Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

Menù

 

"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

24 maggio 2010

Così gli imam fai-da-te fanno proseliti in carcere
Viaggio nelle prigioni italiane dove aumentano i detenuti che si convertono. L'esperto: «Entrano ladri di macchine ed escono fanatici». Ce chi predica il terrore e chi camuffa libri di Al Qaida. E una guida spirituale di Opera dice: «È giusto combattere la guerra santa»
il Giornale, 24-05-2010
Fausto Biloslavo
Milano «Penso che sia giusto se alcuni musulmani combattono la guerra santa contro gli americani in Paesi che non sono la loro terra». Dopo un lungo girarci attorno Kamel Adid sorprende un po' tutti, quando sputa il rospo. La domanda riguardava i mujaheddin, i musulmani pronti a morire per Allah, contro l'invasore infedele. Tre soldati della guerra santa, arrivati un paio di mesi fa da Guantanamo, sono rinchiusi poco più in là, nel reparto di massima sicurezza del carcere di Opera, alle porte di Milano.
Adid è un giovane marocchino di 31 anni con barbetta islamica d'ordinanza e tunica color noce. Nel carcere modello di Opera fa l'imam dei 44 musulmani detenuti, che frequentano una grande sala adibita a moschea. Un predicatore fai da te, che di solito parla un linguaggio moderato e ti guarda con occhioni apparentemente timidi.
Deve scontare ancora due mesi di pena per un reato legato alla droga e da pochi giorni è stato trasferito in un altro istituto. «Quelli che si fanno saltare in aria subiscono il lavaggio del cervello - si affretta a spiegare l'autonominato imam -. Noi abbiamo riscoperto la fede in carcere. Pregare ci dà conforto, ci aiuta ad avere speranza».
In Italia su oltre 23mila detenuti stranieri, 9.840 risultano musulmani, secondo i dati ufficiali. Almeno seimila, però, non si sono dichiarati. Il rapporto di 364 pagine, «La radicalizzazione jihadista nelle istituzioni penitenziarie europee», realizzato dall'esperto di islam nelle carceri, Sergio Bianchi, ne indica 13mila.
A Opera il rischio è basso, ma «la radicalizzazione attraverso l'imam "guerriero", in carcere per reati comuni, esiste - spiega Bianchi -. È una specie di cattivo maestro con una forte valenza operativa, religiosa e carismatica».
A Padova un imam fai da te è riuscito a trascinare i detenuti musulmani verso l'estremismo. L'islamico che passava davanti alla sua cella doveva portargli rispetto, come un capo mafia. Trasferito a Udine e poi a Treviso ha continuato nella sua pericolosa opera di
proselitismo. Non solo: lo stesso Bianchi ha trovato in carcere un libro di Sayyed Qutb ispiratore di Al Qaida, camuffato con un'altra copertina per evitare il sequestro.
Nel carcere di Bari l'imam francese Bassam Ayachi e il suo complice convertito, Raphael Gendron, arrestati l'11 novembre 2008, continuavano a complottare. «Emerge da intercettazioni ambientali, che i due, da dentro il carcere, stavano forse pianificando attentati all'aeroporto di Parigi e discutevano di come colpire gli inglesi con un attentato stile 11 settembre» si legge nel rapporto per la Commissione europea.
«Dietro le sbarre non c'è reclutamento, ma costruiscono delle reti con l'esterno. Entri in carcere come ladro di macchina e ti converti al puro islam - spiega Bianchi -. Nessuno se ne accorge per segnalarlo ai servizi di sicurezza. Esci di galera e vieni reclutato».
In Spagna Mohamed Ghaleb Kalaje, detenuto dal 2001, dava istruzioni sul finanziamento di attività terroristiche dal carcere. I visitatori erano utilizzati come corrieri.
In Francia sono stati individuati, in un rapporto confidenziale del 2008, ben 442 islamici che facevano proselitismo in carcere. Nei penitenziari inglesi, uno dei detenuti più famosi, Abu Qatada, ispiratore di cellule anche in Italia, preparava documenti contro l'addio alle armi dei terroristi egiziani. Richard Reid, il terrorista che voleva far saltare in aria un volo passeggeri con dell'esplosivo nascosto nelle scarpe, si è convertito all'islam in una prigione inglese.
Per la prima volta il carcere di Opera spalanca le porte ad un giornalista, che si mescola ai detenuti musulmani mentre si genuflettono verso la Mecca. La moschea è semplice, con il pavimento ricoperto di tappeti e le pareti dipinte di verde, il colore dell'islam. All'esterno si lasciano le scarpe e colpisce il grande Corano dipinto all'ingresso. Zaine, tunisino, garantisce che «con i cristiani detenuti non ci sono problemi. Il cuscus lo mangiano pure loro». Mehzali Kamal, da 3 anni e 7 mesi in carcere, lavora dietro le sbarre «così pago l'asilo di mia figlia». Un ragazzone alto e con le spalle come un armadio è dentro per omicidio, ma tutti sembrano aver trovato un senso di riscatto nella preghiera rivolta ad Allah.
«A noi non risulta che in moschea si parli di politica e tantomeno di terrorismo» sottolinea Maria Vittoria Menenti, la graziosa e decisa numero due dell'istituto penitenziario.
A Opera su 1.300 «ospiti», 250 sono stranieri, in gran parte nordafricani. «Una volta un detenuto musulmano non voleva parlare con me perché sono donna - racconta la Menenti -. Poi ci ha ripensato, anche se non mi fissava mai negli occhi. Per rispetto evito di entrare in moschea, ma il velo per coprirmi la testa me lo sono messo solo in Egitto quando ero in vacanza».
Nelle carceri italiane si rispetta il vitto islamico, che proibisce la carne di maiale. Particolare attenzione viene riservata nel periodo del Ramadan, la più importante ricorrenza musulmana con un mese di digiuno diurno.
«Una piccola moschea è regolarmente allestita presso la Casa circondariale di Prato, una sala di cultura islamica esiste a Ferrara ed un'apposita saletta per la preghiera è prevista a San Gimigna-no» informa il ministero della Giustizia. Valvole di sfogo spirituale di questo genere sono utili in tutte le carceri. E forse sarebbe meglio avere, al fianco dei 250 cappellani cristiani, degli imam ufficiali, preparati e moderati.
In Italia ci sono circa 80 islamici dietro le sbarre per reati connessi al terrorismo. Dal 2009 li hanno concentrati in quattro istituti di pena: ad Asti, Macomer, Benevento e Rossano. A Opera, invece, sono arrivati Adel Ben Mabrouk, NasriRiadh e Moez Abdel Qader Fezzani, exprigionieri di Guantanamo. Chi li controlla ogni giorno racconta che parlano in italiano. La guerra santa in Afghanistan l'hanno abbracciata dopo aver vissuto come extracomunitari nel nostro Paese. Non si possono incontrare fra loro e vivono in celle singole. Pregano regolarmente con molta devozione e hanno mantenuto i barboni islamici.
Bianchi spiega che gli 80 terroristi «hanno una forte preparazione militare, con capacità di guida organizzativa e logistica delle gang carcerarie».
Un pericolo concreto è quello di rivolte. Già sono state segnalate proteste dei musulmani legate al sovraffollamento (700 detenuti in più ogni mese). «Lo scenario più probabile è una rivolta con agenti penitenziari presi in ostaggio-prevede Bianchi -. Ricordiamoci che i terroristi sono pronti a morire in nome del Jihad». Un anno fa un gruppo di islamici detenuti a Macomer ha fatto pubblicare su internet una lettera di protesta, per presunte persecuzioni religiose e civili del regime di massima sicurezza. Secondo il rapporto per Bruxelles esiste un terzo preoccupante scenario: «Nei documenti di Al Qaida e loro affiliati, si istiga a rapire civili occidentali oppure i nostri soldati per liberarli in cambio di islamici detenuti nelle carceri europee».



Da detenuti a soldati del jihad Ora in cella l'islam fa paura
Per molti stranieri la fede è un'ancora di salvezza. Ma è facile che diventi indottrinamento, soprattutto fra i meno integrati

il GIornale, 24-05-2010
Ida Magli
Fra i tanti problemi posti dall'eccessiva presenza in Italia d'immigrati, uno dei più difficili da risolvere è quello dell'alto numero di musulmani nelle carceri. Si tratta di molte migliaia di persone che si trovano a vivere una delle esperienze più dolorose, quale appunto quella della privazione della libertà, in un ambiente dove non si parla la loro lingua, dove non possono condividere col compagno di cella né ricordi del passato né progetti per il futuro; dove, insomma, l'«estraneità» della terra d'origine, della patria, della religione, dei costumi, dei sentimenti, delle abitudini quotidiane, già tanto forte all'esterno, assume in un certo senso una dimensione «essenziale». Soltanto se si fa lo sforzo di comprendere quest'aspetto del vissuto carcerario dei musulmani ci si può rendere conto di come la scoperta o la riscoperta della devozione religiosa, attraverso le cure che in tal senso porgono loro i più solerti compagni,  divenga un legame e una forza di salvezza.
Di fatto è stato organizzato un sistema di recupero al Corano nei confronti dei prigionieri, anche di quelli più lontani dall'osservanza della fede: cosa che senza dubbio aiuta psicologicamente le singole persone, specialmente quando sono state trascinate nella criminalità del furto o della droga
dalla mancanza di un qualsiasi ordine di vita e di lavoro. Ma soprattutto le spinge a trovare un nuovo centro d'interesse e una guida concreta proprio perché il Corano non è soltanto un testo sacro quanto un codice simultaneamente civile e religioso; una voce che dice al credente come Dio gli indichi una strada sicura nella quale non sarà mai lasciato solo purché sia fedele alle preghiere e ai precetti quotidiani. Questa, però, è soltanto una premessa a ciò che sta diventando una forma di organizzazione disciplinata e attenta di molti degli immigrati musulmani che, proprio perché selezionati fra quelli meno integrati in Italia e già predisposti alla devianza come i prigionieri, possono più facilmente diventare portatori di un'esasperata volontà di riscatto islamico, ed eventualmente anche eversiva. In altri termini, non è inverosimile supporre che si stia sviluppando una forma di vero e proprio indottrinamento dei prigionieri che porti, attraverso la maggiore fedeltà al Corano, al recupero della forma più radicale d' identità musulmana, quella che non ammette l'esistenza di «infedeli», i quali vanno combattuti e vinti in nome di Allah.
È questo un aspetto nuovo delle difficoltà che l'immigrazione pone agli italiani. Lontani come sono ormai in grande maggioranza da una fede che li induca alla battaglia, i cattolici non riescono a rendersi conto della forza di una fede religiosa quando è sentita in forma assoluta. Nelle carceri si trovano naturalmente molti italiani, ma il cappellano è una figura ovvia, amica, confortante di per sé, non perché induca a forti passioni in nome di Dio. Non sappiamo se, posti nella stessa cella, non sia il musulmano a suscitare l'interesse del cristiano parlandogli di Allah più che il cap -
pellano parlandogli di Dio. Questa è la situazione, e la Chiesa non sembra per niente preoccuparsene, anzi. Si preoccupa degli immigrati, del loro diritto alla propria religione, senza neanche il più piccolo tentativo di mettere in luce l'abisso che separa l'obbligo coranico dell'odio per gli infedeli dal «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». Nei confronti dei cattolici, i preti sembrano ormai accontentarsi di una stanca routine, fatta di parole ovvie e sempre uguali, ben sapendo che a nulla servono e che nulla cambiano. Anche le carceri, dunque, lungi dal preparare gli immigrati a quella «integrazione» di cui si dimostra tanto sicuro Gianfranco Fini, allevano dei forti musulmani che probabilmente, una volta usciti, sia che rimangano in Italia sia che tornino nei loro Paesi, saranno disponibili ad azioni ostili. Qualche correttivo, però, si potrebbe mettere in atto, se non altro organizzando gli incontri religiosi sotto la guida di un imam conosciuto dalla direzione delle carceri, ma soprattutto non accantonando il problema nella speranza che si risolva da sé.




Il Sottosegretario: LAMBERTI CASELLATI
«Il rischio estremismo c'è Ma l'isolamento funziona»

il Giornale, 24-05-2010
II sottosegretario alla Giustizia, Maria Elisabetta Lamberti Casellati, ha scritto la prefazione del rapporto per Bruxelles «La radicalizzazione jihadista nelle istituzioni penitenziarie europee». Sottosegretario esiste un pericolo di estremismo islamico nelle carceri italiane? «La realtà carceraria costituisce un pericoloso bacino di coltura per il fondamentalismo, che potrebbe svilupparsi sia attraverso il contatto con altri reclusi e l'accesso a materiali radicali, che per l'influenza di persone esterne al carcere in contatto con i detenuti. In Italia si è deciso di concentrare i musulmani terroristi o imputati di reati connessi al terrorismo, in quattro carceri, Macomer, Benevento, Asti e Rossano, creando un regime speciale». Quali sono gli strumenti per evitare il proselitismo jihadista? «Alla dimensione repressiva l' Italia ha accompagnato un impegno che si articola in varie direzioni: da un lato, ha ritenuto utile valorizzare il contributo dell'islam moderato, con il quale è già in atto un dialogo fecondo. Dall'altro, ha utilizzato tutte le moderne tecnologie, anche le più sofisticate, per individuare atteggiamenti sospetti (su internet, via sms, twitter) e quindi prevenire azioni pericolose». I detenuti islamici spesso si lamentano  perché  pochi  istituti hanno una moschea. Bisogna trovare uno spazio in ogni carcere con popolazione musulmana? «Laddove è stato possibile si è andati incontro a questa esigenza. Non possiamo dimenticare però i problemi logistici e di carenza del personale che affliggono il sistema carcerario. Per di più si dovrebbe richiedere al personale ulteriori competenze quali, ad esempio, la conoscenza linguistica». In carcere nascono gli imam fai da te per guidare la preghiera. Sarebbe meglio avere dei predicatori ufficiali, come i cappellani per i cristiani?
«Oggi manca un elenco ufficiale di ministri di culto islamici. Le direzioni penitenziarie perciò devono individuare, secondo i criteri elaborati dal ministero della Giustizia, l'imam di riferimento all'interno delle carceri». In Europa ci sono 500 terroristi islamici detenuti. In Italia esiste il pericolo di proteste violente o rivolte?
«Il rischio di proselitismo finalizzato alla lotta armata va tenuto sotto controllo. Basti pensare che i detenuti di fede islamica sono 9.838 su un totale di 24.910 stranieri, cioè il 14,55% dell'intera popolazione carceraria. Ottanta sono reclusi per reati direttamente associati al terrorismo. Ritengo che la strategia di isolamento scelta dall'Italia possa arginare il rischio di mobilitazioni pericolose"



Ripudiata dal fratello la tunisina con le labbra cucite

Corriere della Sera, 23-05-2010
Francesco Alberti
Ripudiata dal cognato e dal fratello per aver avuto in Tunisia una storia d'amore senza essere sposata, «e se torno mi uccidono, ci hanno già provato». Fuggita in Libia per dare alla luce il frutto di quella storia: un bambino, «mio figlio», che ora ha 8 anni e vive dalle parti di Tripoli. Il viaggio in gommone verso l'Italia. La clandestinità. Lavori umili. Quindi la galera: 8 mesi di cella per una storia di droga, salvo poi essere completamente assolta. C'è questo, e forse molto di più, dietro le labbra cucite di Najova, tunisina di 34 anni, che due giorni fa, dopo aver appreso che la sua richiesta di asilo politico era stata respinta, ha preso ago e filo e, forse perché ormai abituata a dolori ben più grandi,si è fatta sarta di se stessa: quattro punti da un labbro all'altro, buchi grossi e sanguinanti, solo una fessura per poter bere e pronunciare qualche parola, ma non mangiare. Una mascherina copre la bocca deturpata di Najova, le parole arrivano attutite, smozzicate. Ma quello che ieri ha detto alla garante dei diritti, l'avvocato Desi Bruno, che l'ha incontrata nei locali del Centro di identificazione ed espulsione di Bologna (Cie), lo si è capito benissimo: «In Tunisia ci torno soltanto da morta!».
Ci sono tante vite nella vita di Najova. La prima è stata quella dell'amore, quando ha conosciuto un giovane uomo in Tunisia: si sono frequentati, anche troppo agli occhi della sua famiglia di islamici integralisti. Il fratello e il cognato (un tipo per niente raccomandabile: condannato per l'omicidio di un altro parente) hanno cominciato a minacciarla: «Mi aspettavano a casa con il coltello, me lo agitavano davanti alla faccia: mi dicevano che quella storia doveva finire e volevano che mi mettessi il velo». Ma anziché il velo, Najova ha messo su il pancione. Ed è iniziata la sua seconda vita, un film horror. Fuggita con il suo uomo in Libia e inseguita dalle grida dei familiari, che l'hanno ripudiata, là donna ha partorito un bambino e, dopo 2-3 anni, ha deciso di giocare la carta italiana. Senza il figlio, «per risparmiargli il calvario della traversata in mare», è partita con il suo uomo. Ma in Italia si è messa male. La coppia è scoppiata. Lei ha fatto la badante in Veneto e altri lavoretti.
Poi un giorno a Rovigo la polizia ha fatto irruzione nella casa che divideva con un altro uomo. Hanno trovato droga. E Najova si è fatta 8 mesi di galera. Senza colpa. «È stata assolta» spiega l'avvocato Roberta Zerbinati. In quanto clandestina, però, è stata portata al Cie per essere espulsa. Ora la donna dalle labbra cucite non vuole essere curata. «Non si fa sfiorare da nessuno — spiega Desi Bruno —: si è resa conto di essere riuscita ad attirare l'attenzione e teme di ripiombare nel grande buio, come lo chiama lei...». «Impugneremo il decreto d'espulsione» aggiunge l'avvocato Zerbinati. Battaglia difficile: «La legge vieta il respingimento di persone che nei loro Paesi rischiano persecuzioni. Non è detto che questa donna debba restare in Italia, ma in Tunisia no...». Se non da morta, come dice Najova.



Fornelli d'Italia: chef immigrati nelle cucine italiane

L'espressofood&wine,24-05-2010
Dai fotografi Marco Delogu e Michele De Andreis un reportage sugli immigrati che lavorano nelle cucine dei grandi ristoranti italiani. L’idea nasce dalla volontà di testimoniare un aspetto poco conosciuto della presenza degli immigrati in Italia. I cuochi fotografati hanno quasi tutti cominciato come lavapiatti, per caso o per necessità. Pur proveniendo da storie, Paesi, culture e lavori diversi, hanno tutti trovato in questa professione non solo una forma di realizzazione e di riscatto, ma una vera e propria passione. La mostra (fino al 30 maggio alla Casa del Cinema a Villa Borghese) è prodotta da etnocom etnomarketing in collaborazione con Gambero Rosso, a cura di Chiara Solustri, con la direzione fotografica di Delogu e direzione artistica di Cristina Clausi Schettini. Le foto saranno oggetto di un catalogo edito da Punctum e compariranno tutte sul sito www.crossworlds.it



DAL MONDO A BELLUNO,STORIE DI IMMIGRATI NELLA PROVINICIA BELLUNESE ATTRAVERSO GLI "SCATTI" DI ROBERTO MURARO

Italian Network, 24-05-2010
“Io sono bellunese– voci e volti di migranti” è il titolo della mostra fotografica di Rubero Muraro inaugurata lo scorso 22 maggio all’Auditorium di Belluno.
La mostra (che dura fino al 5 giugno) è organizzata dall’Associazione “Alba Azione di Gioia” e dal comune di Belluno con la collaborazione di numerosi altri enti e associazioni,e rientra nel progetto che accomuna la fotografia ai racconti di esperienze di immigrazione in provincia di Belluno.
Una mostra singolare già nella locandina di presentazione, che riporta in più lingue la frase “Io sono bellunese”, a significare la molteplicità di etnie e culture che al giorno d’oggi formano il tessuto sociale della provincia.
Si tratta di sequenza di immagini e di testimonianze di migranti di ogni luogo del mondo,  residenti in Provincia, che offrono uno spaccato sulle molte storie di cittadini stranieri che hanno trovato casa, lavoro, amicizie e opportunità tra le Dolomiti.Storie di "accoglienza" ed integrazione per cui ognuno di loro può dire di essere bellunese.
Storie raccolte da Roberto Muraro attraverso scatti e commentate da brevi racconti, documenti importanti per far conoscere spaccati di immigrazione positiva.
Come sottolinea Edlira Ciftja , presidente di “Alba Azione di Gioia” e animatrice della manifestazione, la mostra sottende l’auspicio che in ogni luogo del mondo la persona si trovi bene. Su questo significato viene posta l'attenzione anche dai rappresentanti delle varie istituzioni, tra cui l’Associazione Bellunesi nel mondo, per i quali è necessario evidenziare quanto dietro ad ogni volto di un migrante, c’ è una persona, una storia, degli affetti, delle speranze.
Collaborano numerose altre realtà dell’emigrazione e della scuola, come l’Associazione Bellunesi nel mondo, il Centro territoriale permanente, Libera e le Scuole in rete di Belluno.
La cerimonia si è conclusa con l'esibizione di due  fratellini  di origini italo-bielorusse che hanno mimato il lavoro  della falciatura sulle note di un canto bielorusso.



Intervista: Maurizio Ambrosini
Emergenza immigrazione? Quando serve

il Fatto Quotidiano, 23 -05-2010
Corrado Giustiniani
Improvvisamente, cala il sipario sugli immigrati. Non se ne parla quasi più, non sono più un problema. La lotta contro i clandestini è stata vinta, ripete trionfante da tutte le tribune il ministro dell'Interno Roberto Maroni. "Soprattutto si parla meno di criminalità e devianza legata agli immigrati. Un silenzio punteggiato da improvvisi scoppi di visibilità, come Rosarno o via Padova a Milano, con lo scontro tra sudamericani e nordafricani e l'egiziano rimasto sul campo", spiega Maurizio Ambrosini, uno dei più acuti esperti di immigrazione, docente di Sociologia dei processi migratori all'Università di Milano e autore di saggi come Richiesti e respinti, appena uscito per Il Saggiatore. Come si spiega l'altalena di eccessi e silenzi? Le analisi dell'Osservatorio di Pavia ci dicono che l'Italia è il paese in cui si parla più di cro¬naca nera in tv, e molto spesso questa viene legata all'immigrazione. Soltanto da noi un tg delle 20 annuncia: "Violentata da uno straniero". Ma questa pressione mediatica è calata dopo il 2008, risalita prima delle elezioni regionali del 2010 e discesa nuovamente adesso. Oggi il governo e le tv ad esso legate conducono l'operazione opposta: convincere tutti che il paese è diventato sicuro. Ed è vero, che è più sicuro? Il ministero dell'Interno ha fatto sapere che negli ultimi due anni i reati si sono ridotti dell' 11%. Ma non dice che la diminuzione è in corso da diversi anni. La devianza degli immigrati, poi, è proporzionalmente diminuita per due semplici ragioni: sono diminuiti gli irregolari perché la Romania è entrata nell'Unione europea e per la sanatoria di 300 mila persone (formalmente colf e badanti) del settembre 2009. Chi ha il permesso di soggiorno entra in una condizione meno marginale ed è meno esposto al rischio di devianza.
Ma davvero i cosiddetti clandestini sono spariti? Assolutamente no. Si sono semplicemente ridotti, rispetto al decreto flussi del 2008, quando potevano essere stimati in 750mila. Oggi, secondo i calcoli del professor Giancarlo Blangiardo dell'Ismu sono poco sopra i 500 mila.
Merito della politica dei respingimenti in mare? Macché! Prendiamo l'anno di picco degli sbarchi, il 2008, con 36 mila. Bene, questi non costituivano che il 10-12 per cento degli arrivi irregolari nel nostro paese. Averli ridotti del 90 per cento nel 2009, significa dunque poco.
E da dove e come giungono, allora, i migranti? In autobus dall'Europa, in aereo dal Sudamerica e dalla stessa Africa. Ma non sono irregolari in partenza, perché la grande maggioranza entra con visto turistico e diventa irregolare dopo. Oltre il 60% degli attuali regolari ha seguito questo percorso, ma non lo si vuole rivelare.
Merito di un giro di vite sulle espulsioni?
Anche in questo caso il governo vende fumo. Di espulsioni se ne fanno assai poche. Nel 2008 sono state appena 18 mila, ovvero il 3% dei clandestini stimati allora. Quanto ai Centri di espulsione, hanno 1.160 posti, quindi la decisione di allungare da due a sei mesi la custodia si rivela propagandistica. Vengono trattenuti nei Cie solo in pochi e nel 2008 solo il 41 % di loro è stato espulso. Frattini favoleggiava di voli congiunti con altri Stati per riportare i "clandestini" in patria: ne è stato organizzato solo uno, verso la Nigeria. Possiamo convivere con oltre 500 mila irregolari?
Di fatto lo stiamo facendo, ma non è una politica lungimirante. L'aumento della legalità richiede altre politiche. L'Italia in 22 anni ha fatto sei sanatorie. Berlusconi è il più grande regolarizzatore d'Europa: ha battuto Zapatero, sanando 1 milione di clandestini. Ventidue Stati dell'Ue su 27 hanno varato sanatorie negli ultimi dieci anni, regolarizzando da 5 a 6 milioni di immigrati.
Non basta insomma sanare colf e badanti... Capita che, nella stessa famiglia, lei colf può restare in Italia, e il marito operaio edile rischia di essere sbattuto fuori. Quali altre misure raccomanda?
Agevolare i ricongiungimenti familiari, come si fa in tutta Europa: sono arrivi regolari che creano stabilità psicologica. Il governo, invece, alza l'asticella del reddito e dei requisiti di alloggio. Crea stabilità anche la possibilità di professare la propria religione. Ecco perché negli Usa costruiscono tanti luoghi di culto.
Ma con la crisi, gli immigrati non lasceranno il paese? La Spagna ha tentato di incoraggiare i rientri, ma senza successo. Nessuno dopo aver investito tutta la sua esistenza, torna in patria con un fallimento.



Rom e centri sociali, la strana alleanza dell'illegalità

laPadania, 23-05-2010
ALESSANDRO MORELLI

MILÀN - Rom e centri sociali, una alleanza pericolosa che ancora una volta rischia di mettere a repentaglio la sicurezza di, Milano, metropoli assediata dalle violenze di poche centinaia di persone con interessi diversi pronte a unirsi per mettere a ferro e fuoco la città.
Indymedia, Ondarossa, Meltingpot, tutti siti web pronti a lanciare per oggi il richiamo alle armi per gli appartenenti dei centri sociali disposti ad unirsi agli zingari in protesta.
Eccoli i "pacifìnti" con la bandiera dell'arcobaleno in una mano e il sanpietrino nell'altra.
Loro manifestano per dimostrare di non essere ancora del tutto spariti, i rom perché il piano del ministro Maroni pre-vede entro il 30 giugno lo
sgombero definitivo del campo di via Triboniano: chi verrà trovato in possesso di immobili o beni di lusso (le auto da 50mila euro si sprecano  nel piazzale  del campo) non riceverà più le (tante) prebende avute finora.
Ecco che la comunità rom si unisce e si ribella  formando una "santa alleanza" con i no-global che prevede perfino che la comunicazione alla questura su un possibile presidio davanti a Palazzo Marino parta proprio dai centri sociali.
Non è la prima volta che si verifica questa unione: già nel 2004 contro lo sgombero dello stabile occupato di via Adda si presentarono decine di pacifinti mischiati tra gli zingari, i ratti e le tonnellate di rifiuti abbandonati in ogni luogo.
Intanto il ministro Maroni spiega la sua posizione sulle proteste: «Una rivolta che non possiamo tollerare. Un atteggiamento sbagliato» e conferma la vo-lontà nel perseguire la stra1 da della legalità «continueremo nel programma che è stato studiato dall'amministrazione comunale, senza farci intimorire da queste reazioni ingiustificate».
Insomma, dopo la sassaiola e gli scontri con la polizia di giovedì sera, il Comune di Milano conferma che porterà avanti il programma di progressivo smantellamento del campo nomadi di Via Triboniano. «Noi - ha detto il sindaco Letizia Moratti - naturalmente andiamo avanti con il nostro programma perché è giusto mantenere una linea di coerenza e quindi legalità, accoglienza e integrazione».
A chi le chiede cosa replichi a chi dice che Triboniano sia una polveriera, Moratti risponde che il campo non è una più una zona franca. «Se mi ricordo come era Triboniano come quando ero candidata sindaco - continua Moratti -non posso dire di essere più preoccupata di quanto lo fossi allora. Allora c'erano mille rom, non entrava neppure la polizia. Abbiamo dovuto aspettare il secondo incendio, era il 31 dicembre, ero da poco sin-daco e al secondo incendio mi sono precipitata per ve-dere di intervenire in una situazione dove prima non si interveniva» ha sottolineato il primo cittadino milanese.
«È chiaro che quando ci sono zone franche si fa fa-tica a renderle legali. Però è un percorso che abbiamo iniziato e continuiamo con determinazione su questa strada».
Viminale e Palazzo Marino sono tanto decisi che non sono previsti incontri tra ministro dell'Interno e sindaco per discutere della tensione riaccesasi all'interno del campo rom.
«Ho parlato con il Prefetto - ha spiegato il sindaco - e noi andiamo avanti con il nostro programma, perché è giusto mantenere una linea di coerenza. Legalità, accoglienza e integrazione sono inscindibili, uso le stesse parole che ha usato Maroni» ha ribadito.



NON DOBBIAMO CEDERE Al RICATTI DEI NOMADI

laPadania, 23-05-2010
PAOLA PELLAI
Hanno la casa di proprietà ma vogliono vivere a scrocco. Sulle nostre spalle. Guidano l'Audi e la Mercedes, ma se prendono l'autobus non hanno spiccioli per il biglietto. Si fanno curare dall'Asl, ma i denti se li mettono d'oro. E se cerchi bigiotteria ad-dosso a loro, resterai deluso per quanto sono ingioiellati. Non hanno un lavoro ma sfornano figli come rosette e poi ce li mettono sul conto.
Dobbiamo mantenerli con dignità e decenza perchè altrimenti si arrabbiano e mettono a soqquadro la città. Le nostre città. Sono tanti e grossi e pure sponsorizzati. Già, perchè dalla loro hanno il Comitato antirazzista che li appoggia e li tiene aizzati. Sono i nomadi di via Triboniano, quelli che hanno messo a ferro (tondini grandi come noci) e fuoco il quartiere alle spalle di viale Certosa.  Non cercare il dialogo perchè loro sanno solo minacciare:  «Non ci fermeranno - spiegano -. Noi abbiamo una storia da difendere: apparteniamo al popolo vivente più   antico d'Europa. Vo-gliono chiudere  il campo? Bruceremo altre macchine, lanceremo altre bottiglie». Hanno  una storia da difendere,  dunque  devono uccidere la no¬stra.  Ecco il messaggio di guerra alla città che li ha accolti, che ha dato loro un territorio e garantito scuola e assistenza per i loro figli. E che, con ancora più grande generosità, ha assicurato loro pure un futuro. Sì, perchè se è vero che i campi rom, secondo il piano Maroni, vanno sgom-berati entro l'anno, è altrettanto vero che verrà data loro la possibilità di un'abitazione a prezzi popolari. Naturalmente verificando chi ne ha diritto, perchè c'è una lista da rispettare di 20 mila persone in attesa. Chi ha l'oro in bocca e nel garage, può, evidentemente, trovarsi una soluzione in proprio. Basta coi ricatti, basta con il buonismo demagogico.
I rom di via Triboniano si attaccano alla ruota dei rifugiati eritrei di piazzale Oberdan. Anche loro coccolati e scatenati
dai centri sociali che non ne adottano uno neppure sotto Natale, ma ce li regalano tutti. Anche i rifugiati fanno parte del gentile tesoretto che ci ha lasciato in eredità tanta disastrosa demagogia sinistra. Ora si vogliono mettere delle regole alle regalie e questo evidentemente dà loro fastidio. Non accettano e ricattano. O si sta alle loro condizioni o la città brucia. Eppure il cosiddetto piano Maroni, solo per Milano prevede uno stanziamento totale di 13 milioni di euro, tra politiche di integrazione, di si-curezza e interventi di riqualificazione delle strutture. È la prima volta nella storia della Repubblica che Roma, grazie al ministro dell'Interno Roberto Maroni, stanzia del denaro per Milano appositamente allo scopo di risolvere un problema che dura da vent'anni come quello degli insediamenti rom. E, sempre per la prima volta, i nomadi possono provare a vivere civilmente e rispettare le regole. Ma non lo vogliono. Questa è la verità. La verità messa su carta dal Comitato antirazzista milanese: «La richiesta era e resta molto chiara. Tramite i fondi europei stanziati per le comunità rom e gestiti dal Comune ( fino ad ora utilizzati solo per funzione di controllo dei rom e per ingrassare la miserabile gestione caritatevole di alcune associazioni cattoliche) si chiede la concessione di aree abbandonate dentro il territorio del comune di Milano, autorecuperabili a costo zero, e garantendo la continuità scolastica ai bambini». Costo zero è la parola magica. Costo zero loro, conti con più zeri per noi. E offendono: «Una proposta troppo intelligente (e in fin dei conti persino moderata) per i razzisti che stanno nel consiglio comunale di Milano e che si annidano anche tra tante associazioni, cattoliche e/o democratiche». Un ricatto messo nero su bianco in tre punti. Ma stavolta il pugno di ferro delle istituzioni sembra in sinergia. Troppo è stato dato in cambio di nulla. Se non violenza e distruzione.



"Banlieues sul punto di esplodere"
Quarantasei sindaci francesi lanciano un Sos al governo: si rischia una rivolta peggiore del 2005

La Stampa, 24-05-2010
Tremblay en France, gemellata con Marciano e Loropeni», annuncia il cartello; e un bel vialone, di un verde furibondo, introduce alla banlieue oggi più tristemente celebre di Francia. Grazie a Sarkozy e al ministro degli Interni, che l'hanno scelta come esempio delle zone di scandaloso non diritto; dove comandano i «voyous» che bisogna sradicare con l'eterno apriti sesamo del raid poliziesco. Chi potrebbe dirlo sfilando le villette con giardinetto accluso di placidi pensionati, percorrendo il corso che porta alla stazione tutto giocoso di proustiani lillà in fiore? Eppure in un tetro palazzone la polizia ha appena spalancato «l'ufficio» di un «caid»: c'erano un chilo e mezzo di cocaina, 400 grammi di eroina e altrettanti di cannabis, e soprattutto 980 mila euro in biglietti di piccolo taglio. L'incasso. Non mancava la macchina per contare i biglietti: come in banca. E a Tremblay, banlieue di civile, sviante normalità urbanistica, sono arrivate le tv per raccontare una città di 35 mila abitanti supermercato della droga, dove la gente vive uscio a uscio con gli spacciatori che nei cementizi falansteri si sono fatti un buon nido. Dove bande di ciurmatori adolescenti a libro paga dei caid, lapidano gli autobus e le auto della polizia che osano superare «la frontiera».
Il regno delle bande
Le «cités» si convertono alla fiorente economia di supermercati per tossicomani, ghetti all'americana, dove i giovani aderiscono alla delinquenza come a un partito politico. Non a caso nelle ultime regionali le percentuali dei votanti sono state minime. Un mondo a parte, impervio, solidale ma retto da regole malavitose, occulte,dove la mitologica coazione all'integrazione è cenere.
Sono le venti, al deposito degli autobus, i mezzi rientrano a gran velocità, sta per scattare il coprifuoco delle linee 15 e 39. Troppe aggressioni, bande di giovani presidiano le fermate e li bombardano di pietre. Quando cala il sole viaggiare è un'impresa da commando. Nessuno si sogna più di chiedere il biglietto, per non essere pestati. Djamel, delegato della CGt, ha le idee chiare: «Siamo autisti, non ci hanno mica arruolati nell'esercito! Per il ministro degli Interni siamo carne da cannone, deve giocare alla guerra con i teppisti, ma noi non ci stiamo». Gli autisti rifiutano anche la scorta, come per le diligenze del West: alcuni degli autobus massacrati a sassate erano appunto inutilmente presidiati.
Un appello bipartisan
Il sindaco di Tremblay si chiama Francois Asensi, è comunista, uno degli ultimi rimasti nella cintura rossa che un tempo abbracciava Parigi, quando le banlieues erano operaie. Il suo nome è il secondo sulla lista dei 46 che hanno firmato la «Lettera a coloro che ignorano le banlieues» sul Journal du dimanche. Per denunciarne il secondo tradimento e il rischio che esploda una rivolta più feroce di quella del 2005. L'iniziativa l'ha presa, non a caso, Claude Dilani, sindaco di Clichè-sous-Bois dove scoppiarono quei moti. Hanno firmato sindaci dell'Ump, il partito di governo, socialisti, centristi e verdi. Tutti sono «stufi di fare i pompieri», di cercare di tener buona la gente, di contare le auto bruciate ogni sabato sera senza che a Parigi facciano più statistiche'perché è meglio non disturbare le miserie che dormono. Bollano quella che chiamano «la segregazione territoriale». Il «piano banlieue» è scomparso nel nulla, utopie senza fondi. L'aveva redatto Fadela Amara chiamata al governo per risanare le cités. Era sembrata una buona idea di Sarkozy. Propaganda furbamente equivoca. Si fanno scommesse su quando, esausta, darà le dimissioni.
Il business della droga
Tutti questi sindaci hanno davanti una gioventù perduta , uscita troppo presto dalla scuola e che non ha alcuna chance di trovare lavoro, destinata alla strada. A Tremblay il tasso di disoccupazione tra i 18 e i 35 anni è del 35%; i loro genitori quando va bene se la cavano con mille euro al mese. E allora per vivere ci sono gli spacciatori, si va «a faire le pu», ovvero il palo con il walkie-talkie, davanti al kebab e alla drogheria africana, il piede appoggiato al muro per controllare che la polizia non venga a disturbare: con un che di impiegatizio. Ci sono ragazzini che portano a casa 150 euro al giorno, così. La droga rende sempre più, i clienti migliori arrivano da Parigi, la cocaina a 50 euro il grammo fa furore. Ci sono «aziende» di condominio che rendono 10 mila euro al giorno. «Per questi ragazzi non posso fare nulla - sintetizza il sindaco Asensi - ci vorrebbero strutture chiuse con gli psicologi».
Martedì verrà sfornato il nuovo «Consiglio nazionale delle città». Un'altra sigla? I sindaci avvertono: «Al di la dell'insicurezza, inaccettabile, subiamo ogni giorno di più la separazione, la disoccupazione, il fallimento scolastico, la mancanza di case, la penuria dei mezzi pubblici... accrescono un sentimento di abbandono che gran parte della società francese non riesce a capire. Senza dibattito, senza che ce ne rendiamo conto, la Francia sta cambiando società: la libertà, la fraternità e la eguaglianza sono in pericolo a vantaggio di egoismo e ineguaglianza».



«Vivo all’occidentale e a casa mi picchiano»

Giulio Guerzoni
Un caso inquietante di violenza ai minori collegato all’enorme e complesso tema dell’immigrazione e delle differenze culturali. Le nuove generazioni di italiani, ovvero i figli degli immigrati, cresciuti nel nostro paese e formati nelle nostre scuole pubbliche, si trovano a metà tra lo stile di vita occidentale e le tradizioni sociali e religiose della proprio paese di origine. Un doppio mondo che si mischia nella quotidianità di vita di una studentessa minorenne: in famiglia un certo tipo di regole, con in sottofondo la lingua araba; fuori casa tutti gli amici che parlano italiano e sono già molto indipendenti.

La protagonista, che deve ancora compiere 16 anni ed è originaria del Marocco, era già scappata di casa una volta, ma fu ritrovata a Milano e riaccompagnata dalla famiglia che vive a Piumazzo di Castelfranco. Le circostanze di questo primo episodio, in particolare l’aria molto spaventata della ragazzina durante il viaggio di ritorno, non avevano convinto pienamente i soccorritori, i quali avevano segnalato l’episodio ai servizi sociali. La polizia municipale di Castelfranco aveva così iniziato a tenere monitorata la situazione, fino a ieri, quando il tutto è precipitato nuovamente con una nuova fuga.

La giovane, come ogni giorno, è partita alla mattina per andare a scuola a Modena con un mezzo pubblico e poi non è più rientrata a casa. Dopo essere rimasta fuori tutto il giorno, i vigili di Modena l’hanno stata ritrovata stremata all’1,30 di notte su una panchina in Via Palatucci, nei pressi della Questura. Dopo che i vigili le hanno chiesto spiegazioni, hanno notato che aveva dei lividi sospetti sul corpo e così è stata accompagnata al Policlinico per degli accertamenti. Durante le visite sono state riscontrate brutte lesioni da maltrattamenti, morsi e pugni, e anche segni di coercizione (forse veniva anche legata).

Una volta terminati gli accertamenti medici, l’adolescente, evidentemente provata, ha raccontato cosa accadeva tra le mura domestiche, una realtà terribile da cui voleva assolutamente evadere. La madre le rendeva la vita impossibile, una vera e propria persecuzione perché, a suo dire, viveva “troppo all’occidentale”: vestiti troppo discinti, non portava il velo e aveva cominciato a fumare. La donna, come punizione massima, le avrebbe anche provocato ustioni su una mano, usando la lama incandescente di un coltello da cucina.

Dopo aver udito questo racconto, gli operatori della municipale non hanno riaccompagnato a casa la ragazzina, nonostante, nel frattempo, i genitori avessero presentato una denuncia di scomparsa, preoccupati dalla sua nuova sparizione. Il caso ora è in mano al tribunale dei minori di Bologna e la ragazzina è stata trasportata in una casa di accoglienza fuori provincia in maniera tale da proteggere al meglio la sua privacy. Ora si attendono i riscontri della forze dell’ordine e dei servizi sociali per capire fino in fondo cosa succedeva in quella famiglia e se davvero, alla base di tutto, vi fosse un rigetto dello stile di vita occidentale.
l'Unità 21 maggio 2010

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