Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

Questa violenza

Luigi Manconi
Alle ore 15.45 di ieri, 7 luglio 2010, il ministro per i rapporti con il Parlamento nel corso del question time, rispondeva così agli interrogativi posti da Livia Turco: all’origine della tragedia dei 245 tra eritrei e somali rinchiusi nel carcere di Brak, vi sarebbe “un equivoco”.
Ai profughi sarebbe stato sottoposto un questionario per essere avviati a “lavori socialmente utili”, ma gli eritrei e somali si sarebbero rifiutati, temendo che, attraverso quella procedura, venissero rimpatriati a forza. Da qui il trasferimento, in condizioni disumane, nel carcere di Brak. Il grottesco infortunio di questa risposta del Governo, che riduce un autentico dramma umanitario  alle dimensioni piccine di un fraintendimento, ha segnato una giornata di ordinaria violenza istituzionale. E, infatti, che cosa è più violento tra il comportamento brutale della polizia nei confronti dei cittadini de L’Aquila che manifestavano a Roma e la menzogna sulla sorte di quegli uomini in fuga da regimi totalitari? E, ancora, c’è qualcosa di più violento dell’ottusa indifferenza nei confronti di quei disabili che vedono ridursi drasticamente sussidi già miserevoli e previdenze economiche tanto esigue da risultare oltraggiose? Se osservata attraverso questi fatti - e attraverso lo sguardo di tanti soggetti deboli, terremotati o disabili o fuggiaschi – quella di ieri può sembrare davvero una giornata da fine regime. Dalla sudaticcia rincorsa a rattoppare, rappezzare, rappattumare una manovra che fa acqua da tutte le parti allo sfarinarsi di una maggioranza, tanto più imponente sulla carta quanto più goffa e arrancante nei fatti, dal ricorso irresponsabile alle forze dell’ordine (minacciate, a loro volta, da tagli micidiali) all’ostentato cinismo, nei confronti di quel principio universale che è il diritto d’asilo, si ha la sensazione di un sistema di potere che si avvia a un irreparabile declino. Sarebbe un errore credere che questo significhi, quasi automaticamente, l’inizio di un tempo nuovo. La fine del berlusconismo è destinata a passare attraverso una crisi lunga e devastante, che non si limiterà a logorare i suoi protagonisti, ma che avrà effetti velenosi e conseguenze debilitanti per l’intera società. Per dirne una, la campagna ideologica contro lo straniero e quel sistema di interdizioni e divieti, obblighi e sanzioni che, tramite delibere di amministrazioni locali, intendono disciplinare la vita sociale, non sono revocabili né in breve tempo né attraverso semplici azioni positive. I guasti, e che guasti, hanno inciso in profondità nella mentalità condivisa, nelle relazioni sociali e nei modelli di vita. Proprio per questo è fondamentale che, da subito e in ogni spazio agibile, si operi per affermare un punto di vista diverso. La vicenda dei cittadini de L’Aquila è così importante proprio perché dimostra come la cosiddetta “politica del fare” si riduca a un osceno esercizio di retorica, dove – tra effetti speciali e cotillon- si cancella la vita vera delle perone. E la vicenda degli eritrei è, sì, una questione umanitaria, ma è anche molto di più: è in gioco la vita di quei profughi e, insieme, la nostra civiltà giuridica.
L’Unità 8 luglio 2010
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