Il permesso non può attendere

Luigi Manconi
Gentile ministro Sacconi,
il suo è il dicastero del lavoro e delle politiche sociali ed è dunque lei il massimo responsabile politico delle strategie di integrazione per gli stranieri presenti nel nostro paese.
Strategie che, per molte ragioni, faticano a venire elaborate e tanto più  attuate: ci troviamo tutti, italiani e immigrati, in una condizione assai lontana da quella di una possibile ordinata e ordinaria convivenza, capace di contenere le inevitabili tensioni e di realizzare una progressiva inclusione sociale. Questa condizione definibile, in qualche modo, come “primitiva”, connotata da una notevolissima incertezza dei percorsi e delle procedure, delle opportunità e delle regole, viene efficacemente (e drammaticamente) rappresentata dal sistema dei permessi di soggiorno. Il comma 9 dell’art. 5 del Testo unico sull’immigrazione prevede che la procedura per il rilascio, il rinnovo e la conversione del titolo di soggiorno debba concludersi in 20 giorni. Certo, si può obiettare che la legge sul procedimento amministrativo (241/90), come modificata nel 2009, ha escluso i procedimenti per l’acquisto della cittadinanza italiana e quelli “riguardanti l'immigrazione” dalla categoria di quelli che (pur potendo durare più di 90 giorni) devono concludersi al più tardi entro 180 giorni. E tuttavia mi sembra davvero ardito immaginare che una norma così generica possa derogare al termine di 20 giorni, precisamente previsto dal Testo unico sull’immigrazione. E, infatti, mi sembra pacifica e condivisa – da lei in primo luogo – la convinzione che l’attuale lentezza delle pratiche costituisca un vero e proprio scandalo. Secondo Shukri Said, presidente di “Migrare”, il ritardo nelle pratiche costituisce pretesto per “abusi contro gli immigrati che si vedono ridotti, di fatto, i pur limitati diritti di cui godono in Italia”. Quegli “abusi” sono legati a una condizione di insicurezza, precarietà, incertezza che pone lo straniero in uno stato come di sospensione tra legalità e illegalità. E in quello spazio indefinito, dove i diritti che si ritenevano acquisiti si fanno più fragili e meno esigibili, possono verificarsi situazioni di grande difficoltà rispetto ad attività essenziali come l’affitto di un appartamento, il ricorso all’assistenza sanitaria, il rilascio della patente di guida, l’istruzione scolastica e altro. Questa condizione di sospensione, che la legge prevede di appena 20 giorni, nei fatti dura assai di più. Nel 2009 la media è stata di 291 giorni. Oggi i tempi sembrano più rapidi e secondo il ministro dell’Interno si riducono a 101 giorni. Ma, come tutti sappiamo, dall’epoca dell’apologo trilussiano sui polli, questo vuol dire una sola cosa: in numerose località italiane, l’attesa dura 10 volte e oltre quella stabilita per legge. Il governo promette che si arriverà ai 20 giorni entro la fine della legislatura. Per una volta – e, per la verità, solo per questa volta – voglio credere alla promessa, ma nel frattempo Shukri Said suggerisce una soluzione semplice semplice: l’immigrato potrebbe “disporre” del permesso di soggiorno, anche durante il periodo del suo rinnovo, mediante l'apposizione di un timbro che ne attesti la validità fino alla sostituzione con il documento nuovo. Sembra una mera soluzione formale, ma nella concreta vita quotidiana – nella materialità faticosa dell’esistenza di uno straniero, tra discrezionalità e chiusure, indecifrabilità e rinvii – potrebbe costituire un fattore di sicurezza. Lei, ministro Sacconi, dovrebbe apprezzare il significato di questo obiettivo: e dovrebbe apprezzare ancor di più come si è arrivati all’elaborazione di questa e di altre proposte. Il 12 dicembre Gaoussou Ouattarà, membro della giunta di segreteria dei radicali italiani, ha promosso uno sciopero della fame finalizzato proprio all’accelerazione dei tempi per il permesso di soggiorno. All’iniziativa non violenta hanno aderito nelle settimane successive centinaia e centinaia di immigrati (e di italiani): e lo sciopero della fame a staffetta è tutt’ora in corso. Quale segnale della volontà di integrazione migliore di quello offerto da stranieri che - sottraendosi alla tentazione dell’illegalità e a quella dell’arte di arrangiarsi o della corruzione minuta - scelgono la via della mobilitazione pacifica e gli strumenti offerti dal sistema democratico? Gaoussou Ouattarà, Shukri Said e i loro compagni dimostrano così di aver pienamente superato l’”esame di costituzione”, che qualcuno propone più come un pretestuoso ostacolo che come una fertile opportunità. Sono convinto che il ministro del welfare non potrà che convenirne. Attendo fiducioso una sua risposta.

l'Unità 12 marzo 2010
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