieme alla comunità, una sistemazione adeguata.
«Non sarebbe successo lo stesso a Peckham - dice Tricia Phillips - qui abbiamo un'ottima collaborazione tra autorità locale e comunità nomade. Ma in Essex a un certo punto è diventata una questione di principio e gli abitanti adesso vogliono soltanto liberarsi anche dei traveller rimasti in condizioni di legalità». È per questo, secondo la coordinatrice del centro di Peckham, che la polizia ha avuto un atteggiamento contrario ai diritti umani: «Hanno abbattuto muri di case a norma, atterrato un paio di donne usando la scossa elettrica, staccato la corrente lasciando quasi morire un anziano che respirava grazie all'alimentatore. E tutto questo davanti ai bambini. Ero lì e ho chiesto a uno dei poliziotti: 'troveresti giusto se fosse tuo figlio ad assistere a questo?'. Mi ha risposto senza esitare un attimo: 'mio figlio a quest'ora sarebbe a scuola!' È una considerazione chiaramente razzista e non adatta a un agente di polizia che dovrebbe piuttosto impegnarsi a garantire l'ordine durante lo sfratto!»
Le 86 famiglie sfrattate da Dale Farm sono ora sparse per tutto il Regno Unito e non è detto che non tentino di ritornare, una volta capito che non c'è nessuna prospettiva per loro. Vivono in clan di circa 20 persone e considerano la propria una comunità fortemente basata sul reciproco sostegno, una soluzione adeguata, che non distrugga la comunità, a questo punto sembra difficile. «Nessuno, in nessun modo, potrà mai costringermi a vivere isolata in un appartamento - racconta Kathleen Joyce, una traveller di origine irlandese che da 25 anni condivide uno dei siti di Peckham - Non possiamo più vivere come eravamo abituati: non possiamo più spostarci, non possiamo più accendere un fuoco la sera e radunarci intorno, non possiamo più incontrare gente diversa. E sai una cosa? Noi ci siamo adeguati e ora viviamo in questi siti al centro delle città, almeno che non continuino a discriminarci! Quello che è successo a Dale Farm è assolutamente ingiustificabile e ridicolo».
Kathleen, che è una donna forte e vigorosa, matriarca di una famiglia che conta più di 20 membri, spiega come sia stato difficile adattarsi e crescere i propri figli nel vicinato: «Non capisco perché il fatto che viviamo in un caravan debba essere un problema. Siamo esseri umani come gli altri. È vero, spesso ci sono stati episodi di rapina, perfino di omicidi nella nostra comunità, ma non è lo stesso ovunque?»
 
 
 
Immigrazione: protesta villaggio Mineo, SS 417 bloccata
Richiedenti asilo contro ritardi nel rilascio permessi soggiorno
(ANSA) - MINEO (CATANIA), 8 NOV - Nuova protesta dei migranti ospiti del villaggio della solidarieta' di Mineo, nel Catanese, un centinaio di richiedenti asilo hanno invaso la strada statale 417, Catania-Gela, bloccandola. Sull'asfalto sono stati messi dei grossi massi e dei copertoni ai quali e' stato appiccato il fuoco. Si sono registrati anche momenti di tensione. La protesta, contro i ritardi nel rilascio dei permessi di soggiorno e' gia' rientrata ma la strada e' ancora bloccata.(ANSA).
 
 
 
Progetti di mutuo aiuto per i cittadini migranti 
La Provincia, 8-11-2011
Si è avviato sabato scorso il primo dei gruppi di auto mutuo aiuto promossi dalla cooperativa sociale Mondo Aperto di Aprilia, presso il Centro Interculturale di Via Cattaneo, 4 ad Aprilia, ospiti dell'associazione Donne tunisine «La Palma Del Sud» e dell'Associazione di volontariato «Dialogo Onlus». L'esperienza di questo primo gruppo nato sabato 5 Novembre e coordinato dalla psicologa Leticia Manin è quello di facilitare l'accoglienza dei migranti e i meccanismi relazionali e psicologici dell'integrazione. «Il gruppo di auto-mutuo-aiuto» dice il Presidente della Cooperativa Sociale, Sihem Zrelli «consiste nella costruzione, attraverso la parola, di uno spazio di dialogo, ascolto, racconto autobiografico, espressione, testimonianza e di cura delle relazioni, a partire dalle risorse e dalla peculiarità di ciascuno. In considerazione della massiccia presenza di immigrati  nel territorio di Aprilia, ab-biamo pensato di offrire ai migranti questo servizio di accompagnamento nel processo di integrazione con la comunità locale». Il gruppo si rivolge ai migranti che sono arrivati da poco o vivono la loro condizione di migrazione in modo particolarmente doloroso: isolamento individuale, discriminazione ed esclusione sociale. «Il nostro obiettivo - conclude Zrelli - è mettere al centro la cura della relazione interpersonale con chi si sente ferito». I gruppi si incontreranno in un percorso di dodici incontri complessivi. Per informazioni potete ri-volgervi presso la Cooperativa Sociale Mondo Aperto Via Aldo Moro 43 d int. 5. Aprilia cell. 320.85.100.18.
 
 
 
Guida informativa agli immigrati  La consegna dell'Asl Taranto
Il pieghevole redatto in italiano, francese e inglese
Contiene le indicazioni necessarie in ambito sanitario
Corriere del Mezzogiorno, 8-11-2011
TARANTO - L'Azienda sanitaria locale di Taranto ha approntato una guida informativa dedicata agli immigrati in terra ionica. Il pieghevole redatto, oltre che in italiano, in inglese e francese, rappresenta un'utile guida per orientarsi in ambito sanitario. L'Asl fa presente che «la Puglia assicura le cure sanitarie anche ai cittadini stranieri non in regola attraverso il rilascio di una tessera sanitaria temporanea. La guida sarà presentata giovedì prossimo 10 novembre nella Sala Resta della Camera Di Commercio di Taranto.
Alla cerimonia di consegna e presentazione prenderanno parte l'assessore regionale alle Politiche della Salute, Tommaso Fiore, il Commissario Straordinario dell'Asl di Taranto, Vito Fabrizio Scattaglia, e il direttore del Servizio Socio Sanitario, Antonio Ursi. Dopo l'illustrazione del progetto, promosso dall'Istituto Nazionale per la Salute dei Migranti ed il contrasto alle Povertà , sarà avviata la distribuzione delle guide informative con la consegna simbolica delle stesse a coloro che a titolo istituzionale, sociale e professionale ne possono favorire la diffusione.
 
 
 
OBAMA SALVATO DAGLI IMMIGRATI
il Fatto Quotidiano, 8-11-2011
Maurizio Chierici
I  ragazzi hanno ragione quando ci rinfacciano il senso di colpa dell'essere sopravvissuti agli anni felici e di non esserne del tutto innocenti. Per altri popoli sono stati anni di guerre e di umiliazioni mentre la nostra civiltà stava inventando la più mastodontica agenzia viaggi della storia e se il secolo appena passato dovrà proprio avere un nome sarà il secolo degli emigranti. Insopportabili perché arrivano dal sud per sconvolgere il nord bene educato. Ma adesso sono qui: cosa ne facciamo? Soluzioni che non coincidono fra i protagonisti del G20 di Cannes. Per esempio, due a confronto: il Cavaliere d'Italia che ha affidato il governo al razzismo delle leghe, diffidenza, esclusione, rimpatri forzati, insomma la morte della speranza; e il signore della Casa Bianca, mezzo figlio dell'emigrazione, impegnato a recuperare l'amicizia degli elettori dai nomi latini perché senza il loro voto non torna presidente. Bisogna riconoscere che due signori tanto diversi affrontano la situazione con la stessa sincerità. Il Cavaliere misura la vita nel denaro e si comporta di conseguenza: non riesce a immaginare niente di diverso. L'altro presidente ha imparato la vita nelle difficoltà e senza ipocrisia dialoga con chi gli somiglia. Chi punta sul ticket miliardi-potere, chi sul confronto tra diritti e dignità, con qualche furbizia, perché sono i latini a decidere se resterà a Washington. Rappresentano il 23 per cento di un elettorato tendenzialmente democratico: il 67 per cento lo ha sostenuto nella prima scalata, ma la crisi sta cambiando molte cose. Promesse rimandate, Repubblicani che attribuiscono ogni depressione agli errori di Obama, non solo per "l'inutile populismo" della riforma sanitaria allargata a milioni di esclusi buona parte di origine latina; soprattutto per "l'ambiguità politica verso paesi tradizionalmente ostili". Cuba e Venezuela. E i profughi antichi e nuovi che dalla Florida rimpiangono i piaceri perduti all'Avana o sfogliano gli oroscopi aspettando la caduta di Chavez, sono l'elettorato ideale che può congelare l'apertura democratica. Ogni candidato repubblicano va in pellegrinaggio fra gli eterni profughi di Miami con l'umiltà di chi si inginocchia nella grotta di Lourdes. Promettono ritorni in patria e dittatori in fuga anche se ormai non creduti da chi dovrebbe sostenerli. E loro lo sentono; lo sanno. E cambiano strategia. Forse l'esempio italiano suggerisce qualcosa: imbottigliare le colonne d'Ercole del benessere con mura invalicabili, insomma sigillare i mille chilometri della frontiera messicana e poi nessuna tolleranza. Al Congresso svuotano la legge sull'immigrazione proposta da Obama per garantire una vita normale ai nuovi cittadini. Insomma, riesce difficile immaginare come possano attrarre la simpatia del 40 per cento dei latini decisivi per la vittoria se continuano a maltrattarli. Ecco che per diventare maggioranza gli eredi di Bush si aggrappano al voto bianco. "Perché siamo bianchi e non marron" e perché "un vero americano bianco deve essere repubblicano". Bambinate anche perché l'impressione è che i bianchi Usa siano sempre meno pallidi. Quei matrimoni misti, tragedia dell'umanità. Lontana dall'isterismo della razza perduta, la mano di Obama è un invito abbastanza sincero. Gli immigrati lo sentono: stanno discutendo come combinare le ambizioni di un protagonista, col futuro non differenziato di milioni di senza nome che continuano a inseguire il sogno americano. Facile capire come sia più semplice sognare con Obama e più complicato nelle mani degli ariani polenta e osei.
 
 
 
San Francisco elegge il primo sindaco di origine cinese 
Corriere della sera, 08-11-2011
Alessandra Farkas
NEW YORK — San Francisco ha avuto sindaci neri (Willie Brown Jr.), italiani (George Moscone), ebrei (Adolph Sutro) e donne (Dianne Feinstein). Ma nonostante sia considerata da sempre la porta americana verso Oriente, la città non ha mai eletto, prima d'ora, un sindaco cinese. Ciò potrebbe cambiare oggi, quando gli abitanti di San Francisco si recheranno alle urne per scegliere il loro nuovo primo cittadino in un'elezione già preannunciata come «storica» dai media. Il favorito nella corsa è, infatti, il democratico Edwin M. Lee, il 59enne city administrator assurto alla carica di sindaco ad interim lo scorso gennaio, dopo che Gavin Newsom ha rassegnato le dimissioni per diventare vicegovernatore della California. Ad assicurargli la vittoria, oltre alla sua impeccabile fama di revisore dei conti, dovrebbe essere l'enorme comunità cinese — un quarto degli 800 mila abitanti della città — che secondo i pronostici si presenterà in massa alle urne. «Per noi è un'occasione storica», spiega David E. Lee, direttore esecutivo della bipartisan Chinese American Voters Education Committee, «spedire uno di noi nell'ufficio del sindaco equivale a raggiungere il Santo Graal della politica cittadina». Nella più antica Chinatown d'America fervono già i preparativi per la festa. Il simbolismo dietro un'eventuale vittoria del candidato sostenuto da luminari della politica locale quali la senatrice Dianne Feinstein, l'ex sindaco Brown e lo stesso Newsom è arricchito dal fatto che Lee è un americano di prima generazione, figlio di un cuoco e di una cameriera emigrati da Guangdong, che dopo la laurea Summa cum Laude al Bowdoin College del Maine si è laureato in legge a Berkeley, sposando la sua insegnante di cantonese Anita da cui ha avuto due figlie, Tania e Brianna. Anche se aveva accettato la carica ad interim con la promessa di non candidarsi, i suoi potenti sponsor gli hanno fatto cambiare idea, creando il comitato «Run, Ed, Run», corri, Ed, corri. Se è vero, come scrive il New York Times, che nella città più liberale d'America le gare si vincono «più con il personal appeal che con i dibattiti ideologici», Ed è in una botte di ferro. L'unica incognita — oltre ai manifestanti di Occupy San Francisco che Lee ha minacciato più volte di sgomberare — è l'impatto di una serie di articoli usciti su The Bay Observer e The Chronicle che accusano di frode gli sponsor della sua campagna: avrebbero promesso di risarcire tutti gli elettori disposti a versare almeno 500 dollari nelle casse di Lee.
 
 
 
Quando la sinistra se ne infischiava dei poveri immigrati
il Giornale, 08-11-2011
Tommy Cappellini 
Per fortuna alcune tragedie sono anche politiche. Solo così, una volta lasciata la pietà per le vittime a chi spetta (familiari, amanti e amici), riescono a non perdere la carica civile, l'onda d'urto etica necessaria a non farle smarrire nell'oblio collettivo. 
Ingrandisci immagineIl naufragio della Kater i Rades appartiene alla categoria. La vicenda è ripercorsa da Alessandro Leogrande in Il Naufragio. Morte nel mediterraneo (Feltrinelli, pagg. 224, euro 15).
È il 28 marzo 1997, un venerdì santo. Alle tre del pomeriggio la Kater, decrepita ex motovedetta militare, si stacca dal molo di Valona, Albania, «sfidando le leggi della fisica e del galleggiamento dei corpi». Organizzatore del viaggio, Lefter Çaushi, fratello di Zani, boss della mala locale. Costo del biglietto: da cinquecentomila a un milione di lire. A bordo ci sono centoventi clandestini, al timone il capitano-scagnozzo Namik Xhaferi. Dall'altra parte del Canale d'Otranto, invece, c'è la corvetta Sibilla della Marina militare italiana, comandata dal capitano di fregata Fabrizio Laudadio.
A un certo punto la Sibilla intercetta la Kater e, come da regole di ingaggio, inizia le sue «azioni cinematiche et di interposizione». In pratica bisogna dare filo da torcere, ma «in sicurezza» per s´ e per gli altri, ai migranti che vogliono sbarcare in Italia. L'idea sarebbe quella di convincerli a fare dietrofront. È un valzer. Qualcosa tipo «vengo anch'io, no tu no». Alla fine, vuoi per le piroette che Xhaferi imprime alla Kater, vuoi perch´ Laudadio si lascia prendere un po' troppo la mano, la Sibilla sperona la Kater. Che si capovolge. L'azione di respingimento diventa un disastro umanitario: 57 morti e 24 dispersi. Cioè 81 vittime, di cui 31 sotto i sedici anni.
Ora. Chi fosse interessato alla ricostruzione tecnica dello speronamento, alle successive indagini e ai processi che ne scaturirono, può trovare abbondanza di materiale e di ipotesi nell'accurato saggio di Leogrande (che a tratti ricorda, nella drammaturgia delle immagini e delle voci, i servizi di Ruotolo per Santoro, nel bene e nel male). Tuttavia, si diceva, quella della Kater è anche una tragedia politica. 
A dirla lunga su questo aspetto ci sono le reazioni che ebbe all'epoca il governo italiano. O meglio: che non ebbe. Nessuno si reca a Brindisi, centrale delle operazioni di recupero: n´ il presidente del Consiglio Prodi, n´ il suo vice Veltroni, n´ il ministro della Difesa Andreatta n´ quello degli Esteri Dini. D'Alema, segretario del Partito democratico, il primo della maggioranza, collegio elettorale in Puglia, non ci va nemmeno lui. 
«Il silenzio del governo è assordante» scrive Leogrande. «Il punto più basso della storia dell'Ulivo», scrive Goffredo Fofi, citato da Leogrande. A Brindisi si reca invece il leader dell'opposizione, Silvio Berlusconi, e promette di «ospitare tutti quanti ad Arcore» i 34 sopravvissuti, che alla proposta reagiscono sdegnati.
«Volevano giustizia, non elemosina» scrive Leogrande. E la giustizia, quella di carta, arriverà quattordici anni dopo, il 29 giugno scorso, quando Laudadio viene condannato a due anni e quattro mesi, e Xhaferi, ancora contumace, a tre anni e dieci mesi.
Nel frattempo, però, i «mandanti politici» si sono tutti acclimatati altrove, disperdendo le tracce della propria colpa. Tre giorni prima del naufragio Dini aveva scritto al suo corrispettivo albanese Arjan Starova una lettera dove, constatando il clima da guerra civile in Albania (il governo di Sali Berisha aveva portato il Paese al tracollo finanziario con una serie di speculazioni sulla pelle della gente comune), offriva la «propria assistenza per il contenimento in mare degli espatri clandestini da parte di cittadini albanesi». 
Sotto mentite spoglie, si trattava di un blocco navale tout court, da sempre una cosa parecchio difficile da attuare in mare aperto, anche per i militari più esperti. Prodi (che più tardi si arrampicò sugli specchi per negare che fosse un blocco navale, chiamandolo «attività volta soprattutto a stroncare la malavita organizzata che gestisce gli espatri») e pure il suo ministro dell'Interno Napolitano lo sapevano perfettamente.
Ma in Italia era in corso la campagna per le elezioni amministrative. Il tema degli «albanesi pericolosi» era «dopato» in tutti i modi dai mass media, con la Lega che soffiava sul fuoco. L'Operazione Alba sarebbe partita di lì a poco: Rifondazione votò contro l'invio delle truppe, Alleanza Nazionale e Forza Italia compensarono, salvando il governo Prodi. Una specie di arco costituzionale, un comportamento schizofrenico. Tutti, d'altra parte, avevano fatto la loro scommessa elettorale: «Vedete bene, cari elettori, come difendiamo con passione i nostri confini». Tutti, per via dei centoventi disperati della Kater, persero la scommessa. La rottura con Rifondazione non si risanò, mentre la Lega continua ancora oggi a ventilare il blocco navale ad ogni emergenza, compromettendo, secondo Leogrande, il ruolo di potenza democratica al centro del Mediterraneo che l'Italia dovrebbe avere.
Tant'è che, come dice un anonimo alto ufficiale intervistato da Leogrande, «se uno va oggi in Albania vede che sono diventati tutti filoamericani. Non parlo della gente comune, parlo delle ´lite. L'Italia ormai la guardano dall'alto in basso. Loro ormai guardano all'America. Negli Usa c'è anche un'influente rivista della diaspora albanese. L'Italia ha perso le sue chance».
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Perchè Italia-Razzismo 


SPORTELLO LEGALE PER RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO

 

 


 

SOS diritti.
Sportello legale a cura dell'Arci.

Ospiteremo qui, ogni settimana, casi, vertenze, questioni ancora aperte o che hanno trovato una soluzione. Chiunque volesse porre quesiti su singole situazioni o tematiche generali, relative alle norme e alle politiche in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza nonché all'accesso al sistema di welfare locale da parte di stranieri, può farlo scrivendo a: immigrazione@arci.it o telefonando al numero verde 800905570
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