Vicini a chi ha paura

Luigi Manconi
Dice: gli immigrati delinquono più degli italiani. Falso. Tra gli immigrati regolari il tasso di criminalità è pari a quello registrato tra i cittadini italiani: e, nella fascia di età 24-50 anni, la frequenza dei delitti è minore all'interno della popolazione straniera.
(Diverso è il caso degli immigrati irregolari, dove il tasso di criminalità è più elevato: ma qui le ragioni sono altre e facilmente decifrabili). Dice: gli stranieri violentano le nostre donne. Falso. Le “nostre donne” (e le nostre bambine) sono violentate dai “nostri uomini”: da italiani, cioè, come confermato dall'Istat; ed è altrettanto provato che il 94% di quelle violenze avviene in ambito familiare, parentale, amicale. Ma bastano questi dati e bastano le argomentazioni obiettive a disinnescare l'intolleranza etnica? Ovvero a far sì che le due tragiche vicende di questa freddissima domenica di dicembre, che vedono come protagonisti due immigrati regolari, siano classificate come cronache criminali senza alcuna connotazione razziale? Certo, sarebbe ragionevolissimo che fosse così: come è stato quando, nel caso della “strage di Erba”, i due autori non sono stati indicati come “cattolici praticanti” e in occasione dell'omicidio di Sarah Scazzi non si è scritto (ma qui qualche rischio si è corso) che il delitto “è maturato nell'ambiente dei testimoni di Geova”. E invece quando gli autori di reato sono stranieri, immancabilmente il tratto della nazionalità o della confessione religiosa emerge con brutalità, a tracciare in maniera indelebile la fisionomia di un Altro, irreparabilmente diverso: e, dunque, più agevolmente criminalizzabile. E quell'Altro – anche all'interno di un ordinamento giuridico dove la responsabilità penale è personale – trascina con sé, nella stigmatizzazione  e nell'ostracismo, il suo gruppo di appartenenza e la sua comunità. Tutto ciò è tanto più terribile quanto meno è affrontabile solo con argomenti razionali e con intelligenza logica. E c'è un motivo: la xenofobia (che non è razzismo, ma che può diventarlo) affonda le proprie radici nella nostra stessa identità antropologica, è fatta di umori tetri e pulsioni profonde, riguarda ciascuno di noi. È compito della politica, e di ogni uomo e donna di buona volontà, disinnescare quegli umori e quelle pulsioni e sottoporli a controllo, affinché non deflagrino. Per questo è necessaria una lunga e faticosa opera di formazione e autoformazione e una aspra lotta culturale. Questa deve evitare di colpevolizzare quanti vivono con ansia l'impatto, talvolta doloroso, con l'immigrazione. Spesso le manifestazioni di diffidenza (e persino di ostilità) dicono, come possono, una cosa sola: aiutateci a non diventare razzisti. Insomma, astuti come serpenti e candidi come colombe. Gli imprenditori politici della paura vanno combattuti a viso aperto. Si deve a loro se oggi il razzismo non è più un tabù in Italia ma una abbietta risorsa elettorale. Ma gli abitanti di Brembate e quelli di Lamezia non vanno lasciati soli. Non sono razzisti né sono destinati fatalmente a diventarlo: vivono le nostre stesse ansie. Possiamo salvarci insieme, ma solo se ci aiuteranno e si aiuteranno gli italiani e gli stranieri che non uccidono adolescenti.
l'Unità, 06-12-2010


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