Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

19 febbraio 2014

MA RIMANERE UN FANTASMA PER QUALCUNO È UNA SCELTA
la Repubblica, 19-02-2014
CHIARA SARACENO
Si fa presto a dire clandestino. Chiunque studi i fenomeni migratori, in Italia e in altri paesi, sa bene che il confine tra regolarità e irregolarità è spesso fluido e permeabile. Si può arrivare in un Paese in modo irregolare, di nascosto, e poi regolarizzare la propria presenza; o viceversa entrare regolarmente e poi diventare irregolari, salvo poi acquisire un nuovo, diverso, status di regolari.
Questa seconda è l’esperienza di gran parte di chi oggi arriva in Italia. La maggioranza dei migranti, infatti, oggi non arriva attraversando pericolosamente il mare su carrette improbabili, sbarcando di nascosto sulle nostre coste, sperando di non essere intercettati, o fuggendo dai centri di prima accoglienza dopo essere stati intercettati (e spesso anche salvati). Arriva comodamente e per lo più in auto, treno o aereo, con visto turistico o di studio, o anche senza visto, se appartiene a paesi per i quali non è richiesto, come è il caso dei cittadini nell’area Ue. Diventa irregolare se e quando decide di rimanere oltre la durata del visto di entrata, o comunque oltre il termine entro cui non viene più considerato di passaggio e quindi dovrebbe o andarsene, o modificare il proprio status, posto che gli venga consentito dalle norme del Paese in cui si trova. Se lavora nell’economia informale, o non è per nulla nel mercato del lavoro, può rimanere in questa situazione di «clandestinità» sul piano formale, ancorché perfettamente visibile e inserito nella comunità in cui vive.
Lo stesso succede per molti italiani che si recano all’estero, con un progetto di permanenza che si definisce a seconda delle opportunità e degli incontri e può rimanere a lungo in uno stato di provvisorietà. Quando lavoravo a Berlino, ho incontrato diversi giovani ed ex giovani che erano venuti per qualche mese, o per qualche anno, poi si erano fermati, senza tuttavia trovare un lavoro stabile e ufficiale, che richiedesse loro di iscriversi all’anagrafe locale per pagare le tasse, avere un contratto d’affitto regolare, il permesso per parcheggiare l’auto. Lavoretti nell’economia informale (ebbene sì, c’è anche in Germania), subaffitti, mancanza di un’auto, consentivano loro di vivere in una città e in un Paese che può esercitare molti controlli sugli immigrati regolari, soprattutto per assicurarsi che abbiano un reddito che garantisca il ricorso all’assistenza sociale, ma nelle cui maglie si può scivolare se si ha un po’ di accortezza — o semplicemente non si ha bisogno di rendersi visibili alla pubblica amministrazione. Per alcuni è una situazione provvisoria, in attesa che si definiscano le opportunità e i progetti di vita, o semplicemente in attesa di tornare in Italia. Per altri è il rifiuto a riconoscersi come migranti, preferendo definirsi come visitatori, per quanto per periodi prolungati. Conosco una persona che ha vissuto diversi anni prevalentemente all’estero, per stare con la sua compagna, ma non si è mai iscritto all’anagrafe di quella città. Un clandestino dal punto di vista legale, ancorché onesto cittadino e pagatore di tasse in Italia. Si sentiva perfettamente in regola, perché la sua fonte di reddito, la sua residenza, la sua casa, erano altrove e vi tornava spesso per brevi periodi. Per altri può essere una situazione più permanente, vuoi perché c’è interesse a rimanere legalmente invisibili, vuoi perché le condizioni per regolarizzarsi non ci sono, o perché sembra che non ne valga la pena, o perché ci si vive come provvisori e nomadi, anche se magari non ci si muove più dal posto in cui si è arrivati. Non si tratta solo di evadere le leggi, ma di una rigidità nella definizione amministrativa di presenza regolare e irregolare, nella distinzione tra l’essere qui piuttosto che là e l’appartenere a un posto o a un altro. La multiappartenenza non è concepita dalla burocrazia.



Quando i clandestini siamo noi
Sono 500 mila, hanno tra 18 e 45 anni freschi di laurea o rimasti senza lavoro vanno all’estero e vivono da fantasmi Irregolari senza cittadinanza né diritti
la Repubblica, 19-02-2014
PAOLO BERIZZI

Friggono hamburger nei locali di New York. Fanno i commessi e i camerieri a Toronto. Aspettano che il tempo se li dimentichi mentre sbarcano il lunario negli ortsteil di Berlino e nei pub di Londra (ma qui è più facile: c’è la libera circolazione). Volano di sola andata a Rio de Janeiro, a Buenos Aires, a Sydney e a Melbourne: e anche l’Australia li adotta a sua insaputa. Come si fa con chi viene a sgobbare e, in cambio, chiede solo di stare nell’ombra. Gli ultimi, in ordine di tempo, sbarcano in Angola: si inabissano, imparano il portoghese e diventano braccia per le compagnie petrolifere e di trasporto con basi nelle province di Luanda.
Chi li ha visti? Da dove vengono? Come si chiamano? Sono gli italiani clandestini. I “nostri” emigrati fantasma. L’altra metà di una luna che a volte, troppo spesso, vediamo scura. Sono almeno 500 mila, una città più grande di Bologna o Firenze. Hanno tra i 18 e i 45 anni. Freschi di laurea o appiedati dal lavoro. Lasciano l’Italia e si stabiliscono in un altro Paese. Ma vivono da irregolari. Senza più un permesso di soggiorno (nel caso la meta non faccia parte dell’Unione europea). Senza cittadinanza. Senza pagare le tasse e senza diritti. Col rischio di essere rimandati a casa ma con l’unica prospettiva di avere trovato un posto dove vivere meglio, o meno peggio, che in Italia. Come Salvatore che ha 45 anni. «Nel 2006 parto da Napoli con alle spalle un passato difficile. Arrivo nel Queens a New York, cameriere in nero, sposo un’italiana regolare, nascono due figli e adesso devo — per forza — tornare a Napoli, tra mille incertezze». O come Manuel e Emanuele, coppia gay romana. Cinque anni trascorsi “in silenzio” a Rio De Janeiro dove vendono bracciali a cottimo: vorrebbero sposarsi. «In Brasile si può, il problema è che prima dovremmo metterci in regola e non ci conviene. Siamo venuti perché in Italia non avevamo niente. Qui abbiamo qualcosa, e per ora facciamo che va bene così». La geografia, le rotte “silenziose”. Stati Uniti (in assoluto i più gettonati), Canada, Argentina, Brasile, Australia, Regno Unito, Germania. Adesso anche alcuni Stati dell’Africa: su tutti Mozambico e Angola.
La clandestinità degli italiani è un fenomeno ancora sconosciuto in Italia — dice Gaetano Calà, direttore nazionale dell’Anfe (Associazione nazionale famiglie emigrati) — . Se ne parla solo tra pochi addetti ai lavori. Nell’opinione pubblica ci sono schemi mentali radicati e diffusi per cui la gente stenta a credere che esistano italiani clandestini. Il fatto stesso che non se ne parli alimenta il fenomeno, favorisce la sua riproduzione ». In che modo? «Il silenzio invoglia l’italiano che emigra a cadere nella clandestinità, si lascia andare, sottovalutando le difficoltà e i rischi che questo status comporta». Molti sono neo laureati che non trovano spazio in Italia. Ma ci sono anche meno giovani, gente che viene dalle professioni, che è rimasta senza stipendio e decide di giocarsi tutto lontano da casa. «Quelli che arrivano a New York sono per la maggior parte ragazzi in cerca di sbocchi professionali — spiega il professor Anthony Tamburri, preside dell’istituto Calandra che promuove la storia della cultura degli italiani d’America — . Arrivano come turisti e, dopo 90 giorni, scaduto il permesso, rimangono e trovano lavoro nero. Magari guadagnano anche bene, non pagano tasse, prendono buone mance nei ristoranti. Per 3-4 anni riescono a vivere più che dignitosamente. Ma il rischio, oltre alla legge, è che quando poi devono tornare in Italia si trovano in difficoltà. C’è un buco di 4 anni in cui non hanno fatto nulla...».
C’è un buco, forse, anche nei numeri. Calcolare con esattezza quanti siano i nostri connazionali che diventano invisibili oltre confine, è difficilissimo. Omertà, resistenze, convenienze da parte delle lobby (i padroncini della ristorazione, degli alberghi, del commercio per i quali gli irregolari sono ovunque una risorsa, soprattutto perché si adattano a salari “ribassati”, anche al di sotto del minimo federale americano di 7,25 dollari l’ora). Ma sarebbero almeno 500 mila — secondo stime ufficiose tarate sulle proiezioni di associazioni, ong, fonti diplomatiche, istituti e studi legali specializzati in diritto dell’immigrazione sondati da Repubblica — gli italiani “irregolari” nel mondo. Un numero da considerarsi per difetto. Perché tiene conto delle sole situazioni “conclamate”. Quegli immigrati che, per periodo di permanenza, vanno considerati ospiti, diciamo “non più temporanei”.
È un mondo curioso quello della clandestinità italiana. Non sovrapponibile a quello delle “altre” immigrazioni, quelle con cui, tra dibattiti sullo ius soli, integrazione, intolleranza, ipocrisie, ci misuriamo da una trentina d’anni. È anche un segreto di pulcinella di cui l’Italia parla poco e malvolentieri. Bisogna dunque vederlo dall’altra parte dell’oceano, o degli oceani. Letizia Airos vive da anni nella Grande Mela dove dirige il magazine i- Italy/ NY.
«Anche i clandestini italiani, come tutti i clandestini, si coprono tra di loro. I giovani vanno e vengono con questi visti da tre mesi. C’è una rete di favori, di connivenze, di documenti. Una zona “di mezzo” sulla quale si appoggia l’attività di molti esercizi commerciali. Penso soprattutto a ristoranti e fast food».
Tra i 200 e i 250 mila. Tanti sarebbero gli italiani versione “ghost” che sono riusciti a stabilirsi, provvisoriamente, negli Stati Uniti. New York è il rifugio preferito. Ad accendere le speranze (o forse velati timori), è stato il sindaco Bill De Blasio: «Nessun residente di New York deve essere costretto a vivere nell’ombra. A tutti i miei cittadini che sono degli immigrati senza documenti dico: questa città è casa vostra». Il sindaco ha promesso carte di identità municipali, già sperimentate finora a San Francisco, sull’altra costa. Sono un primo passo «per la partecipazione alla vita civica», ma non sono la Green Card (permesso di residenza permanente). Una roba ben diversa. «Le leggi americane non rendono la vita facile agli immigrati — spiega l’avvocato italo-newyorkese Annalisa Liuzzo, legale di centinaia di decine di immigrati italiani — . O trovi un contratto di lavoro con un’azienza o ti giochi la carta dello studio. Che ha costi elevati». E così ci si arrangia come si può. «Negli anni ‘90 sono stato clandestino per 5 anni a New York — ricorda Giovanni, siciliano, oggi vive alle Hawaii—. Ogni tre mesi uscivo dagli Stati Uniti, passavo il confine, andavo alle Barbados o in Canada. Poi rientravo. Ogni volta era uno stress, rischiavo di essere bloccato. Dopo un po’ quel sistema non puoi più usarlo. Così ricorrevo ad altri stratagemmi: smarrimenti di passaporto, tre volte, e poi un aggancio con un operatore aeroportuale... ».
Così fanno molti. Lo sa il governo americano. Lo sa il governo italiano. Perché se è vero che non ci sono ancora censimenti elaborati dall’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) né dati ufficiali raccolti dai nostri istituti diplomatici e consolari, è anche vero che la clandestinità italiana è un fenomeno ben noto a Roma. Messo nero su bianco su un resoconto stenografico del 22 febbraio 2012. I vertici dell’Anfe ne hanno riferito in un’audizione al Senato della Repubblica — comitato per le questioni degli italiani all’estero. «Riceviamo dati e indicazioni per noi molto preoccupanti — dice ancora Gaetano Calà — . Basti pensare che nel 2011, solo tra Queens e Brooklyn, e cioè due quartieri di Ny, si stimava una popolazione italiana irregolare di 3mila persone». Da un continente all’altro. Angola, Africa centrale, espansione economica. Qui gli italiani, tra residenti e pendolari, sono “solo” 800. «C’è una forte ondata di interesse — dice dalla capitale Luanda l’ambasciatore Giuseppe Mistretta — . Arrivano giovani neolaureati, ma anche professionisti. Molti hanno già in mano contratti, altri trovano opportunità qui. Clandestini? Non ne abbiamo notizia — aggiunge il diplomatico — . Forse è una tendenza ancora agli albori... ».



Due migranti morti alla deriva Mille sbarcati in un giorno
Sempre chiuso il centra di accoglienza a Lampedusa
Corriere della sera, 19-02-2014
Felice Cavallaro   
AUGUSTA (Siracusa) — Una motovedetta della Guardia costiera ancora una volta torna in porto deponendo in banchina i corpi senza vita di due migranti recuperati sotto Lampedusa da un cargo greco su un gommone di sette metri con 16 donne e 103 uomini disidrata- ti, ammaccati, gli occhi sgranati di chi ha visto la morte in faccia, ma salvi. Si piangono i primi due morti del nuovo anno nel Mediterraneo che ha inghiottito migliaia di nordafricani e subsahariani. Un anno che comincia male, con 4 mila arrivi in nemmeno 50 giorni. Solo a gennaio 2.156, mentre erano stati 217 lo stesso mese dell'anno scorso.
Febbraio si annuncia peggio. Negli Ultimi tre giorni fra Augusta e Pozzallo navi militari e motovedette ne hanno portati 1.079 fra i quali 64 minori e un neonato. E ieri mattina la nave della Marina militare «San Giusto» era arrivata con 817 migranti, uno dei quali, un tunisino arrestato perche ritenuto uno degli scafisti. Tutti sulla stessa banchina dove in serata è approdato l'ultimo carico con i 119 vivi e le due salme.
È il bilancio amaro dell'ennesima operazione scattata lunedì mattina a sud di Lampedusa, quando l'allarme è rimbalzato attraverso un satellitare dal natante alla deriva. Elicotteri in volo, controlli via gestore, individuazione del punto nave hanno consentito di far arrivare la nave più vicina ai naufraghi, il mercantile greco Rizopon. Trasbordati, rifocillati, rivestiti e sbarcati dopo 27 ore non nella «vicina» Lampedusa, ma nel lontanissimo porto commerciale di Augusta, fra Catania e Siracusa, perché nell'isola «Porta dell'Europa» il Centro accoglienza è ancora chiuso da Natale, da quando scoppiò il caso delle disinfestazioni a pompa sui
migranti.
Una mite serata ieri fra decine di volontari in banchina come cornice a questa ondata che sta facendo scoppiare la tensostruttura di Pozzallo già stipata dai 268 soccorsi nel fine settimana dalla fregata Aliseo e trasbordati, in prossimità di Lampedusa, su due motovedette della Guardia costiera. Motovedette costrette a percorsi lunghissimi, come le navi militari impegnate nelle ope- razioni della missione Mare Nostrum, avviata a metà ottobre, subito dopo l'immane tragedia della carretta affondata a Lampedusa con 366 annegati.
E proprio ieri da Frontex, l'agenzia per il controllo dei confini dell'Unione Europea, sono stati comunicati i dati sugli immigranti irregolari individuati alle frontiere negli ultimi quattro mesi del 2013: 42.618 tentativi di ingresso illegale dá settembre a dicembre, quasi il doppio rispetto agli stessi mesi del 2012 e un quarto in più degli arrivi registrati fra gennaio e aprile 2013. Delle quasi 43 mila identifícazioni, oltre 12 mila sono state effettuate dalle autorità costiere siciliane e 8 mila da quelle di Lampedusa.
Italia in testa, seguita dalla Grecia e subito dopo dalla Spagna dove, stando a un rapporto della Guardia civile riportato dal quotidiano El Pais, sarebbero 30 mila gli immigrati pronti a entrare nella penisola iberica attraverso le enclaves marocchine di Ceuta e Melilla. Un fronte sul quale il 6 febbraio la polizia ha sparato pallottole di gomma contro un gruppo di duecento migranti, dodici dei quali morti annegati nel tentativo di raggiungere a nuoto la costa spagnola. Un episodio stigmatizzato a Bruxelles dalla commissaria agli affari interni Cecilia Malmstrom che ha fatto aleggiare la possibilità di sanzioni verso Madrid.



Kyenge: "Rivedere l'impostazione dei Cie"
"Ripensare l'impianto della identificazione delle persone ma soprattutto la tipologia delle persone che sono all'interno"
stranieriinitalia.it, 19-02-2014
Torino, 19 febbraio 2014 - Rivedere l'impostazione dei Cie, sottolinea il ministro per l'Integrazione Cecile Kyenge a Torino dopo che il Consiglio comunale ha approvato una mozione per la chiusura della struttura torinese di Corso Brunelleschi.
Si tratta di strutture, spiega il ministro a margine della presentazione del suo libro ''Ho sognato una strada'', che sono cambiate rispetto alla loro istituzione.
La legge Turco-Napolitano prevedeva per loro aspetti molto amministrativi, per consentire l'identificazione delle persone in un tempo ridotto di 30 giorni, ma qui stiamo parlando della detenzione delle persone. Rivedere questo, ha osservato il ministro, ''significa rivedere anche tutto l'impianto della identificazione delle persone ma soprattutto la tipologia delle persone che sono all'interno.
Non e' un tema che riguarda il mio ministero - ha aggiunto - ma e' un tema su cui posso collaborare con un contributo in termini di proposte''.



Padova - L’odissea dei rifugati trovati in un container: picchiati in Grecia, denunciati in Italia per il reato di clandestinità
Affidati al business dell’accoglienza rischiano ora una riammissione in Grecia dove hanno subito violenze dai militanti di Alba Dorata
Melting Pot Europa, 19-02-2014
Nicola Grigion
Raggiungere l’Italia era molto più che un sogno: forse una necessità vitale, probabilmente l’unica scelta. Difficile pensare che, altrimenti, pur di attraversare la frontiera, i quindici ragazzi africani trovati senza fiato in un vagone merci carico di sementi, in provincia di Padova, avrebbero accettato di pagare per un viaggio di quattro giorni che avrebbe potuto farli arrivare senza vita.
Quaranta centimetri di spazio vitale, una coperta, qualche bottiglia d’acqua e una trattativa con un trafficante pakistano senza scrupoli che li ha "imbarcati" come un carico di merce umana per spedirli dalla Serbia all’Italia, passando per Villa Opicina, fino a S.Martino di Lupari, nel padovano, dove finalmente hanno potuto riempire ancora i polmoni d’aria, dopo che gli operai della ditta Agriservice hanno aperto le porte di quella che poteva trasformarsi in una tomba a rotaie.
La loro odissea è diventata una notiza solo quando hanno rivisto la luce, ma la fuga è iniziata ben prima, ben più lontano, e quel che è peggio, rischa di non essere ancora finita.
Questa invece non è una notiza. Perché l’Italia sa regalare a richiedenti asilo e rifugiati, anche quelli che non annegano in mare, le peggiori angherie. Solo poche ore prima un gruppo di famiglie siriane era stato intercettato mentre camminava lungo una statale nei pressi di Rovigo. Le mappe delle città di tutta la penisola sono costellate da una una geografia di luoghi, piccoli e grandi rifugi, dove chi è stato abbandonato dalle istituzioni trova riparo. A pochi passi da Padova, al Porto di Venezia, senza le luci dei riflettori che illuminano Lampedusa, si consumano quotidiane violazioni, con silenziosi respingimenti ai danni di centinaia di ragazzini afghani e curdi che rischiano ogni anno la morte per raggiungere l’Italia nascosti dentro i camion provenienti dalla Grecia. Poco più a nord, a Gradisca d’Isonzo, in un un luogo chiamato Centro di Accoglienza per richiedenti Asilo e Rifugiati (CARA), vengono confinati per mesi centinaia di migranti in fuga, in attesa di una risposta sulla loro domanda d’asilo. Sono solo alcuni esempi, fotografie di un sistema che non funziona, viziato dal "peccato originale" del contrasto all’immigrazione irregolare.
Per questo la storia di questi quindici ragazzi non è che una tra le tante, una delle migliaia di biografie che raccontano la crudeltà delle politiche europee del confine ed allo stesso tempo il fallimento di ogni strategia di accoglienza di questo Paese.
Nelle scorse ore la notiza del loro ritrovamento ha dominato la scena nei quotidiani e nei notiziari locali. In molti, giornalisti e non, hanno cercato informazioni sul loro destino, ma una coltre di fumo sembra avvolgere questa storia. Nessuno deve sapere. Perché?
Noi siamo riusciti ad incontrare i giovani africani meno di ventiquattrore dopo il loro arrivo per iniziare a fare un pò di luce su quella che rischia di trasformarsi nell’ennesima ombrosa vicenda di diritti violati e affari sporchi.
Ci sediamo al tavolo di un bar e ci mostrano un pezzo di carta. Il primo ed unico documento che hanno ricevuto dalle autorità italiane è un verbale redatto dai Carabinieri del Comando di Cittadella "in qualità di persone sottoposte ad indagine". E’ una denuncia ai sensi dell’art. 10 bis del D.lgs 286/98, il Testo Unico immigrazione: ingresso e soggirono irregolare. Sono accusati del reato di clandestinità quel fastidioso stigma che perfino l’attuale Govero ritiene dannoso e "abrogabile".
Il viaggio
A ritroso, ripercorriamo allora le loro storie che ci portano nel Nordest della Nigeria, una zona investita da un’impressionante escalation di violenze, distrutta da un conflitto armato senza fine, un territorio devastato che l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugati, numerose organizzazioni internazionali ed la stessa Farnesina, ritengono ad alto rischio. E’ da lì che molti di loro sono partiti.
Qualcuno si è mosso in aereo, altri invece hanno camminato verso il Mali, oppure, sempre attraversato il Niger, hanno raggiunto la Libia, da dove si sono imbarcati per l’Europa finendo però in Turchia. Da qui hanno dovuto intraprendere un nuovo viaggio attraverso le frontiere. Ma prima di raggiungere la Serbia, passando per Albania e Montenegro, prima di conoscersi, prima di salire su quel vagone partito da Sid, che ha rischiato di essere il loro ultimo letto, ognuno di loro ha fatto tappa in Grecia: un nodo cruciale della loro avventura, di quella che li ha portati fin qui e, probabilmente, anche di quella che li aspetta.
    "Il primo e unico pezzo di carta dalle autorità italiane è la denuncia per il reato di clandestinità"
Proprio in Grecia le loro storie si sono incrociate nuovamente: nei centri di detenzione dove ogni diritto è carta straccia, nel paese in cui le percentuali di riconoscimento dello status di rifugiato rasentano lo zero, lì dove la crisi morde più che in altri luoghi, in uno stato dove la guerra ai blacks è diventata caccia all’uomo, nella periferia dell’Europa monetaria, verso cui anche il Consiglio di Stato italiano ha dichiarato la necessità di sospendere i trasferimenti, pena il rischio di danni irreparabili.
Per un anno e mezzo hanno vissuto da carcerati. Alcuni hanno attraversato tre o quattro campi di detenzione diversi in attesa di conoscere il loro destino e riprendere il cammino. Poi la Polizia greca li ha liberati con un mese di tempo per lasciare il paese. Hanno raggiunto Atene, hanno vissuto senza cibo e senza un luogo dove riposare ed è qui che hanno sperimentato sulla loro pelle tutta la violenza delle bande razziste di Alba Dorata, il partito che negli ultimi anni ha preso il largo in Grecia. Sono stai pestati violentemente e molti di loro portano ancora i segni di quelle notti passate all’ombra del Pantheon alla ricerca di un luogo dove ripararsi, prima ancora che dal freddo, dalle ronde dei neo-nazisti.
Ma molto probabilmente le cicatrici delle violenze non sono gli unici segni che si portano dietro. Perché quel passaggio in Grecia potrebbe riportarli indietro. Infatti, secondo il regolamento Dublino, che individua lo Stato competente ad esaminare una domanda d’asilo, non è possibile presentare una nuova richiesta di protezione internazionale in un Paese UE diverso da quello di ingresso. Una vera e propria gabbia imposta ai migranti.
Sulla richiesta, che nelle prossime ore, salvo imprevisti, presenteranno in Questura, dovrà quindi pronunciarsi l’Unità Dublino. Neppure è il caso di ricordare che un eventuale "respingimento" dei richiedenti sarebbe una gravissima violazione dei loro diritti vista anche la copiosa mole di giurisprudenza che evidenzia i rischi causati da eventuali rimpatri in Grecia.
    "Picchiati dalle ronde di Alba Dorata. Il Regolamento Dublino potrebbe riportarli indietro"
Intanto i quindici ragazzi sono qui, ancora una volta a chiedersi che ne sarà di loro, mentre ancora nessuno ha voluto ascoltare la loro storia.
Eppure, dopo essere stati liberati da quei vagoni infernali ed essere stati portati in ospedale, ci sarebbe stato tutto il tempo, almeno lo stesso impiegato per scivere la denuncia, per raccogliere la loro domanda d’asilo.
Una volta usciti dall’opedale invece sono stati trasferiti a Padova dove hanno trascorso la notte.
Ed è qui che si apre un altro capito piuttosto buio ed inquietante di questa storia.
Perché sono stati alloggiati presso la tristemente famosa "Casa a Colori", un ostello che all’occorrenza, di emergenza in emergenza, diventa la soluzione utile per sfrattati e rifugiati, lo stesso che, tra il 2011 ed il 2012, aveva ospitato circa novanta "profughi" provenienti dal Nordafrica, con un compenso di circa 46 euro giornalieri ricevuto dall’ente per ognuno di loro. Un gruzzoletto di oltre un milione e mezzo di euro messo in cassa sulla pelle dei migranti.
Per tutta la giornata, sollecitati dalla stampa, i responsabili dell’ente gestore hanno negato la presenza dei quindici e negli uffici di via del Commissario sono regnati incertezza e timori che non hanno fatto altro che allungare ulteriori ombre su questa storia. Ninete cibo e niente vestiti, nessuna informazione. A che titolo Casa a Colori potrebbe infatti ospitare dei richiedenti asilo? Non si tratta certo di un ente con competenza in materia e neppure risulta essere inserito nei nuovi progetti del Servizio di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati recentemente approvati dal Ministero dell’Interno.
Una delle potenziali risposte sta nella circolare che lo stesso Viminale ha diramato negli scorsi mesi. Le indicazioni che contiene assomigliano ad un’edizione leggermente rivista della fallimentare esperienza dell’Emergenza Nordafrica. La nota del Ministero chiede infatti alle Prefetture, saltando ancora il sistema SPRAR e senza prevedere neppure lontanamente gli standard minimi da questo previsti, di individuare, nell’ambito del "privato sociale", strutture ed enti che possano ospitare i richiedenti asilo fuori dai circuiti ufficiali, dietro un compenso di 30 euro giornalieri che, è bene ricordarlo, non finirebbero in nessun caso nelle tasche dei migranti.
Facile immaginare che chi in passato, proprio grazie al business dell’accoglienza, è riuscito a risanare il proprio bilancio, veda in questo nuovo affare una grande occasione di speculazione.
    "Ancora a gonfiare il business sui migranti"
Diversamente, ma non siamo certo noi a dover smentire queste ipotesi, c’è da pensare che quella della Casa a Colori sia stata solo una sistemazione temporanea per la scorsa notte, in attesa che le autorità decidano il da farsi, regalandoci il solito spettacolo di scaricabarile, rimpalli, diritti violati e scelte scellerate a cui in questi anni ci hanno abituato le vicende dell’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati in Italia.
Intanto l’Associazione Razzismo Stop, insieme all’ADL Cobas ed ai movimenti per il diritto alla casa hanno lanciato una mobilitazione con migranti e rifugati per il prossimo Primo Marzo, un occasione in più per ribadire "la necessità di mettere fine al sistema di accoglienza basato su campi e centri, per costruire un sistema basato sull’ accoglienza diffusa, decentrata e fondata sulla valorizzazione dei percorsi personali, promuovendo esperienze di accoglienza auto-gestionaria e auto-organizzata, anche al fine di evitare il formarsi di monopoli speculativi ed insieme per riaffermare "la necessità dell’immediata abrogazione del Regolamento di Dublino che impone ai migranti di fare richiesta d’asilo nel primo stato membro in cui fanno ingresso, impedendo in tal modo alle persone di portare a compimento il proprio progetto di vita", così, come sta scritto nella Carta di Lampedusa, la dichiarazione programmatica approvata dai movimenti lo scorso 1 febbraio sull’isola.
E proprio la storia di questi quindici migranti, costretti a percorrere la difficile rotta dei balcani, ci racconta quanto Lampedusa, anche nel lontano Nordest, non sia poi così distante.



Come raccontiamo gli «altri» da noi
Da Albinati a Geda e Catozzella: i nostri scrittori e le storie sui migranti
l'Unità, 19-02-2014
Paolo Di Paolo
BISOGNEREBBE SEMPRE PARTIRE DALL’IGNORANZA. DA CIÃ’ CHE NON SAPPIAMO, DA CIÃ’ CHE NON CAPIAMO. È L’UNICO MODO PER ROMPERE L’INGANNO DEGLI STEREOTIPI E DEI PREGIUDIZI, PER METTERSI AL RIPARO DAL RISCHIO DELLA PRESUNZIONE. Dagli anni Ottanta in poi la figura dello straniero, del migrante, dell’«altro» si è fatta largo nella letteratura italiana. Pionieristico fu Edoardo Albinati, che nel 1989 nelle pagine di Il polacco lavatore di vetri tenta di calare il proprio sguardo in quello di un immigrato che passa le sue giornate in strada, fra le auto degli altri: «Roma gli pareva un enorme magazzino di merci e automobili, attraversato da un fiume di gente indaffarata e da un fiume vero di acqua torbida, che si strofinava sulle rive sporche come un cane rognoso... A Roma erano tutti occupati a comprare, espandere, sostituire, gettare via, quasi nessuno discuteva o pregava». Lo sforzo di Albinati, all’epoca trentenne, è stato anche quello di raccontare il razzismo sotterraneo, nascosto anche dietro al desiderio sessuale per giovani donne polacche trattate come oggetti. Quando si racconta l’altro, gli ostacoli sono infiniti. Si inciampa anche senza volerlo. Si dice «africani», per esempio, dimenticando che l’Africa è un continente. E anche quando si prova a raccontare con le migliori e più generose intenzioni, si rischia di cadere con tutte le scarpe nello stereotipo. I romanzi italiani degli ultimi decenni sono affollati di stranieri, diciamo pure di «immigrati», ma è raro che siano protagonisti: fanno parte del paesaggio, piuttosto. E accade, anche o soprattutto nei noir, che indossino i panni di delinquenti. Scrittori come De Cataldo o Pallavicini hanno già anni fa sperimentato la via del racconto di amicizia fra italiano e straniero, ma - come hanno notato Maria Cristina Mauceri e Maria Grazia Negro nell’illuminante Nuovo immaginario italiano (Sinnos), uscito nel 2009 - faticando a scrollarsi di dosso piccole o grandi ossessioni pregiudiziali. Fosse pure, in forma di morbosa leggenda, la potenza sessuale dell’uomo di colore.
DALLE TESTIMONIANZE ALLA FICTION All’inizio degli anni Novanta arrivano sui banchi delle librerie italiane le prime testimonianze autobiografiche di migranti, in alcuni casi raccolte da autori italiani, come fu per Mario Fortunato con il tunisino Salah Methnani (Immigrato, 1990). La letteratura dei migranti in lingua italiana è ancora un’altra storia, più recente e piena di sorprese. Perché è in questo spazio che i pregiudizi vengono ribaltati, fatti esplodere. Oppure laddove preesiste alla scrittura una relazione tra italiano e migrante: come nel caso di chi, per esempio, sperimenta l’insegnamento della lingua italiana a una platea di studenti stranieri. E scopre che insegnare è anche imparare: Beatrice, nel romanzo di Paola Presciuttini Il ragazzo orchidea, dà lezioni di italiano a Nazim e Nazim, analfabeta, in cambio le insegna come si prepara il tè nel suo Marocco. Scoprono così una fratellanza insperata: «Intuiva qualcosa di più profondo, una radice intricata che si sviluppava dentro e oltre quell’uomo, qualcosa che da qualche parte si intrecciava anche con la sua storia, col suo passato remoto». Il punto è forse proprio questo: scambiarsi storie. Nella Città dei ragazzi di Eraldo Affinati (lo scrittore insegna in una comunità per ragazzi in difficoltà che arrivano da tutto il mondo) le storie sono tante e diverse, spesso disperate: raccontandole, raccontandosele, ci si specchia gli uni negli altri: «il segreto che molti esseri umani scoprono ogni giorno senza riuscire a farlo proprio, perché, qualora ciò accadesse, la vita non sarebbe più la stessa: se io aiuto te, è come se tu assistessi me, e lui venisse incontro a lei, e noi appoggiassimo voi, e loro sostenessero tutti gli altri». La paura, la fuga, la nostalgia, il cambiamento, la scoperta, la possibilità, la delusione, il riscatto, sentirsi stranieri nel paese vecchio e in quello nuovo. Affinati «adotta» tutti i suoi allievi, ne adotta le vite e le storie, le camicie mai lavate, le lettere piene di errori ortografici e di dolore, i sorrisi tristi. È un libro bellissimo e commovente, onesto come pochi altri.
Nel 2010 Fabio Geda ha raccolto la storia vera di un ragazzo afghano in Nel mare ci sono i coccodrilli, la sua odissea terribile per fuggire dal regime dei talebani e arrivare in Italia passando per Iran, Turchia e Grecia. Il libro ha avuto un successo straordinario e continua a essere letto in molte scuole. La scommessa di Geda è stata quella di dare voce a un’altra voce: lo scrittore diventa non solo testimone ma «nastro magnetico ». Registra e salva l’esperienza altrui, rispettandone la verità, senza farla diventare romanzo. L’esperimento recentissimo di Giuseppe Catozzella - Non dirmi che hai paura (Feltrinelli) - è interessante perché passa dalla «registrazione » di un’esperienza reale alla sua traduzione romanzesca, non in terza ma in prima persona. Catozzella diventa cioè Samia Yusuf Omar, la giovanissima atleta somala con il sogno di diventare campionessa olimpica morta nel tentativo di raggiungere le coste italiane nell’agosto del 2012. L’azzardo è notevole. Uno scrittore italiano di trentasette anni si impossessa della voce di una ragazzina rimasta tale, una voce straniera e assente.
Catozzella in sostanza, per usare l’espressione di Celan, sceglie di testimoniare per i testimoni. È lecito? Me lo sono domandato per tutta la lettura. Per poi concludere che la scommessa di Catozzella è necessaria: coincide con il tentativo di sfidare la propria stessa «ignoranza» dell’Altro, di «inventarlo» dentro sé stessi, in una forma estrema di immedesimazione che annulla qualunque distanza. Io sono l’altro, io sono Samia - sembra dire dunque Catozzella, e ciò non ha nulla di bovaristico. Lo scrittore intende superare ogni stereotipo proprio perché fa i conti con l’unicità di una esistenza - quella esistenza e non un’altra, quel destino e non un altro, quella voce e non un’altra. Catozzella dilata al massimo la sua capacità di immaginazione: e immaginare significa mettersi nei panni, fare proprio il dolore degli altri. Da «salvati», prendersi cura della voce inabissata dei «sommersi»: «Mentre sbatto le braccia contro le onde mi canto in testa la canzone di Hodan, la nostra canzone sulla libertà. Me la canto mentre faccio su e giù, provo a cantarla con la bocca ma non ci riesco, allora la ripeto nella mente».

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