Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

19 settembre 2014

Nei lager Cie, ma solo per 90 giorni
ORA POSSONO ESSERE RECLUSI, PERCHÉ DI RECLUSIONE
ANCHE FINO A 18 MESI. ATTESA PER IL VOTO FINALE
Cronache del Garantista, 19-09-14
Damiano Aliprandi
C'è una piccola speranza ` per alleggerire il peso della detenzione nei Centri di identificazione ed espulsione. Il Senato ha infatti dato il via libera al un emendamento alla legge europea a firma di Luigi Manconi e Sergio Lo Giudice per accorciare i tempi di permanenza degli stranieri in queste strutture, fissando il tetto massimo a 90 giorni. Una drastica riduzione, se si considera che attualmente è possibile restare richiusi tra le mura di un Cie fino a 18 mesi. Il provvedimento va anche incontro a uno dei sei referendum presentati dai Radicali nel 2013 - poi bocciati a causa del mancato raggiungimento delle firme necessarie - il quale poneva il tema della riduzione dell`intrattenimento e l`abolizione di quelle norme che incidono sulla clandestinizzazione e precarizzazione dei migranti. La riduzione a 90 giorni della permanenza nei Cie dovrà passare anche al vaglio della Camera dei deputati.
L`estensione dei termini a 18 mesi era stata voluta fortemente nel 2011 Roberto Maroni, all`epoca ministro dell`Interno, del governo Berlusconi. Era l`ennesimo periodo emergenzialista e securitario, e l`effetto è stato disastroso perché ha creato enormi tensioni all`interno dei Cie. Tensioni che portano a delle vere e proprie rivolte. L`ultima il 4 settembre scorso al Cie di Ponte Galeria, alle porte della Capitale. Alcuni dei migranti presenti hanno dato fuoco a materassi sprigionando del fumo e gli agenti antisommossa sono intervenuti per sedare la rivolta. Il motivo della protesta è il lungo periodo di permanenza cui sarebbero costretti i migranti e dalle condizioni disagevoli del centro. Già nei giorni antecedenti ai fatti, il Garante per i detenuti del Lazio Angiolo Marroni aveva denunciato la situazione di estrema tensione nel centro, dove un irregolare recluso era in sciopero della fame e parziale sciopero della sete da due settimane. Si tratta di un cittadino di origine nigeriana, trattenuto al Centro di identificazione dallo scorso 13 giugno, che avrebbe già perso 14 kg. L`uomo, D. M., ha una moglie e due figli minori regolarmente residenti in Francia, ed ha avviato la sua
protesta perché intende ricongiungersi con la propria famiglia.
Ma cosa sono i Cie? Per molte associazioni e movimenti sensibili al tema dell`immigrazione, sono considerati dei veri e proprio lager. L`organizzazione indipendente e umanitaria "Medici per i diritti umani" ha condotto, nel 2013, un importante indagine entrando in tutti i centri di espulsione e ha stilato un dossier dettagliato. La ricerca si chiama "Arcipelago Cie. Indagine sui centri di identificazione ed espulsione", pubblicata da Infinito Edizioni e realizzata con il supporto di Open society foundation. L`indagine si è svolta nell`arco di un anno, da febbraio 2012 a febbraio 2013, e si è articolata in quattordici visite agli undici Cie operativi sul territorio italiano. Altri due centri, quello di Brindisi e il Serraino Vulpitta di Trapani, non sono stati visitati perché chiusi per ristrutturazione. A quindici anni dalla loro istituzione, prima come Cpt e poi trasformati in Cie, queste strutture vengono bocciate su tutta la linea. L`opacità che circonda queste strutture si manifesta nelle molte restrizioni all`accesso e nel fatto grave che, scrivono gli autori, «nel corso dell`intera indagine non è stato inoltre possibile conoscere dalle Prefetture i costi complessivi dei singoli Cie». Dal punto di vista della struttura, i migranti sono ristretti in recinti simili a grandi gabbie, con spazi di dimensioni inadeguate ed eccessivamente oppressivi. In alcuni centri i migranti sono confinati in differenti settori permanentemente isolati tra di loro. Questo, sempre secondo i medici per i diritti umani «ha reso le condizioni di reclusione ancora più umilianti e afflittive». La conclusione della ricerca sul campo è che tali strutture sono «del tutto inadeguate a garantire condizioni di permanenza dignitose ai migranti trattenuti». Dormitori, mense, servizi igienici, sale ricreative, niente di quello che c`è in un Cie rispetta gli standard minimi di qualità, o come affermano gli autori del rapporto, «apparivano in uno stato di manutenzione inadeguato e in condizioni di pulizia spesso insufficienti». Particolarmente grave la situazione dei settori maschili di Roma e Bologna, dove «i blocchi alloggiativi si presentavano in condizioni del tutto fatiscenti e, nel caso di Bologna, erano addirittura assenti i requisiti minimi di vivibilità». Inoltre gli autori del dossier hanno rilevato l`assenza del servizio sanitario nazionale all`interno dei centri e gli ostacoli rilevanti nell`accesso alle cure specialistiche e agli approfondimenti diagnostici. Il dossier conclude chiedendo la chiusura di tutti i Cie presenti in Italia in ragione della loro palese inadeguatezza strutturale e funzionale, ridurre a misura eccezionale, o comunque del tutto residuale, il trattamento dello straniero ai fini del suo rimpatrio e il rispetto della normativa europea che obbliga il nostro Paese ad utilizzare il metodo di coercizione come estrema ratio ai fini del suo rimpatrio. I Cie sono istituzioni totali, adibiti a carceri di passaggio dove agli immigrati sono sospesi tutti i diritti fondamentali. Il provvedimento di Manconi, se diventerà legge, sarà comunque un bel passo in avanti.



La storia. Dagli archivi della polizia spuntano i messaggi destinati alle mogli e alle fidanzate rimaste in patria Parole che raccontano l`altra faccia di una tragedia senza fine
"Amore mio, non morire ti porterò in Italia con me" le lettere mai spedite dei migranti sepolti in mare
la Repubblica, 19-09-14
FRANCESCO VIVIANO
POZZALLO. «Mio adorato amore, per favore non morire, io ce l`ho quasi fatta. Dopo-mesi e giorni di viaggio sono arrivato in Libia. Domani mi imbarco per l`Italia. Che Allah mi protegga. Quello che ho fatto, l`ho fatto per sopravvivere. Se mi salverò, ti prometto che farò tutto quello che mi è possibile per trovare un lavoro e farti venire in Europa da me. Se leggerai questa lettera, io sarò salvo e noi avremo un futuro. Ti amo, tuo per sempre Samir». Questa è una lettera che non è mai arrivata a destinazione, una delle tante. Si conosce solo il mittente, "Samir", probabilmente egiziano, età apparente 20-25 anni. È la lettera di un morto, uno dei tanti cadaveri giunti nei barconi a Pozzallo o ripescati da mercantili in navigazione e dalle navi della nostra Marina militare dell`operazione Mare Nostrum, che nel Canale di Sicilia da mesi raccolgono vivi e morti.
Quella di Samir è una delle tante lettere d`amore e dí speranza inviate dagli uomini in fuga dal Sud del mondo alle mogli e fidanzate che hanno in Ghana, Nigeria, Egitto, Palestina, Etiopia, Eritrea. Lettere che non sono mai state spedite e che sono state trovate nelle loro tasche, molte chiuse ín buste di plastica per non farle distruggere dal mare e che portavano addosso come reliquie. Spesso le reliquie sono diventati inutili testamenti. «Troviamo di tutto in quelle tasche e nelle buste di plastica che portano attorno al collo», racconta uno dei poliziotti della squadra mobile di Ragusa da mesi impegnato a Pozzallo, «fotografie dei figli, delle mogli, dei genitori.
Non sono utili alle indagini, ma quando le traducono ti fanno venire un groppo in gola». Sono lettere scritte in arabo, francese e inglese, come quella di "George", probabilmente di origine liberiana, che avrebbe scritto alla sua amata quando dal porto di Zuhara salì su uno dei barconi salpato verso le coste di Lampedusa: «Amore mio, finalmente sono arrivato. La vita comincia adesso, spero ditornare presto per portarti con me e vivere insieme lontani dalla guerra. Ti Amo».
Fotogrammi di una tragedia senza fine che si consuma ogni giorno nelle acque internazionali, tra la costa libica e quella siciliana. Spesso, consapevoli di non arrivare vivi alla destinazione sperata, i fuggitivi copiano queste lettere e le consegnano ad altri compagni di viaggio nella speranza che possano sopravvivere e inviare notizie ai loro congiunti. Su un pacchetto di sigarette trovato nelle tasche di uno dei tanti cadaveri ormai sepolti senza nome in uno dei tanti cimiteri sparsi tra le province di Ragusa e Agrigento e ritrovato da un collega del New York Times, c`era una brevissima lettera scritta a mano in dialetto tigrino, una delle lingue eritree. C`era scritto: «Volévo essere con te. Non osare dimenticarmi. Ti Amo tantissimo, il mio desiderio è che tu non mi dimentichi mai. Stai bene amore mio. A ama R». Era una lettera indirizzata ad una ragazza il cui nome cominciava per "A" e scritta da "R". Mai arrivata a destinazione, ormai parte degli archivi dei fantasmi del mare. Racconta il poliziotto di Ragusa: «In alcuni fogli si leggono racconti della prigionia nelle carceri libiche, in attesa del trasferimento sui barconi che li avrebbero dovuti portare, vivi, in Italia». Lettere scritte alle madri dove ragazzi raccontavano la loro odissea, la traversata nel deserto, il pizzo pagato a ogni frontiera e il saldo ai trafficanti, i biglietti numerati presi per salire a bordo delle carrette che non si sa mai se arriveranno a destinazione.
L`archivio della speranza e della morte è lunghissimo. Nelle tasche dei molti morti e di alcuni sopravvissuti marinai e poliziotti hanno trovato le foto delle loro ragazze e dei figli lasciati in Eritrea, le fotocopie dei documenti d`identità dei loro bambini nella speranza che, un giorno o l`altro, anche loro li avrebbero raggiunti.



Migranti speronati: li volevano uccidere
Avvenire, 19-09-14
Nello Scavo
«Prime conferme» da «plurime fonti». In altre parole, non ci sono più dubbi. Per la procura di Catania il deliberato affondamento di un barcone partito dall’Egitto con a bordo circa 500 migranti è un fatto certo. La più grave strage di migranti mai avvenuta nel Mediterraneo. L’unica, a quanto se ne sa, voluta dai trafficanti per punire l’ammutinamento dei "passeggeri".
La conferma del naufragio avvenuto il 10 settembre, quale rappresaglia sui profughi che protestavano per le pericolose condizioni in cui avrebbero dovuto proseguire la traversata, era stata anticipata da Avvenire il 16 settembre. E ieri il procuratore capo di Catania, che ha avviato un’indagine sulla tragedia, ha spiegato che l’inchiesta ha già portato a «significativi progressi - ha riferito Giovanni Salvi con una nota - nell’individuazione della struttura dell’organizzazione criminale responsabile dell’evento». Un’accelerazione che potrebbe fruttare risultati importanti già nei prossimi giorni, grazie alla «completa collaborazione delle autorità giudiziarie e di polizia di più Stati, tra cui Egitto, Grecia e Malta». Gli inquirenti etnei hanno ribadito la necessità di non riferire ulteriori dettagli per non compromettere l’esito investigativo: «Lo sviluppo positivo delle indagini ci induce a non fornire ulteriori notizie».
Il peschereccio su cui erano stati caricati i migranti avrebbe dovuto essere governato da un gruppo di scafisti improvvisati, ovvero profughi che per non pagare i duemila dollari della traversata illegale si sarebbero prestati a condurre il barcone. Ma questi, insieme ai migranti che avrebbero dovuto trasportare, si sono ribellati quando si sono resi conto che difficilmente il peschereccio – un vecchio legno destinato al disarmo – avrebbe retto il mare. Una specie di insurrezione contro cui i trafficanti presenti sulla nave madre si sono scagliati con violenza, prima lanciando oggetti contro i profughi e poi puntando la prua di ferro contro la coda del barcone, fino a farlo ribaltare.
Due giorni fa una nave mercantile ha avvistato alcuni cadaveri nel tratto di mare indicato dai sopravvissuti. Più di duecento persone sono rimaste intrappolate nel peschereccio usato per il trasbordo: si tratta di quanti erano stati costretti ad accovacciarsi nella stiva e che non hanno avuto modo di poter gettarsi in acqua prima che il barcone colasse a picco. Gli altri sono morti perché incapaci di nuotare o perché sfiniti dalle molte, quasi due giorni, trascorse alla deriva.
Gli inquirenti hanno ottenuto dai dieci superstiti e da altre fonti in Egitto, l’indicazione esatta del luogo di partenza della nave madre e alcuni riferimenti che portano ai trafficanti con cui i profughi si erano messi in contatto per raggiungere l’Europa, oltre a dettagli relativi ai mezzi utilizzati. Pur trovati alla deriva a miglia di distanza gli uni dagli altri -  perciò soccorsi e accompagnati in Sicilia, Malta e Creta - i naufraghi hanno fornito alle autorità dei tre Paesi i medesimi resoconti, precisando circostanze perfettamente coincidenti. «Impossibile che abbiano potuto concordare la medesima versione», osserva un investigatore siciliano. Peraltro il lavoro della procura di Catania e della polizia di Ragusa e Siracusa si avvale di «materiale probatorio raccolto in precedenza», che si è rivelato utile anche in questo caso. In Egitto la regia degli sbarchi sarebbe unica e si è adesso molto vicini a individuare le basi degli scafisti.
Prima della partenza le circa cinquecento persone, tra cui un centinaio di bambini tra i pochi mesi di vita e i dieci anni di età, erano state stipate in quattro autobus che dalla frontiera tra Israele ed Egitto li hanno accompagnati nel porto di Damietta, capitale dell’omonimo governatorato egiziano sul delta del Nilo. Da lì sono stati caricati su un’imbarcazione salpata il 6 settembre. Un servizio navetta svolto alla luce del sole. Nei giorni successivi i malcapitati hanno dovuto affrontare tre trasbordi. Gli organizzatori, infatti, hanno pianificato una staffetta in mare, forse allo scopo di confondere gli eventuali controlli radar e facendo passare i barconi per comuni pescherecci che fanno la spola al largo del Nordafrica.
In anni di sbarchi non si era mai sentito niente di simile. Per questo il procuratore Giovanni Salvi chiede di poter lavorare nel massimo riserbo. Gli investigatori vogliono mettere le mani sui colpevoli di un atto efferato, «che se interamente confermato sarebbe di eccezionale gravità».



Profughi a Milano con i charter Una tendopoli per l'emergenza
Corriere della sera, 19-09-14
Alessandra Coppola Gianni Santucci
Prima scena, aeroporto di Malpensa, mezzanotte di qualche giorno fa: ambulanze, polizia e alcuni pullman attendono vicino alla pista. Atterra un volo charter della compagnia aerea Albastar. Scendono un centinaio di profughi, per lo più siriani ed eritrei: accompagnati da un reparto delle forze dell'ordine, sono stati trasportati in aereo dalla Sicilia, dove erano sbarcati poche ore prima.
Seconda scena, aeroporto di Bresso: nel centro della Croce Rossa in fondo al piazzale, è stato allestito un vasto centro d'accoglienza, oltre dieci grosse tende blu con la scritta «Ministero dell'Interno». Ë li che vengono ospitatati i profughi appena inviati a Milano.
Terza scena, corridoi e saloni al piano terra della questura di Milano: nelle prime ore del mattino arrivano gli autobus turistici con i profughi; i poliziotti indossano una mascherina, i rifugiati attendono intere giornate per le procedure; le foto, le impronte digitali, il controllo dei documenti.
Ecco, queste scene si ripetono da una settimana. Da quando, senza comunicazioni pubbliche, è cambiato il metodo di gestione nazionale dei profughi che sbarcano in Italia, condotti in porto dalle navi della Marina che intercettano i barconi in mare. Si è adesso messa in moto una macchina organizzativa complessa. E molto costosa. Che sta coinvolgendo sempre più prefettura, questura e Croce Rossa di Milano. Per capire cosa sta accadendo, bisogna ascoltare il racconto di Jibril, siriano, che alle 17 di ieri esce con i suoi familiari - quattro adulti e tre bambini - dal centro della Croce Rossa in via Clerici, a Bresso.
Tra gli 837 migranti soccorsi nel Mediterraneo dalla fregata Fasan e depositati sul molo di Salerno tre giorni fa, c'era anche questa famiglia. Nel foglietto che Jibril tiene in mano, sono annotati un numero di radiotaxi e una destinazione: «Milan central station». Vogliono rimettersi in viaggio: «Abbiamo dei parenti in Svezia». Il problema, spiega, è che «la polizia ci ha preso i passaporti e le impronte digitali, siamo stati sfortunati, agli altri non è successo. Vicino a Napoli, ci hanno caricati su dieci pullman, solo il nostro si è fermato qui», nella tendopoli blu appena allestita all'interno del centro. «Persone molto gentili - aggiunge la moglie, parlando degli operatori della Croce Rossa che in questi giorni stanno facendo grandi sforzi -, ma la notte fa freddo per i bambini, è pieno di zanzare e di insetti. Che senso ha restare?».
Lo stupore è legittimo. Jibril è un ingegnere informatico, parla bene l'inglese, prima di mettersi in viaggio dalla Siria, fino alla Libia, quindi in mare verso l'Italia, si è informato. E sa che per mesi e mesi di fatto pochissimi profughi
sono stati fotosegnalati (come prescriverebbero, invece, le norme nazionali ed europee). Una questione delicata, motivata da ragioni di ordine pubblico e dalla difficoltà di gestire flussi così ingenti. Di fatto, però, decine di migliaia di persone hanno attraversato l'Italia senza lasciare traccia.
È un punto cruciale: la richiesta di asilo va presentata nel primo Paese d'ingresso in Europa, molti profughi intendono raggiungere la Svezia o la Germania, a lungo l'Italia (non prendendo le impronte) ha favorito questo passaggio. Da qualche giorno, invece, sono arrivate nuove indicazioni da Roma. Jibril sa che molti suoi connazionali hanno potuto continuare il viaggio. Lui, invece, ha in mano un altro foglio: una convocazione in questura per il 12 dicembre. E si chiede: «Perché?».



Bimbi nel degrado in Centrale L'Unicef si ribella: «Agire ora»
Le associazioni che tutelano l'infanzia reagiscono alle immagini-choc E Fs precisa: «Nostro spazio già messo a disposizione per l'emergenza»
il Giornale, 19-09-14
Non è un certo fotomontaggio, garantisce la consigliera di Forza Italia. Dunque si può discutere quanto si vuole sulla Centrale, sull'accoglienza dei profughi, sulle responsabilità e la strumentalità.
Ma una cosa è impossibile: cancellare quelle immagini dei bimbi - profughi siriani - che dormono davanti alla Stazione in mezzo alla sporcizia. Il Comune si difende rivendicando il lavoro fatto in questi mesi e chiama in causa Grandi Stazioni e governo. Ma un dato è inconfutabile: nella città dell'Expo e della moda ci sono dei bimbi che invece di andare a scuola dormono in pieno giorno su giacigli di fortuna, sopra marmi e cartoni. La cosa colpisce in profondo. E infatti, dopo le foto diffuse da Silvia Sardone, consigliere di zona di Forza Italia, intervengono un po' tutti. L'Unicef, in primo luogo. «Non possiamo restare indifferenti - dice il portavoce di Unicef Italia Andrea Iacomini -. Le immagini di alcuni bambini siriani che dormono per terra rannicchiati su cartoni o nel mezzanino della Stazione Centrale, sono la rappresentazione di un mondo che non vogliamo e che non può voltare le spalle al calvario di questo popolo che dura da tre anni. Questa situazione rappresenta una palese violazione della Carta dei diritti dell'infanzia che prevede il diritto ad accogliere e proteggere ogni bambino ovunque esso si trovi». «La cittadinanza milanese - precisa Iacomini - si è mobilitata da tempo per assistere le famiglie siriane così come il Comune sappiamo essere sempre in prima linea nel fronteggiare questa difficile emergenza. Ma non basta. Il governo deve intervenire con misure urgenti per accogliere al meglio questi piccoli indifesi. Le istituzioni regionali, provinciali e comunali facciano quadrato e superino la polemica politica fuori da ogni strumentalizzazione che coinvolge i minori». L'Unicef lancia poi un appello in occasione della settimana della Moda, «anche per i bambini», «affinché nessuno, passando in stazione, resti impassibile di fronte a questo scabroso spettacolo». Save the Children chiede un presidio medico con orario più ampio rispetto a quello che opera solo dalle 14 alle 18 alla stazione, «in cui sia presente anche un pediatra, con prontuario medico adeguato, che possa operare in di uno spazio di visita salubre e igienico».
Intanto il gruppo Fs fa sapere di avere, il 15 settembre, messo a disposizione uno spazio di 350 metri quadri in via Sammartini, «che potrà essere concesso in comodato d'uso per tutto il periodo» dell'emergenza», rendendosi disponibile a sostenere le spese legate a progetto esecutivo e direzione dei lavori per renderlo funzionale. L'assessore Pierfrancesco Majorino prima risponde così: «Mi risulta essere uno spazio oggi assolutamente inutilizzabile. Quindi ci vorranno dei mesi. E noi è da mesi che lo chiediamo». Poi col collega Marco Granelli aggiunge: «Lo spazio offerto da Grandi Stazioni necessita di pesanti lavori di riqualificazione e messa a norma che richiederanno mesi di interventi. Altro tempo che avremmo potuto evitare di perdere se i nostri appelli fossero stati accolti tempestivamente». Quindi fa i conti: da ottobre dalla Stazione sono transitate 38mila persone, 10mila bimbi, tutti ospitati da Comune, Caritas Ambrosiana, Terzo Settore e volontari, fino ad ospitare 1.400 profughiper notte



Appello da Gaza: “Oltre 90 dispersi nel naufragio, diteci se sono vivi o morti”
Ramy Balawi, insegnante di storia e già autore della lettera in ricordo del reporter Camilli, ha pubblicato su Facebook le foto di alcuni dei giovani amici di cui non si hanno notizie da 9 giorni. Le famiglie, disperate, chiedono notizie sulla loro sorte
Redattore sociale, 18-09-14
ROMA - Mohammed Jaber Nabahin aveva solo 24 anni ed era il figlio maggiore, quello su cui la sua famiglia contava. Ora i suoi genitori sono disperati. Come lui, Sajed, Mohammed e Khalil. Sono solo alcuni dei nomi di oltre 90 palestinesi partiti da Gaza verso l’Europa e di cui si sarebbero perse le tracce dopo il naufragio di alcuni giorni fa. Le famiglie non hanno loro notizie da circa nove giorni. A farlo sapere ancora una volta tramite Facebook è Ramy Balawi, 26enne di Gaza e insegnante di storia, che ha pubblicato sul suo profilo le foto di quattro di loro che erano suoi amici. Tutti giovanissimi, poco più che ventenni.
“Qui i familiari vogliono sapere se i figli sono vivi o morti e dove sono i loro corpi. Chiediamo che le organizzazioni per i diritti umani in Europa facciano pressione sui governi europei per cercare i dispersi di Gaza, per noi è la più grande tragedia in mare” dice a Redattore Sociale sempre attraverso il social network.
Balawi ricorda la situazione a Gaza dopo la fine dei bombardamenti israeliani, l’inferno da cui questi giovani cercavano di fuggire . “51 giorni di guerra hanno lasciato oltre duemila morti, di cui oltre 500 bambini e più di diecimila feriti, la distruzione e il bombardamento di migliaia di case a Gaza, più di duecentomila sfollati – dice alla nostra agenzia – migliaia di persone sono ancora nelle scuole del’Unrwa e chi ha una casa di familiari ancora agibile vive in 40 in un appartamento. Le condizioni sanitarie sono tragiche, molti vivono nelle tende accanto alle macerie dalla loro casa, senza acqua né corrente elettrica”.
Di queste persone che dormono fra le rovine dei palazzi distrutti durante la guerra, Balawi ha pubblicato diverse foto su Facebook. Anche la sua casa è stata bombardata e ora vive dai parenti. “Cerco disperatamente un appartamento da affittare e non lo trovo – racconta - i prezzi sono saliti alle stelle, mentre la gente ha perso tutti gli averi sotto le bombe. In questo momento cercare casa a Gaza è come cercare una moneta nell’Oceano, ci sentiamo come in una Nakba dei giorni moderni”. La richiesta è ancora una volta di avere libertà e dignità per i palestinesi di Gaza. (Raffaella Cosentino)



Alunni stranieri. Giannini: "No a classi ponte, formiamo i docenti per l'integrazione"
Il ministro dell'Istruzione: "Separare i bambini non serve, in Francia non ha funzionato. Gli insegnanti non devono trasmettere solo la lingua, ma anche la cultura italiana"
stranieriinitalia.it, 19-09-14
Roma - 18 settembre 2014 – Per i figli degli immigrati  non servono classi separate, ma insegnanti reprati ad affrontare la sfida di un scuola multiculturale.
La pensa così il ministro dell'Istruzione Stefania Giannini a proposito del dibattito sull'asilo di Padova dove, su 66 alunni, una sola è figlia di italiani".
"Una caso limite che grida vendetta"  ha detto il sindaco di Padova Massimo Bitonci. L'esponente leghista ha rilanciato l'idea di "classi ponte, che consentano agli alunni stranieri di superare il gap accumulato, agli italiani di non maturare ritardi rispetto ai coetanei che frequentano altri istituti".
"Le classi separate, sperimentate in Francia per molti anni, non hanno dato ottimi risultati per l'integrazione" ha risposto ieri il ministro dell'Istruzione ospite di Un giorno da pecora su Radio2.
Secondo Giannini, "quello che si deve fare e' affrontare il tema dell'integrazione dei bambini stranieri in maniera molto seria e rigorosa, cioe' formando gli insegnanti perche' sappiano non solo insegnare la lingua ma anche la cultura".

 

Profughi. Austria: "Nessun Paese resti solo", ma intanto li respinge in Italia
Il cancelliere Faymann: "Serve una politica ccomune per l'asilo". Il Coisp: "Emergenza al Brennero, tra luglio e settembre le autorità austriache hanno rispedito indietro oltre duemila stranieri"
stranieriinitalia.it, 19-09-14
Roma, 19 settembre 2014 - Il problema delle politiche di asilo e dell'immigrazione "puo' essere risolto solo a livello europeo": "nessun paese puo' rimanere da solo neanche per quanto riguarda la prima accoglienza come fa l'Italia, o per la sistemazione dei profughi di cui l'Austria ha una percentuale particolarmente alta".
Lo ha detto ieri il cancelliere austriaco Werner Faymann, a margine di un incontro con il ministro degli Esteri italiano Federica Mogherini a Roma.
"L'Europa deve sviluppare insieme una politica che risponda anche alle esigenze delle persone in fuga, una politica comune in cui tutti i Paesi si impegnino, compresi quelli che oggi danno un contributo minore", ha aggiunto il cancelliere sottolineando che questo sara' un punto importante da trattare da parte della nuova Commissione Ue e dai governi nazionali.
"Il problema", ha insistito, "va risolto a livello europeo, non entro confini dei singoli Paesi". "Senza soluzione Ue, la questione dei profughi non potra' risolversi umanamente e politicamente in maniera decente", ha concluso Faymann.
Intanto, però, il sindacato di Polizia Coisp parla di "emergenza immigrazione" al commissariato del Brennero. Lì si starebbero infatti ammassando i profughi che tentano di entrare in Austria, ma vengono respinti.
"Nei mesi di luglio e agosto - spiega una nota - le autorità austriache hanno 'rispedito' in Italia oltre 1.400 stranieri, mentre a settembre il numero supererà abbondantemente le 700 riammissioni".
"Questa situazione - afferma il sindacato dei poliziotti - non può ricadere sulle spalle dei colleghi, lasciati soli a gestire un flusso migratorio di proporzioni mai viste".

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Ospiteremo qui, ogni settimana, casi, vertenze, questioni ancora aperte o che hanno trovato una soluzione. Chiunque volesse porre quesiti su singole situazioni o tematiche generali, relative alle norme e alle politiche in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza nonché all'accesso al sistema di welfare locale da parte di stranieri, può farlo scrivendo a: immigrazione@arci.it o telefonando al numero verde 800905570
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