Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

15 luglio 2014

Barricate e minacce Castel Volturno sull`orlo della guerra razziale 
Tensione dopo gli spari. Blocchi stradali di italiani e migranti 
Alfano: "Siamo accoglienti ma non c`è spazio per tutti" 
la Repubblica, 15-07-14
CONCHITA SANNINO 
CASTELVOLTURNO. La guerra è riesplosa. L`odio ha avuto ancora la meglio. Prima lo scontro di domenica sera: bianchi che sparano sui neri alla cieca, con il pretesto che li hanno visti rubare; e i neri che, in risposta, arrivano in massa come diavoli nella notte, a incendiare, distruggere, seminare terrore. Poi, il disordine e la paura che dilagano in piazza anche ieri: con blocchi stradali dei residenti da un lato, e degli immigrati dall`altro. E il caos, la tensione, il rischio di linciaggi temuti, o promessi, su entrambe le barricate. Avviene a Pescopagano, terra di nessuno trai comuni di Castel Volturno e Mondragone, nel casertano. Le proteste isolano per ore la statale Domitiana, mandano allo sbaraglio migliaia dí pendolari diretti verso sud o nord, per lavoro o vacanza. Il bilancio è di due uomini fermati da polizia e carabinieri: sono Giovanni e Cesare Cipriani, padre e figlio, 60 e 21 anni, accusati di duplice tentato omicidio dei due giovani della Costa d`Avorio. Indaga la Procura di Santa Maria Capua Vetere. Gli indagati raccontano che «i neri stavano rubando una bombola di gas»: avrebbero reagito male al richiamo dell`anziano, un ras del paese dai modi spicci e dalle opache relazioni, al punto da gestire da anni una società di vigilanza mai nemmeno autorizzata. Si attende la convalida del gip entro stasera. 
Le nuove tensioni, intanto, riaccendono la polemica sull`immigrazione. Forza Italia e Lega attaccano il governo. E íl ministro dell`Interno Alfano avverte: «L`Italia è un Paese accogliente ma certo non può accogliere tutti». 
 
 
 
Bianchi contro neri nella terra di nessuno "Fate qualcosa o ci uccideremo a vicenda" 
la Repubblica, 15-07-14
CONCHITA SANNINO 
CASTEL VOLTURNO. Il sangue è ancora a terra, in via Lista. È il punto in cui la polveriera dei dimenticati, la Pescopagano dei nigeriani ghanesi senegalesi mischiati enascosti trai cittadini italiani, ha visto precipitare la pigra serata da finalissima Mondiale nella cupa fiammeggiante sommossa alla "Rodney King" casertana. E ora la striscia di Gaza di questa frazione di Castel Volturno toccata dal mare, a metà tra due comuni e nessuno Stato a curarsene, è divisa anche in due blocchi di protesta, che per la prima volta alzano le mani solo per ufficializzare l`odio, e in fondo la fatica e l`incapacità di andare avanti così. Da soli, con le loro leggi che non danno certezze e il loro dio che non risponde. 
Il blocco Uno è dei bianchi, sulla Domitiana, sono loro a cominciare a mezzogiorno. Prima pochi uomini e ragazzi, poi le famiglie, poi perfino le signore dagli stabilimenti balneari più lontani ma accarezzati e sporcati dallo stesso mare. «Ma voi dite sempre che siete impotenti, che non potete fare nulla -grida un commerciante ambulante sulla ventina a un carabiniere - ma allora cosa aspettate? Che noi, a questi neri li uccidiamo e li gettiamo nelle terre? O volete che ci ammazziamo tra noi? Tanti povericristi africani ci sono, e io li conosco, ma gli altri rubano e fanno del male, fate pulizia».. 
Il blocco Due si forma subito dopo, a centocinquanta metri, sulla Consortile. Sono tutti africani. Difendono quel sangue ancora a terra, di due ragazzi ivoriani, feriti domenica e per caso scampati alla morte. «Non è vero che quei nostri fratelli stavano rubando una bombola di gas - dice il più calmo - noi siamo guardati con disprezzo, con odio, ci insultano e poi vogliono i nostri soldi per fittare delle fogne e cercano la nostra manodopera e il nostro silenzio per i lavori più umili». È una ferita che ne apre altre e scava nuove trincee e si mischia a frustrazioni, inganni, degrado e sogni di perduta bellezza della Domitiana ridotta a enorme lager: per i poveri di ogni etnia; e per i ricchi residui, alcuni neri e criminali, come i boss bianchi. 
Così, lentamente, il paesaggio si è ripiegato sulla nuova geografia. E Castel Volturno, e il lembo di Pescopagano sono diventati dormitorio a cielo aperto di case o svaligiate e lasciate alla merce degli immigrati che arrivano; oppure di ville super accessoriate e coperte di cancelli e vigilantes privati, ufficiali o clandestini. È Qui dentro che c`erano i semi della loro "Rodney King", come la rivolta che infiammò Los Angeles, dopo l`assoluzione dei poliziotti che pestarono "re Rodney". Enrico Masiti, un impiegato, protesta: «Basterebbe che un paese civile si interrogasse sulle sue bombe sociali, sarebbe bastato fare una sola azione amministrativa esemplare all`anno». Patrizia Del Vacchio, artista che viene solo d`estate a rimettere i piedi nell`acqua che l`ha vista ragazzina: «Diciamo la verità: se non ci fossero stati i Cipriani, famiglia temuta, che "vende" la sua vigilanza a noi qui intorno, quanti sarebbero scesi in piazza?». Già: imbarazzante la storia dei Cipriani, l`anziano finito in carcere è cognato del vicesindaco Pd di un comune vicino. 
«Non ci sono innocenti, siamo tutti vittime, però la colpa è delle istituzioni», abbassa gliocchi Flora Giordano. «Pensare che venivo dall`età di nove anni, mio padre si innamorò di questo posto, fece comprare casa alle sorelle, agli amici. Ma ogni volta che torno, confronto quei ricordi con l`immondizia, l`abbandono e la terra dei dannati che vedo. E quanti furti, quante devastazioni: purtroppo sono loro, a compierle». Anna Musella confessa: «Io e mia madre ci trasferimmo qui anni fa. Sa che noi non lasciamo mai la villa incustodita? O esce lei, o esco io». 
Perfino Angela, la ragazza sotto choc della famiglia Cipriani, l`adolescente che ha vissuto momenti di panico durante l`assalto dei neri, domenica, barricandosi in casa e implorando un vigile del fuoco di tenerle compagnia al telefono mentre quelli distruggevano e entravano al piano di sotto, perfino lei nonostante il suo punto di vista deve riconoscere e ringraziare l`aiuto che le ha dato un altro nero: «Scrivetelo per favore. Voglio ringraziare quel pompiere, e anche quell`africano». Ora che il ministro Alfano promette interventi e il presidente dei deputati di Sel, Arturo Scotto, replica: «Più diritti per tutti a Castel Volturno», è chiaro che la storia di questa polveriera dell`immigrazione è stata scritta anche con il sangue dei neri: di Jerry Masslo, dei sei ghanesi innocenti massacrati nel 2008 dalla stragista di Giuseppe Setola, superkiller dei casalesi. E di quel Jospeh Ayirnbora, unico sopravvissuto, che nell`unica intervista non insultò i bianchi ma disse «Dio lavorava su di me mentre quelli sparavano», È la stessa teoria di abbandono e odii costruiti nel laboratorio delle scelte mancate, dell`accidia di governo, locale e centrale. È come quella striscia che è rimasta invia Lista, lo stesso muto filo di sangue. 
 
 
 
Castel Volturno, se a vincere è la legge del clan 
Il Mattino, 15-07-14
Antonio Pescale 
Se si dispone di poco tempo per studiare la via Domiziana e conoscere il territorio che da qui si innerva verso l`interno, basta osservare alcune villette a schiera. Un tempo floride e ben curate, seconde o terze case, ora cascanti e rovinate, e usate a scopo speculativo, cioè per alloggiare a prezzi vantaggiosi gli immigrati - tanto è vero che i proprietari prendono 200/300 euro a persona e alcune villette ospitano decine di immigrati. 
Bene, per capirci, sui tetti di alcune di queste villette sono visibili molte antenne paraboliche. Un singolo tetto, più antenne. Segno che non solo in una villetta ci abita tanta gente, ma che ogni stanza ospita gruppi di persone di diversi gusti, preferenze culturali, etnia e nazionalità. 
Naturalmente, tante case sono abusive, alcune fungono da case chiuse per prostituzione, poi ci sono le bande nigeriane, la camorra nostrana, ci sono svariate cave abusive, zone palustri e discariche contenenti rifiuti di ogni ordine e grado. Per non parlare delle carcasse - quelle non si trovano nemmeno nel deserto. Tutto sembra spezzettato, isolato, privato: alcuni negozi hanno la vetrina sul bordo strada e il locale da un`altra parte. Se si percorre la Domiziana, di notte soprattutto, stordito dalle luci pubblicitarie dai colori squillanti, ti prende sia una sensazione di inquietudine e di pericolo (sembra di essere in un posto alieno) ma anche un`altra, forse, una declinazione della prima: ti rendi conto che qui puoi fare quello che vuoi. Tanto non c`è nessuno che controlla. Per essere più precisi, ci sono molti micropoteri predatori ma nessun potere legale, capace seriamente di mediare i conflitti. Il territorio è troppo vasto, disarticolato, troppo difficile da p attugliare e controllare: ci sono, insomma, troppe antenne paraboliche che occupano spazi. E lo spazio comune è sentito come bene da conquistare e privatizzare. Ora, bisogna essere realisti. Vero, qui ci vivono tante brave persone che ogni giorno lottano contro tutto questo e spesso con conseguenze serie sulla propria vita. Ci sono tante comunità africane che cercano in ogni modo di proteggerei propri membri dall`illegalità, tenersi fuori dai guai e risolvere i conflitti attraverso le normali vie. Tutto questo è vero e tuttavia, chiunque abiti su questa strada pensa che prima o poi gli toccherà combattere per il territorio, affrontare qualcuno, farsi valere, costi quello che costi. Sono sentimenti primordiali e poco nobili - egoismo, vendetta, orgoglio, dimostrazione di forza, giustizia fai-da-te ma del resto, un territorio così ti fa sentire solo, indifeso e dunque cerchi la protezione del tuo clan di riferimento. Non solo, sei poco disposto a riconoscere i limiti del tuo clan, anzi, al contrario, ti chiudi ancora di più nelle sue ristrette mura e in alcuni momenti hai s olo un pensiero intesta: abbattere le mura dell`altro clan. Il problema è che questa situazione è nota da svariati decenni e pochi, scarsi sono stati gli interventi dello Stato per ripianare conflitti e garantire la sicurezza del cittadino. C`era gente che si sentiva sola 40 anni fa e si sente sola ancora adesso e ripete come una cantilena: dov`è lo Stato? Questi sono territori particolari, cresciuti in questo modo perché conveniva a tanti. Ora forse, anche se è difficile immaginare un intervento radicale (che sono tra l`altro facili da proporre e per questo consolatori) bisognerebbe prendere in seria considerazioni l`idea di una commissione di inchiesta sulle cause di questo disastro urbanistico, e di una serie di interventi statali di ricucitura - anche di fattura sperimentale. Senza una memoria storica e il segno di una presenza statale - anche minimo ma concreto - capace di garantire la risoluzione dei conflitti, la situazione è destinata a esplodere e poi i pezzi di questo territorio non potranno più essere ricomposti. 
 
 
 
A Castel Volturno è guerra tra poveri
Avvenire, 15-07-14
Antonio Maria Mira
Una giornata di tensione dopo una serata di violenza, a Pescopagano frazione di Castel Volturno. Immigrati e abitanti del grande centro sul litorale domizio si sono fronteggiati a lungo, separati dalle forze dell’ordine. Barricate, insulti, provocazioni e frasi razziste. Emerge ancora una volta la difficile convivenza, guerra tra poveri, tra sfruttamento e microcriminalità, in una zona a forte presenza camorrista.
Tutto è cominciato domenica sera, quando Pasquale e Cesare Cipriani, padre e figlio, famiglia molto nota, titolare di un’impresa di vigilanza ma anche accusata di legami con la camorra, fermano due giovani ivoriani. Li accusano di aver rubato una bombola del gas, loro replicano che non è vero, poi vola qualche ceffone. Tutto sembra finire lì. Ma il giovane Cipriani torna armato e spara alle gambe dei due immigrati. È l’innesco della nuova rivolta, dopo quella ben più ampia del 18 settembre 2008 quando il gruppo camorrista di Giuseppe Setola uccise sei africani in un altra zona di Castel Volturno. Un centinaio di immigrati scende in strada, barricate, rifiuti e auto incendiate, alcuni assaltano la sede della vigilanza e la casa della famiglia e appiccano il fuoco. A malapena si salva un ragazzina di 15 anni. Vengono fermati i due italiani e identificati gli immigrati. Mentre i due feriti sono ricoverati ma fuori pericolo.
La tensione va avanti per tutta la notte. E alla fine scendono in piazza anche gli abitanti di questa ex zona residenziale lungo la costa, rifugio di latitanti, tra abusi edilizi e degrado. Terra di nessuno, poi terra di migranti, come tutta Castel Volturno. «L’Italia è un Paese accogliente ma certo non può accogliere tutti, contatterò anche i sindaci per ragionare insieme sul da farsi», fa sapere il ministro dell’Interno Angelino Alfano.
E tocca proprio al sindaco Dimitri Russo, appena eletto, fare da mediatore: «Il fragile equilibrio tra italiani e immigrati si sta spezzando. Qui c’è una bomba sociale pronta ad esplodere. Non c’è alcuna percezione dello Stato semplicemente perché lo Stato non c’è». Mentre don Guido Cumerlato, parroco di San Gaetano Thiene, unica realtà attiva a Pescopagano, in una lettera aperta scrive di farsi «carico della paura e della rabbia che oggi si respira tra i rivali del paese. La situazione è grave – denuncia anche lui –. Siamo in una situazione di "stallo". Occorre che si risponda a questo malore, evitando che ognuno ricorra alla via della "giustizia privata" e la via della "vendetta"». Infine l’appello a «"curare" questa terra insieme. Da soli o in "piccoli gruppi" non è possibile arrivare a soluzioni».
In serata restano due posti di blocco delle forze dell’ordine, mentre gli abitanti fanno due richieste: un presidio di sicurezza e il controllo degli immigrati nelle case, su regolari e no. Se non saranno ascoltati minacciano di bloccare sabato la via Domiziana. «Però dimenticano che le case vengono affittate dai locali che li sfruttano», commenta don Guido.
 
 
 
Piazza: «Il degrado impera. Serve una svolta»
Avvenire, 15-07-14
Antonio Maria Mira
«A Pescopagano la Chiesa fa tanto, è impegnata da anni, ma è sola, il parroco è solo. Invece bisogna trovare  una linea comune, noi come Chiesa ci offriamo per essere luogo di coordinamento, con le istituzioni del territorio perché da soli non ce la possiamo fare». È molto chiaro monsignor Orazio Francesco Piazza, vescovo di Sessa Aurunca, nel cui territorio si trova la frazione di Castel Volturno. Che lancia un preciso appello, «un grido d’allarme: non facciamo degenerare una situazione che è sottopelle tutti i giorni. Dobbiamo riuscire a dare una svolta a un contesto dove domina il degrado sociale e ambientale».
Monsignor Piazza, dunque anche qui la Chiesa combatte da sola? Lo possiamo dire in modo esplicito. La nostra attenzione non è mai venuta meno. Pescopagano è nostra fino in fondo. E lo facciamo seguendo come linee pastorali le indicazioni del Papa: immigrazione, famiglia, economia e lavoro. Ma, lo ripeto, da soli non ce la possiamo fare e per questo invoco una rete comune di collaborazione tra tutte le istituzioni. Noi stiamo già operando in questo senso con un gran lavoro di tessitura per accogliere e integrare, ma almeno per ora non si riesce a vedere una via d’uscita.
Così del vostro territorio si parla solo quando avvengono fatti violenti.
Purtroppo è vero. Se non ci scappa il morto nessuno se ne occupa. Ma invece del filo rosso del sangue e della violenza ci dovrebbe essere il filo rosso della sensibilità. Per questo alziamo la voce anche questa volta, non per creare allarmismo ma per chiamare a raccolti quanti dovrebbero collaborare.
Lei è vescovo da un anno, che situazione ha trovato?
C’è assenza di qualità umana, le persone sono abbandonate a se stesse, ci vorrebbero certamente più uomini delle forze dell’ordine ma anche più strutture sociali.
Gli abitanti denunciano l’eccessiva presenza di immigrati che sono sicuramente tanti.
Il problema c’è ma non dobbiamo generalizzare né cadere nell’opposto facile buonismo. Indubbiamente gli immigrati subiscono forme di prevaricazione ma anche dai propri connazionali. Per questo, lo ripeto, vanno coinvolti tutti. In questo senso io ho incontrato più volte sia i comitati dei cittadini che i gruppi di migranti. Certo qui si fa molta fatica ma se lavoreremo insieme quel territorio potrà essere davvero un fiore all’occhiello.
 
 
 
In viaggio per l’estate? Occhio al permesso!
Solo chi ha un documento valido può spostarsi liberamente tra l’Italia il proprio Paese o all’interno dell’area Schengen. Deve invece rimanere qui chi attende la regolarizzazione
stranieriinitalia.it, 15-07-14
Roma – 15 luglio 2014 - Chi sta programmando un viaggio in patria per le ferie estive farebbe bene a controllare la situazione del suo permesso di soggiorno. Vediamo come regolarsi per non rischiare brutte sorprese.
Chi ha un permesso valido può tornare in patria e quindi rientrare in Italia quando vuole, l’importante è portare con sé il permesso.
Può poi spostarsi per turismo, senza chiedere visti, in tutti i Paesi Schengen: Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Austria, Grecia, Danimarca, Finlandia, Svezia, Islanda, Norvegia, Slovenia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Malta e Svizzera. Se invece sceglie un Paese non Schengen, deve verificare se in base agli accordi con il proprio Paese d’origine ha bisogno di un visto per visitarlo.
Per chi invece attende il rinnovo del permesso di soggiorno, il viaggio di andata o di ritorno tra l’Italia e il proprio Paese d’origine non deve prevedere il passaggio o scali in un Paese Schengen. Bisogna portare con sé il passaporto, il permesso scaduto e la ricevuta dell'ufficio postale (cedolino) da esibire alla polizia di frontiera.
Chi attende il primo permesso di soggiorno per lavoro o ricongiungimento familiare può viaggiare nell’Area Schengen solo se ha un visto di ingresso del tipo “Schengen uniforme” valido per tutta la durata del viaggio, altrimenti può solo viaggiare tra l’Italia e il suo Paese d’origine senza tappe europee. In ogni caso, insieme a cedolino e passaporto, dovrà esibire il visto rilasciato dal consolato che specifica il motivo del soggiorno in Italia.
Deve invece rimanere qui chi attende ancora la regolarizzazione, perché la ricevuta della domanda non è un documento valido per rientrare in Italia. Prima di essere liberi di viaggiare verso il proprio Paese d’origine, i lavoratori devono quindi attendere la convocazione allo Sportello Unico per la firma del contratto di soggiorno e la presentazione della richiesta di rilascio del permesso.
EP
 
 
Ramadan, la voglia sempre più diffusa dei musulmani di mischiare e condividere la loro cultura 
Il momento clou è l'Iftar, il pasto serale che, dopo la preghiera, interrompe il digiuno nei giorni di Ramadan, e diventa un'occasione di condivisione con amici e parenti. A Milano, come in altre città italiane, si moltiplicano gli Iftar pubblici per raccogliere fondi per progetti di solidarietà (per i profughi siriani ed eritrei in transito a Milano) o per far vivere momenti di amicizia e dialogo
la Repubblica.it, 14-07-14
STEFANO PASTA
MILANO - Tempo di Ramadan per gli oltre un milione e mezzo di musulmani d'Italia. D'estate, rimanere senz'acqua, cibo, sigarette e rapporti sessuali dall'alba fino al tramonto per un mese, è particolarmente difficile per il caldo e le giornate più lunghe. Quest'anno, con il mese sacro iniziato il 28 giugno, il digiuno finisce attorno alle 21, mentre d'inverno terminerebbe alle 17. Infatti, stabilito da Maometto in base al calendario lunare, cambia ogni anno e, in una trentina d'anni, fa il giro dei 365 giorni.
La rottura del digiuno. Il momento clou è l'Iftar, il pasto serale che, dopo la preghiera, interrompe il digiuno e diventa un'occasione di condivisione con amici e parenti. A Milano, come in altre città d'Italia, si moltiplicano gli Iftar pubblici per raccogliere fondi per progetti di solidarietà (per la Siria o per i profughi siriani ed eritrei in transito a Milano), o per far vivere momenti di amicizia e dialogo.
Un Iftar aperto ai non musulmani. Venerdì scorso, il Caim (Coordinamento Associazioni Islamiche di Milano e Monza e Brianza, che raccoglie 10 delle 14 sale di preghiera e associazioni milanesi, ha organizzato un Iftar aperto ai non islamici: "Abbiamo invitato - racconta il coordinatore Davide Piccardo - amici con cui ci rapportiamo durante l'anno e che ci sono quotidianamente vicini. All'insegna della condivisione con la nostra comunità, che oggi in Italia è fatta anche da tanti concittadini non musulmani". Tra i partecipanti al buffet, don Giampiero Alberti del Forum delle Religioni e la Comunità di Sant'Egidio.
Perché digiunare. Piccardo spiega il significato del Ramadan: "È un sacrificio offerto al Creatore, che mira alla purificazione sia spirituale che fisica, si acquisisce una disciplina e aiuta a metterci in contatto con chi vive di privazione, come i poveri e i malati". Lui, classe 1982, figlio di un fotoreporter italiano che scelse l'islam viaggiando in Africa (70.000 gli italiani convertiti secondo l'Ucoii, l'Unione delle Comunità islamiche d'Italia), riflette su come la realtà dei musulmani nel Belpaese sia cambiata: "Da piccolo, abitavo a Imperia e per pregare dovevo andare a Nizza o a Genova, 120 km all'andata e altrettanti al ritorno. Ora, solo nella provincia di Milano, negli ultimi sei mesi, sono stati aperti sei centri islamici nuovi".
L'assenza di una moschea. A Milano, però, continua a mancare un luogo di culto adeguato. L'unica moschea della Lombardia si trova a Segrate (le altre in Italia sono a Roma, Colle Val d'Elsa, Ravenna e Catania), ma non basta certo per i centomila musulmani del capoluogo, che peraltro hanno diverse provenienze etniche e fanno riferimento a correnti differenti. Spiega Piccardo: "Da tre anni proviamo a dialogare con la nuova amministrazione; speravamo di poter costruire una moschea entro l'Expo, ma temiamo non si possa fare". Pare sia in arrivo una buona notizia: "Il Comune si è impegnato a mettere a bando a settembre alcune aree pubbliche per permettere alle comunità religiose di realizzare luoghi di culto". Nel frattempo, i musulmani milanesi continuano a pregare in garage e magazzini, cioè sale di preghiera spesso in locali non adatti. Del resto, il 9 luglio il Consiglio di Stato ha dato ragione all'Associazione Al Nur dei bengalesi islamici (aderente al Caim), a cui il Comune contestava di utilizzare un sottoscala preso in affitto a una cifra anche piuttosto alta (1.800 euro) per la preghiera del venerdì, con due o più turni e file d'attesa lungo il marciapiede.
Seconde generazioni musulmane. Piccardo ci tiene a sottolineare che quella degli islamici italiani è una realtà di fatto: "A breve, la maggior parte dei musulmani in Italia sarà di cittadinanza italiana". Del resto, basta guardare come i 10 membri dell'esecutivo del Caim siano giovani di differente origine (marocchina, egiziana, albanese, pakistana, palestinese, italiana), ma praticamente tutti seconde generazioni. Come Reas Syed, avvocato del Foro di Milano, che così dice di sé: "Paradossalmente i miei ricordi iniziano ad esser nitidi da quando mi ritrovai nel bel mezzo... della nebbia padana". O Sumaya Abdel Qader, autrice del libro "Porto il velo, adoro i Queen".
Tra hummus e tiramisù. "Ed è naturale - aggiunge Piccardo - che questa nuova generazione applichi i precetti religiosi in una cultura mista, fortemente influenzata da quella italiana. Proprio questo sentimento di appartenenza spiega l'attivismo con cui si organizzano tanti Iftar aperti ai non musulmani, spesso organizzati da giovani, magari tramite i social network o i gruppi su WhatsApp". E la cultura mista si vede anche al banchetto del Caim: accanto ai datteri prescritti dalla sunna (i detti e la condotta del Profeta), troviamo il mediorientale hummus di ceci, assieme al nostro tiramisù.
 
 
 
Catania - Accoglienza zero: la vita dei migranti tra reclusione e abbandono
Un reportage dal Pala Spedini della rete antirazzista catanese
Melting Pot Europa, 12-07-14
Davide Carnemolla
Rinchiusi e abbandonati. E’ questa ormai la sempre più diffusa strategia di “accoglienza” destinata ai migranti.
E ne è l’emblema ciò che sta accadendo in Sicilia, e a Catania in particolare. Nel capoluogo etneo si sta di fatto normalizzando la negazione dei diritti dei migranti. In un mix letale di indifferenza, opportunismo e schizofrenia istituzionale si stanno progressivamente e inesorabilmente erodendo i più basilari diritti di chi arriva nelle coste siciliane. E’ sufficiente raccontare ciò che accaduto negli ultimi quattro giorni per avere un’immagine tanto chiara quanto preoccupante di tutto ciò.
Gli eritrei della nave “Chimera”: dalle mura del Palaspedini alla solitudine della stazione
7 luglio. Sono da poche ore arrivati al palazzetto dello sport di Catania chiamato “Palaspedini” 261 migranti - prevalentemente eritrei – sbarcati a Catania dalla nave “Chimera”.
Gli attivisti della Rete Antirazzista Catanese arrivano intorno alle 19 e viene loro concesso (fatto non così abituale) di poter parlare con gli stessi migranti. La prima ad avvicinarsi a noi è una giovane donna con una bambina di un anno in braccio. Ci mostra un foglio che le hanno dato all’ospedale “Vittorio Emanuele” e nel quale le viene prescritto un farmaco per la figlia che ha la febbre alta. La donna giustamente ci chiede: “chi mi dà questo farmaco?”. Davanti al piazzale antistante il palazzetto inizia un triste teatrino tra i vari enti che dovrebbero (il condizionale è d’obbligo) occuparsi dei migranti: il Pronto Soccorso si occupa solo di casi di estrema urgenza, la Protezione Civile ci dice che non è compito loro, le Forze dell’Ordine idem finchè un funzionario della Questura non chiama la guardia medica. Ma intanto il farmaco per la bambina e altri beni di prima necessità siamo noi a comprarli.
Mentre aspettiamo la guardia medica (arriverà dopo due ore) e questo è quello che ci viene detto e che vediamo coi nostri occhi: ci sono quasi dieci donne di cui almeno tre in stato di gravidanza e tutte e tre in condizioni di salute molto critiche (due perdono sangue e hanno forti dolori e un’altra ha la febbre alta); molti eritrei lamentano dolori e problemi alla pelle e ci chiedono medicine e sapone; nessuno di loro ha potuto avvisare i familiari in Eritrea o in Europa né per poter dire di essere sopravvissuti né per poter comunicare alle famiglie di chi non ce l’ha fatta la morte dei propri cari; nessuno è stato informato riguardo le procedure d’asilo e i diritti basilari che spetterebbero loro; molti chiedono scarpe e anche vestiti perché quelli che hanno sono gli stessi con cui sono partiti dall’Eritrea. E poi, entrando nel palazzetto, sembra di stare in una sauna. Una gigantesca sauna dove sono buttati come animali donne, bambini e uomini visibilmente sofferenti e alla disperata ricerca di aiuto.
“Grazie per essere venuti qui! E’ la prima volta da quando siamo arrivati in Italia che riusciamo a parlare in inglese con qualcuno per chiedere aiuto e supporto” ci dicono alcuni di loro quasi con le lacrime agli occhi per la felicità di aver incontrato finalmente un briciolo di umanità.
Torniamo l’indomani e a dare supporto ai migranti c’è sempre la Rete Antirazzista insieme ad un medico del Centro Astalli. Il funzionario della Questura “smentisce” il suo stesso collega presente il giorno prima e ci impedisce non solo di interagire con i migranti (medico compreso) ma anche di consegnare loro indumenti, scarpe, dizionari e informazioni sulla richiesta d’asilo. E ci racconta il suo punto di vista sulla situazione al Palaspedini: “qui è tutto a posto”, “non c’è nessuno con problemi di salute”, “non ci risulta che abbiano bisogno di scarpe e vestiti”. Le sue parole stridono con quanto accade esattamente a un metro da lui: rinchiusi dentro con delle transenne, i migranti provano in tutti i modi a interagire con noi ma ogni comunicazione è proibita. “Dovete inviare una richiesta formale alla Prefettura”. Questa è l’indicazione. Poi il funzionario della Questura ci dà un consiglio: “Invece di venire qui occupatevi dei milioni di italiani che hanno bisogno di aiuto. Qui ci sono già degli enti accreditati preposti a fornire aiuto ai migranti”.
Già, gli enti accreditati. Ma quali sono? E soprattutto dove sono? Ci viene comunicato che gli enti accreditati sarebbero la Comunità di Sant’Egidio e la Caritas. Proviamo a chiamare più volte la Comunità di Sant’Egidio ma risponde solo la segreteria. Riusciamo a contattare la Caritas che ci spiega: “Noi ci attiviamo per portare beni di prima necessità ai migranti solo su richiesta della Prefettura”. Ma allora perché la Prefettura non li contatta? E perché viene impedito alla Rete Antirazzista di supportare i migranti? Qui non stiamo parlando di “optional”, stiamo parlando di assistenza medica, vestiti, scarpe, informazioni sulla richiesta d’asilo, mediazione linguistica. In una parola: diritti fondamentali.
Ma non è finita qui: dopo che le forze dell’ordine così attente a eseguire le disposizioni dall’alto hanno per tutta la mattina respinto dentro il palazzetto i migranti e respinto fuori dal palazzetto gli attivisti, alle 16 circa dello stesso giorno il “Palaspedini” viene svuotato e tutti gli eritrei si spostano verso la stazione. Pochi di loro (quelli che avevano qualche soldo) riescono a partire verso Milano comprando un biglietto, altri restano lì, buttati sul piccolo prato davanti alla stazione centrale. Sono completamente disorientati e abbandonati. Il 9 luglio andiamo da loro, diamo alcune informazioni per la richiesta d’asilo e li indirizziamo verso alcune mense presenti nella zona. Due di loro, visibilmente preoccupati, ci dicono: “Quando ci hanno fatto andare via la polizia ci ha detto che dovevamo lasciare la città entro domani”. Tra di loro ci sono anche donne, bambini e uomini in condizioni di salute critiche. Una donna ha visto morire suo marito durante il viaggio e adesso è rimasta da sola con la sua bambina. Il viaggio di tutti loro è iniziato mesi fa dall’Eritrea ed è stato drammatico. Molti sono morti al confine con il Sudan, attraversando il Sahara o in Libia.
In questo momento sono distesi, sfiniti e spaesati, alla stazione dei treni. E probabilmente resteranno lì per molto. Il nome della nave con la quale sono arrivati era profetico: avere dei diritti per loro è davvero una chimera.
Va in scena la “staffetta” degli sbarchi: nuovi migranti, stessa vergogna.
Il 9 luglio il Palaspedini resta vuoto solo per poco. Le lungimiranti istituzioni locali e nazionali hanno una particolare preferenza per questi luoghi e si guardano bene dall’ospitare i migranti in strutture più dignitose. A Catania ci sono diversi ex-ospedali molti dei quali ancora attrezzati e quindi perfettamente adatti ad ospitare persone. Ma per alcuni forse i migranti non sono esattamente delle persone e quindi va bene anche un palazzetto-sauna.
Il 9 pomeriggio arrivano dopo l’ultimo sbarco circa 100 migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana (molti di loro dal Gambia). Anche loro sono sopravvissuti ad un viaggio in cui hanno visto la morte in faccia.
Li incontriamo la mattina del 10 luglio, in concomitanza con la conferenza stampa indetta dalla Rete Antirazzista Catanese. Stavolta le Forze dell’Ordine e la Protezione Civile sono assenti, c’è solo un’auto della Guardia di Finanza. Riusciamo a parlare con loro e ci raccontano che, dopo essere partiti dalla Libia, il loro barcone è andato in avaria ed è rimasto per tre giorni fermo in mezzo al mare. La terza sera si è avvicinata una nave mercantile che inizialmente non voleva soccorrerli e che lo ha fatto solo dopo aver visto che il loro barcone stava affondando. Sono arrivati sfiniti e debilitati al porto di Catania e alcuni di loro, quelli con le ferite più gravi e i minori, sono stati portati via dalla polizia mentre tutti gli altri sono stati inviati al famigerato Palaspedini.
Ma lì tra di loro ci sono ancora dei minori i quali sono stati etichettati dalle Forze dell’Ordine come maggiorenni in spregio alla normativa che presuppone la buonafede del minore. “Io dicevo alla polizia di avere 17 anni e loro scrivevano 21. Io non ho 21 anni!” ci dice un ragazzo. E lo stesso vale per altri tre di loro. E poi alcuni vorrebbero ricongiungersi con i familiari residenti in Italia e in Europa (e anche questo sarebbe un loro diritto). E intanto i migranti si avvicinano a noi e ci chiedono scarpe (molti di loro sono scalzi e hanno ferite e piaghe ai piedi), sapone, dentifricio, acqua (al mattino non la danno), vestiti. E anche loro chiedono informazioni sulla richiesta d’asilo e la possibilità di chiamare i loro familiari per dire loro almeno due parole: “siamo vivi”.
Ma in tutto questo dove sono le istituzioni e gli enti accreditati? Anche stavolta non ci sono. Chiamiamo il Comune di Catania che ci rimanda alla Protezione Civile la quale ci dà un’informazione tanto “inedita” quanto sconvolgente: il fatto non è che il piano di accoglienza non funziona, il fatto è che non c’è un piano di accoglienza. La cosiddetta “emergenza” finisce non appena i migranti mettono piede al porto di Catania. E dopo? Praticamente il nulla. Qualche pasto al giorno e basta.
E’ notizia di ieri che sarebbe stato raggiunto “un accordo tra Governo, Regioni, Comuni e Province per il varo di un piano per la gestione dei profughi, con relative politiche di accoglienza”. In attesa di questo piano, che diventerà in ogni caso l’ennesimo business sulla pelle dei migranti, la realtà è che non c’è niente. L’unico aiuto è stato quello fornito dagli attivisti locali: contatti e informazioni utili, vestiti, acqua, scarpe, medicinali, ecc… Un aiuto importante che va però in parallelo con la volontà degli stessi attivisti denunciare quanto sta accadendo e quanto accadrà.
Adesso alla stazione decine di eritrei vagano per la stazione, decine di gambiani sono parcheggiati al Palaspedini e altre migliaia di migranti, almeno quelli che ce la faranno, arriveranno a Catania e condivideranno il loro destino.
Il destino di chi non ha la libertà di spostarsi o di rimanere in un paese. In una parola: di vivere.
Perché per arrivare nella “Fortezza Europa” si rischia sempre di più la vita e ci si imbatte in Frontex si finisce in mano a trafficanti e a governi dei paesi extraeuropei sostenuti spesso dall’Europa. E senza l’apertura di “veri” corridoi umanitari, di percorsi protetti che permettano a tutti i migranti di rivolgersi ad uffici dell’UE e dei paesi europei e di imbarcarsi su mezzi riconosciuti e sicuri, aumenteranno sempre di più le morti nel più grande cimitero del mondo, il Mar Mediterraneo.
Perché poi chi riesce a sopravvivere e vuole chiedere asilo in Sicilia viene mandato, dopo settimane o mesi di reclusione, al CARA di Mineo, un luogo isolato dal mondo e invivibile (5000 persone rinchiuse lì dentro con una capienza di 2000), un luogo dove si marcisce in attesa di incontrare la commissione che valuterà le richieste di asilo (alcuni migranti sono lì da 3 anni), un luogo che è quindi la negazione stessa del “diritto d’asilo” come dimostra il suicidio di Mulue Ghirmay e i frequenti atti di autolesionismo degli “ospiti” del CARA:
Perché chi vuole andare al Nord Italia deve farlo a sue spese, diventando vittima di truffatori e trafficanti ed essendo costretto a viaggiare sempre in incognito col rischio di essere rinchiuso in un CIE.
Perchè se, comprensibilmente, qualcuno prova ad andare via dall’Italia arriva la mannaia del Regolamento Dublino che, violando ogni principio di libertà di movimento, obbliga i migranti a chiedere asilo nel primo paese di arrivo e quindi impedisce loro di costruire la propria vita in un paese che non sia l’Italia, Italia che ha più volte dimostrato di violare i diritti fondamentali dei migranti.
Welcome to Sicily, welcome to Italy, welcome to Europe.
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