Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

Menù

 

"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

05 giugno 2014

«Cittadinanza a chi nasce sul suolo italiano»
Un piano per i rifugiati Annuncio del Viminale, la Lega insorge
Corriere della sera, 05-06-14
Virginia Piccolillo
ROMA — «Pochi giorni. Giusto il tempo di mettere a punto la circolare. E poi anche i bambini degli asilanti, arrivati magari nella pancia della mamma o nati in Italia successivamente all’arrivo dei genitori, potranno avere la cittadinanza italiana».
Il sottosegretario all’Interno, Nicola Manzione, non ha dubbi: nel giro di qualche settimana al massimo, si potrà estendere ai figli dei rifugiati lo «ius soli» (il diritto alla cittadinanza per il fatto di essere nati sul suolo italiano). Un provvedimento che riguarderebbe, secondo il sottosegretario, «solo duecento minori, circa». Ma capace di scatenare subito le proteste della Lega. «Alfano smentisca o si dimetta: la cittadinanza non è un regalo, ma una cosa seria —, hanno scritto ieri su Twitter i deputati Nicola Molteni e Guido Guidesi —. Renzi, come un novello Re Sole, pretende di cambiare uno status con una circolare».
Che il governo abbia intenzione di riprendere in mano l’intero dossier sulla cittadinanza lo ha detto ieri anche il ministro degli Esteri, Federica Mogherini. La strategia, da adottare durante il semestre di presidenza in Europa, è quella di «agire sulle cause di fondo dei flussi e dei richiedenti asilo». Ma, ha spiegato il ministro, «sarà un lavoro in parte sul lungo periodo. Oggi sono soprattutto richiedenti asilo e rifugiati, ciò vuol dire che dobbiamo lavorare sulla prevenzione e sulla gestione dei conflitti e delle zone di conflitto».
Quello che anticipa Manzione è invece un provvedimento di immediata applicazione. Ma come allargare le maglie di una legge che non riconosce lo «ius soli», ai figli degli immigrati nati in Italia, solo con una circolare? Manzione, ex magistrato, spiega: «Questi minori sono in una condizione del tutto particolare. Non hanno diritto alla cittadinanza come accade per i figli degli apolidi nati in Italia. E come accade per quei bambini che arrivano in Italia assieme ai genitori. La legge infatti prevede che per il riconoscimento della cittadinanza i minori siano presenti all’atto della domanda. È talmente evidente la disparità che basterà una circolare interpretativa».
Un provvedimento, dunque, limitato. O un primo passo per l’estensione dello «ius soli» a tutti i ragazzi nati in Italia? Attualmente i figli degli immigrati venuti alla luce nel nostro Paese devono aspettare i 19 anni per ottenere la cittadinanza. «Le categorie sono diverse. L’immigrato non è una persona che cerca protezione, ma lavoro. Il richiedente asilo è un perseguitato. E se un Paese concede l’asilo al genitore deve farsi carico anche del minore».
La vera emergenza in Italia «non è l’immigrazione clandestina ma il problema dei rifugiati, che è una cosa diversa, ed è ingiusto che l’Italia debba affrontare da sola questa situazione», ha spiegato ieri l’ex presidente del consiglio Massimo D’Alema da Bruxelles.
La legge che consente la cittadinanza per diritto territoriale è stata applicata di recente a un bimbo cubano: Leandro E. Il piccolo, che avrà 4 anni a luglio, è nato da genitori cubani a Casalmaggiore in provincia di Cremona. La legge cubana riconosce la cittadinanza solo dopo aver risieduto almeno tre mesi nel territorio cubano. Leandro, dunque, è un apolide. E in base alla legge del 5 febbraio 1992 è uno dei rari casi che ha già diritto alla cittadinanza per «ius soli».
Finora, secondo Manzione, in Italia sono state registrate, per il 2014, 21.000 richieste di asilo, ben più di quelle presentate in tutto il 2013. E sono oltre 40.000 i migranti giunti via mare. Proprio ieri, nell’ambito della missione «Mare Nostrum», sono stati salvati a bordo di un barcone alla deriva 100 bambini.



Cittadinanza. La Lega: "No a blitz sullo ius soli"
Molteni e Guidesi contro la circolare che renderebbe italiani i figli dei rifugiati. "Alfano smentisca o si dimetta, la cittadinanza non è un regalo"
stranieriinitalia.it, 05-'6-14
Roma - 5 giugno 2014 - Cittadinanza italiana ai figli dei rifugiati? Dalla Lega Nord arriva uno scontatissimo no.
"Niente blitz sullo ius soli" tuonano i deputati del Carroccio Nicola Molteni e Guido Guidesi, allarmati per la circolare in arrivo dal Viminale. “Alfano smentisca o si dimetta: la cittadinanza non è un regalo, ma una cosa seria”.
“Questo - continuano i leghisti - è il governo degli immigrati. Renzi, come un novello Re Sole, pretende di cambiare uno status con una circolare. Una vergogna di cui Alfano - tirapiedi della sinistra - è complice”.



Bagno, cucina e giardinetto: a Milano le casette dei rom costano 90 euro al mese
Le strutture prefabbricate, realizzate con i fondi del decreto Maroni, sono spuntate nel campo rom in via Martirano. I tecnici: "E' la struttura più bella d'Italia". Gli inquilini dovranno accettare un percorso di legalità
la Repubblica, 05-06-14
FRANCO VANNI
I tecnici che da giorni lavorano all’allestimento dei prefabbricati in via Martirano lo ripetono con orgoglio: «Questo è il più bel campo d’Italia, forse d’Europa». I rom che presto dovranno entrare nelle venti “unità abitative” messe loro a disposizione dal Comune di Milano non sono della stessa opinione: «Ci chiedono 90 euro al mese per vivere in baracche – lamenta un ragazzo, al volante del suo camper – Preferisco costruirmi una casa e abitarci gratis, piuttosto che finire in una scatola come quelle, dove i miei figli non hanno spazio per giocare».
I rom protestano ma non hanno scelta: il campo dove abitano da anni, composto da catapecchie in lamiera e roulotte, deve essere sgomberato. Mancano le condizioni igieniche e di sicurezza. Nei prossimi giorni  secondo l’accordo stretto dai capi famiglia con il Comune  dovranno trasferirsi nelle casette che nei giorni scorsi sono state allestite proprio lì di fianco, in via Martirano 71, dietro al cimitero di Baggio, fra i campi di granturco e le risaie.
Le “casette”, come le chiamano all’assessorato comunale alla Coesione sociale, sono quasi pronte. In ognuno dei prefabbricati c’è il bagno con doccia, il salotto con cucina a incasso, e i comodini in entrambe le stanze da letto, una pensata per i genitori e l’altra per i bimbi. In alcune strutture sono già state trasportate anche le reti dei letti e in tutte i pavimenti sono stati rivestiti con linoleum “effetto parquet”. Ciascuna casetta ha di fronte un piccolo giardino privato, delimitato da una rete. Sul cancello esterno di ogni abitazione è scritto a pennarello il nome della famiglia che dovrà viverci.
Complessivamente, i rom che andranno ad abitare nel nuovo villaggio sono poco meno di un centinaio. «Ci hanno spiegato che è la prima volta che il Comune costruisce vere case per i rom  racconta una donna che vive nel campo di via Martirano, mentre guarda le nuove costruzioni oltre il muretto di cinta  per poterci stare dovremo rispettare delle regole, altrimenti saremo cacciati via». Il primo obbligo per le famiglie è quello di contribuire alle spese di luce, gas e smaltimento dei rifiuti, tutte comprese nel forfait di 90 euro della “quota affitto”. Poi gli adulti dovranno dimostrare di lavorare o di darsi comunque da fare per trovare un impiego, nel caso siano disoccupati. Infine, i rom dovranno accettare un “percorso di legalità” definito dal Comune. In pratica, dovranno impegnarsi a rinunciare a ogni attività illecita.
«Il Comune si è rifiutato di dare la casetta a due ragazzi del campo solo perché in questo momento si trovano in prigione a San Vittore, per reati poco gravi  lamenta un ragazzo  Ma dove andranno una volta che usciranno dalla galera? Saranno in mezzo alla strada? Non è giusto! Anche loro devono avere una casa come tutti gli altri abitanti del campo. Hanno sbagliato, è vero, ma se si impegnano di comportarsi bene in futuro devono essere trattati come gli altri».
Il costo di ciascuna delle 20 casette è di circa 19mila euro, compresi gli impianti, l’allacciamento alla rete idrica e a quella elettrica. All’assessorato comunale alle Politiche sociali precisano che «tutto il villaggio è finanziato esclusivamente con i fondi del decreto Maroni, vincolati alla realizzazione del Piano rom e con fondi di un progetto europeo anch’esso mirato all’inclusione sociale dei rom». E in ogni caso, «non si tratta in alcun modo di soldi del Comune». Quanto alla composizione sociale delle famiglie che hanno diritto a trasferirsi nelle casette, all’assessorato alle Politiche sociali precisano che «le abitazioni sono riservate a rom italiani residenti a Milano, già domiciliati nel campo regolare di via Martirano e con figli iscritti a scuola». In caso il Comune scopra che i bambini non seguono le lezioni, la famiglia sarà automaticamente allontanata.
Nel caso il progetto delle casette unifamilari dovesse avere successo, potrebbe essere replicato in altri campi in città, autorizzati ma bisognosi di interventi di riqualificazione, come quelli di via Novara, via Idro, via Chiesa Rossa, via Bonfadini e via Negrotto. Un’ipotesi che non piace all’opposizione di centrodestra in Consiglio comunale, compatta nello slogan «non un euro ai rom». A ottobre, in fase di discussione sul bilancio, il consigliere Riccardo De Corato (Fratelli d’Italia) contestò «le spese già autorizzate per la prefabbricati da destinare ai campi nomadi di via Martirano».
Già allora Palazzo Marino spiegò che si trattava dei fondi vincolati dal decreto Maroni del febbraio 2009 e annunciò comunque la massima trasparenza sui conti dell’operazione. Per individuare il fornitore delle casette, il Comune ha così indetto una gara pubblica, aperta ai produttori di strutture di emergenza così come a ditte di carpenteria specializzate nella fabbricazione di villette, club house e deck house per strutture sportive.



Nuovi europei / Scoprire via Padova con gli occhi di Christine
Corriere.it, 05-06-14
Lorena Cotza
Tutto il mondo racchiuso in una strada: via Padova, il cuore multiculturale di Milano, torna a celebrare la ricchezza culturale nascosta dentro le sue case con il festival Popolando-MI. Alla sua terza edizione, la manifestazione si svolgerà durante tutto il mese di giugno e prevede una lunga serie di iniziative artistiche e culturali: sfilate di moda etnica, concerti, conferenze, cinema all’aperto, eventi teatrali, performance di giovani artisti e mercato di prodotti artigianali.
    “Popolando-MI è un’occasione per scoprire le culture e le tradizioni che portiamo noi stranieri, per fare amicizia con persone di tutto il mondo, per sentirci cittadini e non solo immigrati”, spiega Christine Cabral, vicepresidente di Avanti Insieme , una delle associazioni promotrici dell’evento.
Arrivata dalle Filippine in Italia alla fine del 2006, Christine racconta con entusiasmo l’importanza che ha avuto per lei l’incontro con l’associazione: “Mi son sempre dedicata al volontariato, e anche quando mi son trasferita a Milano ho deciso di dedicare il mio tempo a qualcosa di utile – dice Christine –. Mia sorella mi chiede sempre perché faccio il sacrificio di perdere due ore in viaggio per arrivare da casa alla sede: ma questa è la mia famiglia, e frequentarla mi ha permesso di crescere e migliorare”.
Avanti Insieme viene creata nel 2010 da un gruppo di persone immigrate che frequentavano l’associazione culturale Villa Pallavicini  per imparare l’italiano. I fondatori provengono da Algeria, Bolivia, Egitto, Filippine, Iran, Marocco, Romania, Senegal, Perù, Ucraina e Italia. Insieme decidono di creare prima un comitato e poi un’associazione vera e propria, non solo per lavorare sull’apprendimento linguistico ma anche per favorire il rafforzamento di un senso di cittadinanza attiva e un maggiore inserimento nel tessuto sociale. Dal 2011, ad esempio, Avanti Insieme promuove attività di volontariato per giovani ragazzi stranieri che offrono il loro tempo libero per aiutare gli anziani del quartiere.
Christine sta ora frequentando un corso su cittadinanza e leggi sull’immigrazione, per poter aiutare altri stranieri a districarsi nella burocrazia italiana e iniziare il loro percorso di vita in Italia:
    “Cittadinanza per me vuol dire poter vivere senza discriminazioni e con libertà di scelta – dice Christine – Anche se non siamo nati qui, abbiamo deciso di essere italiani, perché ci sentiamo italiani. Amo stare qui, e voglio continuare a studiare per aiutare gli altri”.
Nei quartieri multiculturali delle nostre città, non è raro che si creino tensioni e diffidenze reciproche tra comunità di migranti provenienti da paesi diversi. Alla paura del diverso propagandata da alcuni politici, si sovrappone la paura che nasce dalle voci di quartiere, dalla non conoscenza dell’altro, dalla mancanza di punti di contatto. L’associazione Avanti Insieme nasce proprio per favorire l’incontro, lo scambio, e la costruzione di un percorso comune tra le diverse comunità straniere che ruotano intorno a via Padova.
    “Prima di entrare a far parte dell’associazione avevo paura e pensavo che andare in via Padova fosse pericoloso – racconta Christine – anche tra noi stranieri può nascere il razzismo: avevo paura dei musulmani solo perché non li conoscevo. Ma da quando ho iniziato a lavorare con Avanti Insieme ho conosciuto persone provenienti da ogni parte del mondo, ho scoperto da dove provengono e le loro culture, e ora li considero la mia famiglia: non puoi giudicare senza conoscere”.
L’associazione dedica molte delle sue attività alla lotta contro il razzismo, partecipando ad esempio a manifestazioni come lo “sciopero degli stranieri” del primo marzo, per rivendicare i diritti del lavoro e appuntamento simbolo dell’antirazzismo.
    “A gennaio la Lega Nord aveva organizzato un suo corteo proprio in via Padova – aggiunge Christine – ma siamo scesi tutti in piazza, e siamo riusciti a deviare il corteo e non permettergli di passare”.
Alcune diffidenze però sono difficili da estirpare. Christine ammette che i suoi connazionali tendono a restare chiusi nelle loro comunità e a non partecipare ad attività con altri stranieri. Ma per la festa Popolando-MI è riuscita comunque a radunare un gruppo di filippini.
Il primo evento del festival sarà sabato 7 giugno all’Anfiteatro Martesana, dove si terrà una conferenza sulla moda eco-sostenibile, seguita dalla premiazione di un concorso fotografico e da un aperitivo etnico con danze tradizionali popolari.



Rosarno d'italia Contadini vs braccianti
Corriere delle migrazione, 30-05-14
Alessandro Leogrande - 30 maggio 2014
Chi sono oggi i contadini, non in Africa o in India, ma qui in Italia e in Europa? È una questione terminologica cruciale, perché è proprio capendo lo slittamento del termine che – credo – sia possibile comprendere appieno lo slittamento dei rapporti di forza nelle nostre campagne.
Più che il lavoro della terra, secondo una vulgata ormai acquisita, il Novecento è stato il secolo che ha ucciso una “civiltà contadina” secolare. In questa accezione, il termine “contadino” è stato a lungo sinonimo del siloniano “cafone”. Indicava cioè, sociologicamente, i contadini poverissimi (anche quando piccolissimi proprietari di un piccolissimo appezzamento lontano magari dieci chilometri dal proprio tugurio) o milioni di braccianti che – soprattutto nei borghi del Sud – non avevano altro che le proprie braccia da vendere a giornata per ottenere un tozzo di pane in acquasale e una prole, spesso immensa, da sfamare. Era un mondo immerso nella fame nera (qualcosa lo si può ancora afferrare ascoltando le canzoni del grande Matteo Salvatore), ma quel mondo era anche in grado di sviluppare una propria cultura ai margini della Storia ufficiale (come comprese Carlo Levi) e un profondo rifiuto, quasi religioso, delle più atroci forme di ingiustizia sociale (come ha sempre saputo lo stesso Ignazio Silone). Il socialismo italiano è nato lì, nelle campagne padane e pugliesi, prima ancora che nelle fabbriche.
Ma oggi, ripeto, cosa spiega il termine “contadino”, non in Africa o India, ma qui da noi? Indica soprattutto i piccoli e medi proprietari terrieri, i piccoli imprenditori della terra, spesso ex cafoni o ex braccianti che per tutta una vita non hanno sognato altro che diventare come i loro padroni. Il fallimento culturale, prima ancora che politico, della riforma agraria viene proprio da questa forma di revanscismo individuale ripetutosi per migliaia di casi, spesso identici tra loro.
Se leggiamo la retorica della resistenza contadina con occhi occidentali, e in particolar modo italiani, tutto cambia. Alle immagini di villaggi rurali del Sud del mondo si sostituisce presto l’ideologia ufficiale delle organizzazioni di categoria, dalla Coldiretti alle più oltranziste Cia e Confagricoltura. Difendono un settore in crisi, abusano della parola “contadino”, ma quello che stanno difendendo è in realtà un sistema di impresa che sfrutta sovente altre braccia e altri corpi: quelle e quelli dei nuovi braccianti stranieri che hanno popolato le nostre campagne, cambiando la loro struttura. Specie al Sud, è stata questa la più radicale trasformazione antropologica degli ultimi vent’anni.
Oggi la raccolta delle arance, dei pomodori o delle angurie non la fanno né contadini di ieri, né i contadini di oggi. La fanno nuovi braccianti, nella quasi totalità non italiani. Non hanno niente in comune con la cosiddetta “civiltà contadina” novecentesca e pre-novecentesca, ma – è questo il dato essenziale – sono sicuramente sull’altra parte della barricata rispetto ai piccoli e grandi agrari che posseggono i terreni su cui lavorano. Dall’altra parte, almeno in gran parte del Sud, ci sono proprio coloro i quali si autodefiniscono contadini (intendendo piccoli proprietari). Per stare sul mercato – almeno questa è la loro implicita giustificazione, ogni qualvolta si raggiungono picchi di crisi – non possono non ricorrere al caporalato.
Il caporalato oggi in Italia (e non solo in Italia) non è un aspetto marginale (secondario, legato a pochi episodi criminali) dell’organizzazione del lavoro nei campi. È la base di quella organizzazione. E non è una forma arcaica: è una forma straordinariamente moderna, globale, “avanzata” di grave sfruttamento lavorativo, di controllo dell’uomo sull’uomo, che in alcuni casi rasenta vere e proprie forme di riduzione in schiavitù. La cronaca degli ultimi anni è piena di fatti del genere, che descrivono un sotto-mondo spesso impermeabile. Per questo oggi non si può parlare di agricoltura senza mettere il caporalato in cima a ogni ordine del giorno, senza prendere in considerazione la vulnerabilità dei nuovi braccianti (vulnerabilità oltremodo accresciuta dalle attuali leggi che regolano l’immigrazione, e non arrestata dalla recente legge che punisce l’intermediazione illegale di manodopera). Tutto il resto sarebbe ipocrita.
Continuando nel nostro excursus terminologico si possono aggiungere altre considerazioni. La scomparsa delle civiltà contadine, per come è stata narrata dal meridionalismo storico, non coincide con la fine della violenza e dello sfruttamento nelle campagne. Essa è sopravvissuta a quella fine, spesso unendo insieme forme del vecchio e del nuovo. La giornata di un bracciante africano o rumeno di oggi è incredibilmente simile a quella di un bracciante pugliese o siciliano di un secolo fa. Stesso sistema di paga, stessi ordini, stesse forme di controllo, stessi alloggi durante le grande raccolte. Stessa fame, stessa sete, stesse paure. Stesse punizioni, per chi si ribella.
(Sono diventato amico di alcuni braccianti africani che due anni fa hanno guidato a Nardò il primo sciopero dei raccoglitori di angurie e pomodoro immigrati contro i loro sfruttatori. È stata una lotta aspra e difficile contro le minacce di morte dei caporali e il muro di gomma, il silenzio assordante di quelle associazioni che intendono difendere i “diritti” dei coltivatori… Una sera abbiamo letto insieme alcune pagine di I raccoglitori di cotone di Traven – il titolo originale è più significativamente Der Wobbly. Il libro parla del Messico ed è stato scritto negli anni venti del secolo scorso. Ma loro vi hanno intravisto il loro mondo e la loro lotta, descritti entrambi nei minimi particolari. Per loro, e per me insieme a loro, le differenze erano davvero minime. E non diversa era, è, la necessità di ragionare su nuove forme di organizzazione del movimento operaio).
Se lo sfruttamento è simile, di contro non c’è più il vecchio blocco agrario di un tempo. E non ci sono neanche solo i grandi proprietari di oggi, la grande industria agroalimentare, per quanto la piccola impresa agricola sia in crisi. Se si studiano i casi di Cerignola, Rosarno, Nardò o Castelvolturno, che costituiscono la vera frontiera agraria del paese, la realtà è completamente diversa. Il “nemico di classe” di quei braccianti è un sistema di impresa agricolo spesso pulviscolare, a sua volta asfissiato dalle logiche dell’agro-industria e dalle aziende di trasformazione. Per far fronte a questa asfissia, quando non sono già strettamente alleate con essa, queste piccole imprese, spesso a conduzione famigliare, ricorrono al caporalato – oggi più feroce che mai, anche quando i caporali sono stranieri che vessano altri stranieri. Contrarre il costo del lavoro è la loro prima strategia “di resistenza”.
Nei fatti oggi si è realizzata una scissione tra la parola “bracciante” e la parola “contadino”. E chi usa solo e soltanto la parola “contadino” e parla di resistenza contadina, in realtà sta negando o minimizzando proprio quel nuovo conflitto. Un conflitto sempre più barbaro e violento: non sono pochi i casi di braccianti spariti nel nulla per il solo fatto di essersi ribellati ai caporali del cui potere si servono i nuovi padroncini. Per questo io diffido della parola “contadino”, quando non accompagnata da opportune specificazioni. Non perché, a mio avviso, sia sinonimo di arretratezza. Non perché io sia un industrialista novecentesco. Ma perché sto (ho deciso di stare) dalla parte dei nuovi braccianti. E dirò di più. Sono anche convinto che le logiche dell’agro-industria possano essere ribaltate da una nuova alleanza tra braccianti e contadini poveri (in fondo, come si diceva, il socialismo delle origini è nato proprio da questo), ma a patto che la variabile indipendente di questa nuova alleanza siano i braccianti, non i contadini. A patto che si parli di lotta strutturale al caporalato, alla schiavitù, al lavoro nero prima che di resistenza contadina, diversificazione colturale, creazione di nuove filiere. In questa direzione, ad esempio, vanno proprio le esperienze nate intorno a Sos Rosarno.
Il dominio dell’uomo sull’uomo è la prima cosa da abbattere. I contadini italiani di oggi non sono solo i piccoli produttori umbri o toscani. Loro ci sono, ma sono una minoranza. Il quadro maggioritario è offerto dalle decine di migliaia di braccianti sfruttati nelle raccolte pesanti. Facciamo l’esempio più clamoroso. L’Italia è il terzo produttore mondiale di pomodoro, da poco è stata superata dalla Cina. Secondo dati Istat, il pomodoro si raccoglie per circa il 40% in Puglia. Tuttavia, secondo un recente rapporto della Flai Cgil, il 90% dell’oro rosso pugliese è raccolto da braccianti che lavorano sotto caporale – spesso in condizioni prossime alla schiavitù – o comunque in nero, anche quando lo sfruttamento appare più soft. Chi produce tutto questo pomodoro? Ci sono anche proprietà di 200-300 ettari, ma la maggior parte ne ha tra i 10 e i 20. Per chi lavorano? Per aziende per lo più collocate nell’agro nocerino-sarnese. Questo è il sistema. E non può essere liquidato in poche righe come in genere fanno in una stramba, singolare, nuova alleanza i dirigenti della Coldiretti, i teorici dello slow food e quelli dell’agricoltura sostenibile. Chi ricorre ai caporali non sono solo poche mele marce. Che altro ci farebbero allora duemila braccianti a Rosarno, in un comune di 16 mila abitanti, o ventimila braccianti stranieri in Capitanata? Questi sono numeri da grande industria…
Su quali basi allora è possibile creare una nuova alleanza, un nuovo movimento? Per caso ho riletto lo statuto della Federterra, scritto a Bologna nel 1901. È un testo straordinario, frutto di un’epoca eccezionale, ma credo che dica molto anche a chi, oggi, voglia gettare nei campi nuovi semi di socialismo.
La Federterra era una struttura federale di lotte, leghe, realtà locali, provinciali, regionali, per nulla centralizzata. Prima di essere stritolata dall’avvento del fascismo, incise non poco sulla ridefinizione dei rapporti di forza nelle campagne. Quando l’organizzazione dovette decidere chi, tra i lavoratori della terra, poteva entrare nei suoi ranghi e chi no, chi poteva iscriversi e chi no, stabilì i paletti in questo modo. Nell’articolo 1 dello statuto si legge che potevano farne parte “i lavoratori di condizione braccianti, giornalieri, disobbligati, obbligati e salariati in genere, sia a giornata che a cottimo” e i “compartecipanti, mezzadri, fittavoli e piccoli proprietari, purché coltivino essi stessi la terra tenuta in compartecipazione, mezzadria, affitto e proprietà e purché vendano una quantità di lavoro proprio maggiore di quella che ne acquistino da altri”.
Purché vendano una quantità di lavoro proprio maggiore di quella che ne acquistino da altri… È questa la chiave di tutto, la cruna dell’ago. Non demonizzare la piccola proprietà, ma accettarla a patto che rispetti queste condizioni morali, prima ancora che socio-economiche.
Poi l’articolo 1 prosegue. Saggiamente vengono incluse nella federazione anche forme di produzione agricola più complesse: “associazioni cooperative di lavoro fra braccianti e giornalieri; di produzione, di acquisto, di vendita e di credito fra compartecipanti, mezzadri, fittavoli e piccoli proprietari, purché le stesse associazioni cooperative tendano alla socializzazione della terra e dei mezzi di produzione e scambio”.
Purché tendano alla socializzazione della terra e dei mezzi di produzione e di scambio… Sembra troppo utopico oggi questo discorso? È passato troppo tempo da quando venne redatto lo statuto della Federterra? Sicuramente sì, ma non è questo il punto. Contro le logiche sempre più illogiche e monopolistiche dell’agroindustria, un nuovo movimento dei lavoratori della terra dovrebbe partire proprio da qui, dai medesimi assunti. 1) Mettere i braccianti al centro dei propri ragionamenti e della propria azione. 2) Creare, a partire da loro, nuove alleanze più ampie. 3) Nel farlo, tenere sempre a mente quei due “purché”.
(Articolo già pubblicato su Lo straniero n. 141)

Share/Save/Bookmark
 


 

Perchè Italia-Razzismo 


SPORTELLO LEGALE PER RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO

 

 


 

SOS diritti.
Sportello legale a cura dell'Arci.

Ospiteremo qui, ogni settimana, casi, vertenze, questioni ancora aperte o che hanno trovato una soluzione. Chiunque volesse porre quesiti su singole situazioni o tematiche generali, relative alle norme e alle politiche in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza nonché all'accesso al sistema di welfare locale da parte di stranieri, può farlo scrivendo a: immigrazione@arci.it o telefonando al numero verde 800905570
leggi tutto>

Mappamondo
>Parole
>Numeri

Microfono,
la notizia che non c'è.

leggi tutto>

Nero lavoro nero.
leggi tutto>

Leggi razziali.
leggi tutto>

Extra-
comunicare

leggi tutto>

All'ultimo
stadio

leggi tutto>

L'ombelico-
del mondo

Contatti


Links