Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

LO STRANIERO SENZA DIRITTI E LA RAPPRESENTAZIONE DEL NEMICO

Luigi Manconi
1.    Ci sono i diritti e ci sono le violazioni dei diritti. E c’è un dato ineludibile: secondo l’Osservatorio Italia-razzismo, a cura di Valentina Brinis e di Valentina Calderone, dal 1 gennaio al 15 dicembre del 2011, nel tratto di mare tra l’Africa e l’Europa sono stati 2160 i migranti morti o dispersi. Si tratta di una stima, presumibilmente in difetto, che corrisponde in sostanza a quella fornita da Fortress Europe e da un coordinamento di associazioni (Acli, Centro Astalli, Caritas Italiana, Comunita’ di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Fondazione Migrantes). Pertanto, quanto segue, va costantemente ricondotto a quelle cifre crudeli.

2.    Singolare il destino dello jus migrandi: il più antico dei diritti naturali è oggi di fatto negato; in alcuni Paesi (quale l’Italia) addirittura criminalizzato.
Benché asimmetrico – in quanto invocato unilateralmente dagli europei a sostegno di una strategia colonialista -  sin dalla sua prima teorizzazione (Francisco de Vitoria, nella prima metà del XVI secolo), lo jus migrandi entrò a far parte dei principi fondamentali del diritto internazionale consuetudinario. Considerato da Locke quale presupposto di diritti primari come la proprietà e il lavoro, con Kant fu addirittura affiancato – nel «terzo articolo definitivo per la pace perpetua» - al diritto di immigrare, quale diritto, cioè, ad essere accolto in uno Stato diverso da quello di appartenenza . Sancito positivamente dall’art.13 della Dichiarazione universale dei diritti del 1948, lo jus migrandi è riconosciuto in quasi tutte le costituzioni recenti, inclusa quella italiana, che affianca alla libertà di espatrio (quale diritto civile: art. 16), la libertà di emigrazione quale diritto sociale “fondamentale” del lavoratore (Corte cost., sent. 269/1986, in relazione all’art. 35, comma IV).
Non meno paradossale è la sorte toccata al diritto d’asilo. Proclamato dal diritto internazionale (in particolare, cfr. Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 28 luglio 1981; art. 14 della Dichiarazione universale dei diritti umani), ricompreso dalla nostra Costituzione tra i principi fondamentali, viene quotidianamente violato. Innanzitutto, dalla prassi dei respingimenti in mare (contrastante anche con il divieto di espulsioni collettive sancito dalla CEDU, nonché con l’art. 13 della Costituzione, che subordina alla convalida giurisdizionale le misure limitative della libertà personale, quali i respingimenti che si traducano in accompagnamenti coattivi), oltre che delle espulsioni in violazione del divieto di refoulement (si pensi alla sentenza CEDU Saadi c. Italia del 2006, in relazione alle espulsioni di soggetti sospettati di terrorismo adottate ai sensi dell’art. 3 dl. 144/2005, c.d. decreto Pisanu).
Se la libertà di emigrazione e il diritto d’asilo rappresentano diritti specifici del migrante, una volta stabilitosi nel territorio dello Stato ospite, l’immigrato e il richiedente asilo sono certamente titolari dei diritti riconosciuti alla persona in quanto tale, fatta salva la possibilità del legislatore nazionale di escluderli dal godimento dei diritti di cittadinanza, strettamente legati cioè allo status activae civitatis. Il fatto che in questa categoria rientrino tradizionalmente i diritti politici (“pietre angolari” dell’ordinamento democratico: Corte cost., sent. 19/1962) dimostra allora in primo luogo, per quanto concerne l’Italia, l’inadeguatezza della disciplina della cittadinanza.Quest’ultima rischia di diventare, paradossalmente, da fattore di promozione dell’eguaglianza - in contrapposizione agli status con cui nelle società dell’antico regime venivano designati i singoli – strumento di discriminazione . In secondo luogo, l’esclusione da diritti fondamentali quali i diritti politici di quella che oggi rappresenta una parte decisiva del demos nelle nostre democrazie, dimostra come, rispetto al fenomeno dell’immigrazione, saltino le categorie in cui tradizionalmente sono sinora stati classificati i diritti.
Depone in tal senso anche l’inadeguatezza del criterio della cittadinanza quale parametro – ammesso anche dalla Corte EDU - per il riconoscimento dei diritti sociali o di prestazione (che non siano ovviamente fondamentali). Si pensi, ad esempio, al lavoro: nel momento in cui viene configurato dal legislatore non già come un diritto ma come un onere da soddisfare ai fini della regolarità del soggiorno, esso diviene di fatto il presupposto essenziale per il godimento dei diritti fondamentali. Ciò contribuisce a rendere il diritto al lavoro sempre più equivalente a un diritto fondamentale.
Del resto, anche rispetto agli stessi diritti fondamentali la condizione giuridica dello straniero rischia di essere caratterizzata dal paradosso dell’ineffettività. Secondo la giurisprudenza costituzionale, infatti, se è il principio di eguaglianza (rispetto al cittadino) a regolare la condizione giuridica dello straniero per quanto concerne la titolarità dei diritti fondamentali, il loro esercizio  può essere diversamente modulato in ragione della cittadinanza, purché in modo ragionevole e al fine di salvaguardare interessi meritevoli di tutela (si pensi, in particolare, all’ordine e alla sicurezza pubblici): cfr. sentt. 62/1994 e 148/2008. E fermo restando, in ogni caso, il rispetto del nucleo essenziale di ciascun diritto fondamentale (cfr., per il diritto alla salute, Corte cost., sent. 252/2001).
3.    Quanto fin qui scritto dimostra come la disciplina dell’immigrazione richiede, come si è anticipato, un profondo ripensamento delle categorie in cui tradizionalmente sono stati classificati i diritti, ispirato al rispetto del principio di eguaglianza e all’esigenza di affiancare all’astratta titolarità dei diritti la reale possibilità di esercitarli.
Tale esigenza è ancora più forte in un ordinamento, quale il nostro, che almeno a partire dalla l. 189/2002 (c.d. Bossi-Fini) si è caratterizzato per una corsa al rialzo delle norme sanzionatorie, a fronte della scarsità delle misure volte a favorire l’integrazione sociale o la stessa tutela dei migranti rispetto ad atti sempre più frequenti di discriminazione. Particolarmente significativi appaiono, in tal senso, i provvedimenti emanati nella legislatura in corso (in particolare, il d.l. 92/2008, convertito con modificazioni dalla l. 125/2008 e la l. 94/2009), che oltre a inasprire sanzioni già previste o a introdurne di nuove, hanno sancito norme limitative dei diritti (anche fondamentali) degli stranieri - comprensive di misure volte a impedire l’accesso degli irregolari ai servizi pubblici (salve le prestazioni sanitarie e scolastiche obbligatorie), a contrarre matrimonio, a conseguire atti di stato civile, la cittadinanza o il titolo di soggiorno, a trasferire denaro da e verso il Paese di origine – così da fare “terra bruciata” attorno allo straniero irregolare – e a estendere il termine di permanenza nei CIE.
Molte delle norme introdotte a partire dalla l. 189/2002 sono state dichiarate illegittime dalla Consulta, che ha subordinato la legittimità delle disposizioni – comunque non irragionevoli né contrastanti con obblighi internazionali - limitative dei diritti degli stranieri alla loro idoneità a realizzare “un ragionevole e proporzionato bilanciamento tra i diversi interessi, di rango costituzionale (…) specialmente quando esse siano suscettibili di incidere sul godimento di diritti fondamentali,” (sentt. nn. 245 e 61 del 2011, n. 187 del 2010 e n. 306 del 2008). Come afferma la Corte, infatti, è certamente vero che la «basilare differenza esistente tra il cittadino e lo straniero» può «giustificare un loro diverso trattamento» nel godimento di certi diritti (sentt.104/1969 e 62/1994). Tuttavia, i diritti inviolabili, di cui all’art. 2 Cost., spettano «ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani», ne consegue che la «condizione giuridica dello straniero non deve essere considerata – per quanto riguarda la tutela di tali diritti – come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi» (sent. 249/2010; in senso analogo cfr. CEDU, stranieri - sent.14.12.2010, O’Donoghue v. UK, secondo cui il margine di apprezzamento riservato agli Stati non può estendersi fino al punto di introdurre una limitazione generale, automatica e indiscriminata, a un diritto fondamentale garantito dalla Convenzione).
Esattamente cioè che ha fatto, invece, il legislatore italiano, introducendo, soprattutto di recente ma a partire almeno dalla l. 189/2002, istituti derogatori del diritto comune e norme fortemente limitative dei diritti fondamentali degli stranieri, non sorrette neppure da un ragionevole bilanciamento con interessi costituzionali di pari rango, come la Consulta ha avuto modo di rilevare, in particolare, a proposito del diritto dello straniero a contrarre matrimonio (subordinato, dalla l. 94/2009, alla presentazione di un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano) o all’aggravante di clandestinità introdotta dal d.l. 92/2008, ovvero all'aggravante comune – e come tale applicabile ad ogni reato, a prescindere da ogni legame con il bene giuridico tutelato o con la natura della condotta - fondata sulla mera condizione di irregolarità del soggiorno del migrante. Tale norma è stata dichiarata incostituzionale con sent. 249/2010 - per violazione dei principi di ragionevolezza, offensività e materialità, secondo cui, insomma, non si può incriminare una persona per ciò che si è o si pensa di fare ma solo per ciò che si è fatto, sempre che si sia violato un bene ritenuto meritevole di tutela per l’ordinamento. L’aggravante aveva insomma natura “discriminatoria”, non attenuata ma anzi, asseverata, dal reato di clandestinità, in quanto costituente la premessa per “duplicazioni sanzionatorie, (…) originate dalla qualità acquisita con un’unica violazione delle leggi sull’immigrazione, ormai oggetto di autonoma penalizzazione, e tuttavia priva di qualsivoglia collegamento con i precetti penali in ipotesi violati dal soggetto interessato”. “La qualità di immigrato «irregolare» diventa così uno “stigma”, che funge da premessa ad un trattamento penalistico differenziato del soggetto, (…) in base ad una presunzione assoluta, che identifica un «tipo di autore» assoggettato, sempre e comunque, ad un più severo trattamento.”.
La l. 94/2009 ha poi accentuato la tendenza alla ‘precarizzazione’ della condizione dello straniero, in particolare subordinando il rilascio (e il rinnovo) del permesso di soggiorno alla stipula di un 'accordo di integrazione' tra lo straniero e lo Stato e il riconoscimento dello status di soggiornante di lungo periodo al superamento di un test di lingua italiana; ampliando le cause di revoca e le condizioni ostative al rilascio del permesso di soggiorno (peraltro subordinato al versamento di una “tassa”);  introducendo nuovi e più stringenti requisiti per l’ottenimento della cittadinanza italiana jure matrimonii. Ma soprattutto, la l. 94 ha introdotto il reato di ingresso e soggiorno illegali nel territorio dello Stato che, sebbene sia stato dichiarato non illegittimo dalla Consulta (sent. 250/2010), sembra incompatibile, in particolare, con il principio di sussidiarietà della sanzione penale, secondo cui essa si giustifica solo come extrema ratio, cui ricorrere per tutelare beni giuridici dotati di significativa rilevanza sociale e di copertura costituzionale (almeno implicita), e sempre che non siano sufficienti misure meno restrittive di quella penale (tutto ciò è stato trattato con grande precisione da Federica Resta nel suo “Il delitto di immigrazione irregolare tra comparazione e riforma”, in S.
LORUSSO a cura di, Le nuove norme sulla sicurezza pubblica, Cedam, 2008). Tale argomento è avvalorato dalla giurisprudenza costituzionale, secondo cui “per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale” (sent. 105/2001).

Molte delle norme introdotte durante le legislature di centro-destra, a partire dalla l. 189/2002, sono state, come detto, dichiarate illegittime dalla Consulta e dalla Corte di giustizia, che con la sentenza El Dridi del 28.4.2011 ha censurato la previsione della detenzione per uno dei reati-cardine del sistema sanzionatorio del testo unico (l’inottemperanza all’ordine di allontanamento), ribadendo come secondo la direttiva 2008/115 le misure restrittive della libertà debbano costituire l’extrema ratio. In conformità a tale principio, il d.l. 89/2011 ha sostituito la pena pecuniaria a quella detentiva in alcune norme del testo unico, tornando peraltro a configurare come residuale la modalità coattiva di esecuzione dei provvedimenti di espulsione, favorendo in via generale il rimpatrio volontario. Tuttavia, contraddittoriamente, lo stesso decreto ha esteso fino a 18 mesi il termine per il trattenimento nei CIE, nonostante l’aperto contrasto di tale previsione non solo con l’art. 13 Cost., ma anche con il favor libertatis e il principio di “minimizzazione” dell’uso della forza cui s’ispira la direttiva.  
E se è ragionevole prevedere che questa norma – come molte altre del testo unico – sarà censurata dalla Consulta o dalla Corte di giustizia, ciò che nessuna sentenza potrà mai eliminare è l’effetto – prodotto da norme quali il reato di clandestinità – sulla rappresentazione e sull’idea stessa dello straniero, percepito come criminale e nemico insieme, da cui difendere le nostre “piccole patrie”.  

4.    Si intende che qualunque strategia, finalizzata ad affermare e a tutelare efficacemente i diritti degli stranieri, rendendoli esigibili, debba porre mano a una riforma intelligente e razionale dell’attuale disciplina sulla cittadinanza. Va da sé, infatti, che - come autorevolmente affermato – essa  costituisca una vera e propria “follia”.

Abstract
I diritti degli stranieri, proclamati solennemente dal diritto internazionale e dalle Costituzioni, sono oggi quotidianamente violati. Ciò vale ancor più per l’ordinamento italiano, connotato in particolare a partire dalla l.189/2002 (la cosiddetta Bossi-Fini) dalla limitazione dei diritti e delle garanzie e dal ricorso (anche simbolico) alla sanzione penale.
Luigi Manconi, docente di Sociologia dei fenomeni politici presso l’università IULM di Milano, e presidente di A Buon Diritto onlus. È stato senatore della Repubblica e sottosegretario di Stato alla Giustizia. Il suo lavoro più recente è: Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri (con Valentina Calderone), il Saggiatore 2011.



Italianieuropei n.1 2012




 

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