Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

01 ottobre 2014

Immigrati, Amnesty accusa i Paesi Ue
L`associazione: "Vergognosa mancanza d`azione". E critica la decisione di archiviare Mare Nostrum
La Stampa, 01-10-14
MARCO ZATTERIN
CORRISPONDENTE DA BRUXELLES
«La linea invalicabile è "salvare le vite umane nel Mediterraneo"», attacca John Dalhuisen, responsabile di Amnesty International per l`Europa e l`Asia Centrale. Non vuol dire quale sarebbe la soluzione ideale, si ferma al «basta che lo facciano». Che sia «mantenendo Mare Nostrum o sostituendolo con un`iniziativa congiunta europea, fa poca differenza». Nell`ultimo anno sono annegati in 2500, troppi per fare marcia indietro. Per questo ha dubbi sulla nuova versione di Frontex. Arretra la frontiera del monitoraggio, «è inadeguata e insufficiente».
È duro il rapporto «Vite alla deriva: rifugiati e migranti in pericolo nel Mediterraneo» pubblicato ieri dall`ong che dal 1961 difende i diritti umani. Scodella accuse pesanti, gravi preoccupazioni, testimonianze drammatiche. Se la prende con «la vergognosa mancanza d`azione» dei paesi dell`Ue e di come questa «abbia contribuito all`aumento delle morti nel Mediterraneo». Dal 2008 a oggi, le persone che affogate mentre raggiungevano le coste meridionale europee sono state 21.344. L`intero comune di Orbassano, oppure Orvieto, per dare un`idea.
A quasi un anno dalla tragedia di Lampedusa, la situazione è peggiorata. Tra l`ottobre 2013 e il settembre di quest`anno l`attività di Mare Nostrum ha salvato oltre 138 mila persone. Ma il numero dei morti aumenta: nel 2011 i decessi erano stati stimati in 1500, sono stati 500 nel 2012, e al 15 settembre scorso erano «almeno 2500». Il loro numero reale, avverte Amnesty «non sarà mai conosciuto, dal momento che molti sono i corpi rimasti in mare».
Sono disperati in fuga. Amnesty International rileva che il 63% di tutti gli arrivi irregolari via mare in Europa riguardava persone provenienti dalla Siria, dall`Eritrea, dall`Afghanistan e dalla Somalia, «tutti Paesi dilaniati da conflitti e da dilaganti violazioni dei diritti umani». Nei primi otto mesi del 2014, il 40% delle persone giunte irregolarmente nelle nostre sponde attraverso il Mediterraneo erano eritrei (23%) e siriani (17%). «La maggioranza di chi abbandona questi Paesi fugge da persecuzioni che necessitano di protezione internazionale», si ribadisce.
L`Europa sta cambiando strategia e Amnesty non pensa sia per il meglio. Il governo italiano vuole ritirare la costosa e contestata, per quanto utile, impresa Mare Nostrum. L`Europa metterà in campo Triton, il che vuol dire arretrare la linea del controllo dalle acque internazionali alla frontiera di Schengen. È «Frontex Plus», avrà fondi triplicati (3 milioni) e mezzi raddoppiati. «Siamo fortemente preoccupati - chiarisce Matteo de Bellis di Amnesty Europa -, perché un`operazione che sta funzionando ha intenzione di chiudere i battenti, mentre Triton non ha per ora i requisiti per poter far fronte alla situazione».
L`idea espressa dal ministro Alfano è di asciugare gradualmente Mare Nostrum profittando dell`inverno. In primavera, ci potrebbe essere solo Triton. Assicura Dalhuisen che «il fattore di attrazione generato da Mare Nostrum è minore del fattore di spinta provocato dalle guerre a noi vicine». Siamo a un bivio terribile, afferma. Le ragioni dell`Europa saranno inversamente proporzionali al numero di vittime che avremo fra un anno, insiste. Meglio evitare la conta, tenere Triton in alto mare, lavorare sul reinsediamento, sulla revisione dei regolamenti di Dublino sulle domande d`asilo. L`alternativa sono i morti. Più di quanti sia possibile immaginare.



Ora i tedeschi elogiano (e rilanciano) Mare Nostrum
Il Foglio, 01-10-14
Andrea Affaticati
Milano. Lo scorso dicembre fecero il giro del mondo le immagini del centro di prima accoglienza di Lampedusa, che mostravano gli immigrati nudi in cortile in attesa di essere messi sotto la doccia disinfestante. Meno clamore hanno invece destato - almeno fino a ora - la notizia e le immagini riguardo ad alcuni centri di accoglienza tedeschi, dove i profughi venivano vessati, picchiati, umiliati.
Forse perché si è più distratti, forse perché ci sí è quasi assuefatti? O perché ogni paese conosce i propri limiti. Il tema dei profughi ha però invaso, sin dall`inizio di questa estate, gran parte dei talk show e dei documentari televisivi tedeschi. Molti parlavano dell`Italia. Alcuni inviati venivano mandati a Lampedusa, altri alla Stazione centrale di Milano, altri ancora si mettevano in viaggio con i profughi, dalla Sicilia fin su ad Amburgo, all`imbarco dei traghetti per Danimarca e Svezia. E non erano reportage empatici con gli italiani, anzi. Lasciavano intendere che gli italiani facevano passare e partire per il nord Europa praticamente chiunque lo volesse. I politici tedeschi insistevano che Dublin 2, che prevede la richiesta d`asilo nel paese dell`Ue in cui si mette piede all`inizio, andasse rispettato.
Ma ora il giudizio pare capovolgersi, e c`è addirittura chi indica l`Italia come un esempio da seguire. Heribert Prantl, editorialista della Siiddeutsche Zeitung, scrive: "E` una vergogna che il ministro dell`Interno italiano debba venire a mendicare un aiuto dal suo omonimo tedesco, Thomas de Maizière. Ed è una doppia vergogna sentire da uno dei paesi più ricchi del mondo `la nostra nave è piena, non possiamo accogliere altri profughi, quando nel frattempo alla Turchia tocca accoglierne anche 100 mila al giorno`". Un paio di giorni fa in un talk show Gtinter Burkhardt, da 25 anni responsabile dell`organizzazione Pro Asyl che si occupa dei profughi di guerra e politici, portava come esempio di solidarietà la missione "Mare Nostrum". "Gli italiani da soli hanno salvato quest`anno centomila persone. Un impegno umanitario, oltre che economico, che andrebbe riconosciuto". E anche onorato. E anziché far finire con il primo ottobre "Mare Nostrum" e sostituirla con Programma di "pattugliamento" delle frontiere europee, l`Ue avrebbe dovuto farsi carico con mezzi e finanziamenti dell`operazione italiana. Così non è stato. Ora c`è Frontex Plus (anche se a quanto pare non ci sono i 9,3 milioni di euro al mese che l`operazione richiederebbe), che però pattuglierà soltanto le coste europee "anche se la gente muore pure in alto mare", sottolinea Burkhardt. Continuando a investire in confini di terra sempre più impenetrabili, è inevitabile che i profughi tenteranno le uniche vie di fuga rimaste. Cioè attraverso il Mediterraneo, puntando allo stivale. E se le cose stanno così, un primo passo di solidarietà sarebbe smettere di puntare il dito contro gli italiani, e lasciar passare tutti coloro che hanno parenti in Germania, conclude Prantl.



Una risposta ai signori delle guerre
Fermare le stragi in mare si può
il Manifesto, 01-10-14
Giuliana Sgrena
Fatal journeys», viaggi di morte sono quelli che costano la vita a migranti che fuggono alla guerra per cercare un approdo più sicura «Fatai journs» è il titolo del rapporto dell`organizzazione mondiale delle migrazioni (Oim), che registra 40.000 disperati morti durante la fuga dal proprio paese dal 2000 e 20.000 di questi nel Mediterraneo. Le cifre potrebbero essere anche superiori, ma spesso chi sparisce in mare non ha nemmeno chi possa rivendicare il suo corpo. Corpi straziati, di uomini, dorme e bambini, senza nome. CONTINUA a PAGINA 8
Famiglie che invece cercano i loro cari senza più trovarli. Tragedie, naufragi, morti segnano la vita di molti popoli che cercano la libertà, la dignità, la fine della sofferenza, un pezzo di pane.
Quanti cadaveri dovranno ancora marcire in fondo al mare, sbattuti dalle onde in tempesta, prima che si ponga fine a questa tragedia? Quante carrette del mare fatiscenti dovremo ancora vedere accatastate nell`isola di Lampedusa prima che i responsabili delle guerre che sconvolgono il Medio oriente sí assumano le loro responsabilità? L`intervento della Nato in Libia, i finanziamenti all`opposizione - anche jihadista siriana - sono tra le cause principali delle tragedie vissute da molti profughi che cercano salvezza ogni giorno sulle nostre coste.
Eppure il Mediterraneo è il mare nostrum, fonte di risorse, di scambi e di cultura. Non solo per i paesi del sud ma per tutta l`Europa.
La sorte dei migranti non si può lasciare alla tatalita, la loro fine ingrata non è ineluttabile. Basterebbe assumere il problema all`origine: perché non organizzare la partenza dei profughi dalle zone di guerra o da paesi bistrattati da dittature prevedendo un loro percorso verso l`Europa, verso tutti i paesi dell`Unione, in base alle migliori condizioni dí integrazione? in questo modo si potrebbero sottrarre questi disperati alle grinfie degli scafisti. Costituendo dei corridoi umanitari si potrebbero salvare molte vite umane, evitare conflitti tra poveri, sottrarre le vittime della guerra agli speculatori, che non sano solo gli scafisti, loro sono la manodopera, ma dietro di loro vi sono personaggi ancora più loschi. Senza la guerra, senza le milizie armate, senza le dittature finirebbe questo traffico di essere umani, traffici di donne, di organi da trapianti. Una tragedia senza fine.
Sono anche questi i temi al centro di Sabir, il festival che si apre oggi a Lampedusa per un confronto tra le varie culture del Mediterraneo. L`iniziativa promossa dall`Arci, dal Comitato 3 ottobre e dal Comune di Lampedusa, con il patrocinio della presidenza dei ministri e della Rai, coincide con il primo anniversario del naufragio del 3 ottobre 2013 che ha causato la morte di almeno 366 profughi. Un`occasione per non dimenticare, per impedire che ancora una volta il silenzio copra le colpe e le omissioni di chi ha il dovere dì salvare degli esseri umani più sfortunati di noi. Come hanno sempre fatto gli abitanti di Lampedusa, quelli che si sentono i testimoni di una piccola isola collocata nel Mar d`Africa.



"Io, scampato al naufragio sono rinato in Svezia"
Domani sera, appena tornato da scuola in pullman, Russom comprerà dieci candele, tre bottiglie di birra per i suoi amici, succo d`arancia, latte e miele per lui. Radunerà tutti i quattordici eritrei del paese di Ange intorno alla tavola di questa cucina.
CONTINUAA PAGINA 15
"La mia nuova vita in. Svezia tra gli incubi di quella notte e il rumore della neve sui tetti"
L`eritreo Russom si è salvato dal naufragio in cui morirono 366 persone "Ho una casa e un sussidio, studio la lingua per avere un futuro"
La Stampa, 01-10-14
NIccoLò ZANCAN
INVIATO A ANGE (SVEZIA)
E' un anniversario tragico e felice insieme. Accenderà le candele e pronuncerà ad alta voce i nomi dei suoi amici naufragati e morti. Spiegherà che lui è sopravvissuto, solo perché così ha voluto Dio. E poi, dopo le preghiere, nella perfetta desolazione svedese, in mezzo a questa foresta di alberi da mobili, cercherà di scacciare i suoi incubi offrendo da bere a tutti. «Il ricordo del 3 Ottobre viene a trovarmi ogni giorno dice Russom - vedo ancora gli amici che sono affogati vicino a me. Vedo me stesso in mare, mentre sbatto le braccia e imploro aiuto. Vorrei non pensarci, ma non ci riesco. Certe volte ho le vertigini».
Una folata di vento fa picchiettare la pioggia contro la finestra. Il cielo è grigio e azzurro. Fuori c`è l`unica strada. Oltre la strada, la casetta della fermata del pullman. Alle sei di sera, i trecento abitanti di Ange sono già al caldo, dietro a grandi finestre illuminate. Svezia centrale, 45 chilometri a Nord della cittadina di ostersund. Il lungo viaggio di Russom è finito qui, dove sognava di arrivare a destinazione. «Sono partito da Asmara nel giugno del 2013. Ho attraversato il deserto a piedi. Sono stato 4 giorni a Khartoum. Due mesi in Libia. Due mesi a Lampedusa. A Roma sono scappato. E nessuno mi ha fermato, grazie a Dio. Sono stati tutti bravi con me. Sono arrivato a Francoforte in treno, poi in pullman a Stoccolma, dove ho fatto richiesta di asilo politico».
Con un bicchiere di latte davanti, Russom traccia su un foglio le due parole più importanti per spiegare le sue ragioni: «Freedom. Work». Libertà e lavoro. Questa casa essenziale, pulitissima, tutta di legno chiaro, la paga il governo svedese. Divide due stanze con gli amici Amanios, Tesfamariam e Zerai. Ha una tessera gratuita per viaggiare sui mezzi pubblici. «Amo l`Italia dice Russom - questi jeans li ho comprati a Roma. Eritrei e italiani sono amici. Ma nel vostro Paese sarei finito a dormire sotto un ponte».
Ci eravamo conosciuti in mezzo agli asparagi selvatici di Lampedusa, sulla collina che nasconde il centro di accoglienza. Era il pomeriggio del 4 ottobre 2013. Con indosso una tuta da ginnastica blu e rossa, Russom era passato sotto le reti e si era incamminato verso il paese per una ragione precisa. «Ho fame» ripeteva in inglese, a tutti quelli che gli facevano domande sul naufragio. Guardava il primo cannolo siciliano della sua vita con un misto di diffidenza e gratitudine, attento a non sporcarsi. «I libici ci hanno costretto a salire a furia di bastonate -raccontava - avevano anche le pistole. A bordo eravamo troppi, ma non c`era scelta. Quando siamo arrivati davanti alle coste italiane nessuno ci vedeva. Il capitano ha incendiato una coperta zuppa di benzina. Allora è scoppiato il panico. Il barcone si è ribaltato. Io sono stato uno dei primi a finire in mare».
Russom è ingrassato di qualche chilo. Si alza ogni mattina alle 6,45. Fa colazione con pane e formaggio. Studia svedese cinque giorni alla settimana nella scuola per migranti di Krokom, a quaranta minuti di pullman da qui. «Education», dice lui. Deve imparare la lingua per non perdere il diritto a incassare il sussidio mensile pari a circa 300 dollari. In Eritrea era costretto alla leva permanente. Per questo è scappato. Il suo sogno è diventare autista di bulldozer, anche se il giorno che preferisce in assoluto è il venerdì: «Quandco la Svezia smette di lavorare. E senti nell`aria come una festa». Il sabato va a messa alla chiesa ortodossa di ostersund. Domenica, passa quasi l`intera giornata alla fermata centrale dei pullman. Dove tutti, migranti e svedesi, si incrociano dai paesi della zona. E poi, davanti alla stazione c`è il centro commerciale «Mittopunkten» con il wifi gratis. Russom usa Facebook per tenere i contatti con altri scampati al naufragio. Diversi di loro vivono vicino a Stoccolma.
Un anno dopo l`ecatombe del 3 Ottobre, quando 366 migrati annegarono davanti a una delle spiagge più belle della Sicilia, è possibile tracciare un bilancio preciso di quanto è successo: altre 4 mila persone sono morte in mare cercando di sfuggire a guerre, miserie e dittature, 140 mila migranti sono stati salvati dall`operazione Mare Nostrum. Di questi, solo 70 mila sono stati registrati dalle prefetture italiane.Gli altri, sono già altrove Uome Russom, che è riuscito a consegnare le sue impronte digitali e il suo futuro alla Svezia. Infatti i dati qui sono quasi speculari.
Nei primi 8 mesi del 2014 i richiedenti asilo sono stati 58 mila, contro i 52 mila di tutto il 2013. Nelle elezioni politiche appena concluse, la destra xenofoba svedese ha raddoppiato i consensi (dal 5,7 al 12,9%). Quelli come Russom stanno iniziando a diventare un problema anche nella ricca e tollerante Scandinavia. Ma a Unge non c`è traccia di questo sentimento. Il mondo sembra lontano. La vita scorre ovattata: un supermarket, due panchine, una buca delle lettere gialla. «Avevo visto la neve solo in televisione - racconta Russom - la prima volta mi sono spaventato. Perché quando cade forte, fa rumore sui tetti».
Durante l`inverno, la temperatura può arrivare a -30, il lago Stórsjon si ghiaccia completamente. «Ho comprato il giaccone e i guanti», dice Russom. «Sto bene. Non ho paura del freddo. Sono triste solo per mio fratello Marx, di cui non ho più notizie dal 27 giugno.
Anche lui voleva venire in Europa. Prego ogni giorno che non sia in fondo al mare». E la tua famiglia, Russom? Non ti manca? «Tutto quello che faccio è per loro. Spero che mia moglie e miei cinque figli possano presto raggiungermi».
Adesso sorride, si chiude la giacca, usciamo. Ma prima tira fuori dal portafoglio la sua nuova carta d`identità. «L`ho ricevuta il 10 settembre - dice - è stato il giorno più felice della mia nuova vita».
I fari in lontananza sono quelli dell`ultimo pullman. «Quanto ci metti a tornare in Italia?», domanda Russom. «Un giorno», rispondo. Fa una faccia davvero disorientata. «È strano quello che dici, my friend. Pensavo che la strada fosse molto più lunga».



Lampedusa, l'accoglienza torna alle Misericordie
Avvenire, 30-09-14
?Dal mese di ottobre la gestione del Centro di primo soccorso e accoglienza di Lampedusa sarà affidata alle Misericordie. "Torniamo sulla porta d'Europa - dice il presidente della Confederazione nazionale delle Misericordie, Roberto Trucchi - per accogliere e prestare aiuto a quanti approdano, in condizioni disumane, sulle coste italiane. È un impegno gravoso e difficile, ma crediamo di avere le capacità e l'umanità per gestire al meglio il centro. Non dimenticando mai che quelli che abbiamo davanti, al di là del colore della pelle, della lingua, della religione, sono nostri fratelli".
"Papa Francesco - aggiunge Trucchi - ci ha ricordato, incontrando il nostro movimento il 14 giugno scorso, che Misericordia significa Miseris-cor-dare, donare il cuore ai miseri. E non v'è dubbio che quanti sbarcano zuppi, affamati e laceri sui moli di Lampedusa siano tra i miseri della terra, a cui occorre donare il cuore".
L'assegnazione della gestione alle Misericordie è avvenuta a seguito di una procedura negoziata, indetta dalla Prefettura di Agrigento. La gestione partirà dal primo ottobre e sarà affidata alla Confederazione nazionale, con il supporto delle Misericordie siciliane e con l'apporto dell'esperienza della Misericordia di Isola Capo Rizzuto. La Confederazione nazionale delle Misericordie è già impegnata nella gestione di vari centri in Italia, tra i quali appunto quello di Isola Capo Rizzuto, il centro di accoglienza più grande d'Europa. Le Misericordie erano già state impegnate a Lampedusa, dal 2007 al 2009, nella gestione dell'allora Cpt (Centro di permanenza temporanea) di contrada Imbriacola.
Intanto l'isola si prepara a ricordare la strage dello scorso tre ottobre nel corso del quale persero la vita 366 persone. E' il sindaco Giusi Nicolini, a fare il punto della situazione: "Si potrebbe ripetere una tragedia come quella dello scorso anno, nel frattempo ce ne sono state molte altre. L'isola - spiega il primo cittadino - con "Mare nostrum" ha respirato, non ha dovuto affrontare dei numeri che per noi sarebbero stati insostenibili". L'operazione "Mare nostrum", prosegue Nicolini, "ha avuto il merito di dare un pò di sollievo a Lampedusa. Da un punto di vista normativo non è cambiato nulla". E sulla nuova missione europea di pattugliamento "Frontex plus" che dovrebbe partire nel novembre prossimo, Nicolini rileva: "Non può essere questa la soluzione. È solo una risposta tampone, di carattere emergenziale che non risolve però il problema".



SE QUESTO E` UNO SCAFISTA
Cosa succede nei porti siciliani dopo gli sbarchi, tra interrogatori e giovani trafficanti. Un`inchiesta
Il Foglio, 01-10-14
Cristina Giudici
Il primo scafista che si riesce a guardare negli occhi nel porto di Augusta, nella provincia di Siracusa, è egiziano e ha da poco compiuto diciotto anni. Appollaiato in un angolo, all`esterno dell`ufficio della capitaneria di porto, si contorce le mani e piange. Appena sbarcato, nella silenziosa marcia percorsa in fila indiana per compiere il breve tragitto che separa il molo dai tendoni che servono per la prima accoglienza, ha cercato di scappare a piedi, ma è stato fermato immediatamente dalle forze dell`ordine. E questo davanti allo sguardo attento del sostituto commissario Carlo Panini, direttore del Gicic, il Gruppo interforze dí contrasto all`immigrazione clandestina della procura di Siracusa (sulle cui operazioni vigilia il sostituto procuratore Antonio Nicastro) con una piccola squadra di dieci uomini fra poliziotti, agenti della Guardia di Finanza, ufficiali della polizia marittima. Il commissario pronuncia una sola parola: "Essayed". Poí socchiude gli occhi, lui che è alto e robusto come un gigante buono, corporatura e lineamenti ereditati forse dai suoi avi garibaldini, si siede e, imperscrutabile, aggiunge: "Aspettiamo". Essayed è il cognome di un`aristocrazia a noi ignota, quella di una famiglia di pescatori trasformati in trafficanti di uomini. Ma a vederlo, questo rampollo dell`aristocrazia
del racket degli esseri umani, suscita solo pena. Magro, faccia scavata, occhi fuori dalle orbite, sta seduto per terra e singhiozza. "E` perché ha capito che è fottuto", spiegano i carabinieri. Perché sa che a casa non tornerà per un po`, che il suo battesimo di fuoco è finito male. A meno che decida di parlare, di accettare dí essere confidente della polizia, di aiutare a trovare i basisti, che non sono qui in Sicilia. Gli ultimi basisti di un certo rilievo che sono stati arrestati in Italia se ne stavano in un appartamento milanese ad aspettare i migranti sbarcati per ricevere l`ultima tranche dei soldi pagati dalla famiglia ai sensali, quelli che hanno offerto il viaggio in qualche villaggio, dove da decenni vanno a predicare un nuovo verbo, la lieta novella della fuga in Europa.
Forse però lui, il giovane scafista appena diventato maggiorenne, non era stato addestrato bene: si è fatto prendere con le carte nautiche di tutti i porti italiani nella tasca dei jeans, e delle lamette per tagliarsi i polsi, nella speranza di farsi mandare in un ospedale invece che in carcere, per poi riuscire a fuggire. "O piangi o parli, tutte e due le cose non le puoi fare", gli spiega un carabiniere, che lo incalza in un angolo del porto. E` un pomeriggio di fine estate e il Foglio riesce ad assistere agli interrogatori dei presunti scafisti e alle deposizioni dei profughi in un ufficio della capitaneria di porto, grazie alla disponibilità degli ufficiali dell`Interforze, che vogliono mostrarci l`altro volto, ignoto, dell`emergenza immigrazione. Anche se sarebbe meglio parlare di un esodo inarrestabile, una guerra sporca e atroce mai dichiarata, che dall`inizio del 2014, secondo il rapporto "Fatai Journeys: Tracking Lives lost during Migration" reso noto a Ginevra dall`Oim, ha provocato solo nel Mediterraneo almeno 3.072 vittime.
Così ci siamo infilati nei porti siciliani per vedere cosa accade quando, concluse le operazioni di protocollo per accogliere in Italia i profughi salvati, seppelliti i sommersi, comincia il lavoro complesso delle indagini giudiziarie per dividere i buoni dai cattivi, i fuggitivi dagli scafisti, per cercare di dirigere e di controllare il flusso del traffico degli esseri umani, che si riversa tutti i giorni soprattutto nei porti della Sicilia orientale.
Passata l`angoscia del suo primo viaggio fallito, Moser, troppo giovane per essere scaltro, troppo vecchio per evitare il carcere, parla, ma quando parl a, non si viene a capo di nulla perché la sua versione, confermata dai profughi, fa intuire fino a che punto la guerra contro il traffico degli esseri umani sia già stata persa in partenza, perché bisognava intervenire prima, perché ormai è troppo tardi. Moser spiega che dopo l`ultimo trasferimento dei passeggeri da una barca di ferro a un carretta di legno, trasbordo fatto per tenersi la barca in buone condizioni da riportare indietro, quando gli italiani stavano per arrivare per salvare i profughi, gli scafisti veri sono tornati in Egitto. E lo hanno lasciato da solo a tenere il timone per dare tempo al mercantile italiano di arrivare. Perché ormai dall`Egitto i trafficanti mandano i più giovani per non perdere marinai-scafisti addestrati, preziosi come il petrolio. E poi sanno che se hanno sedici anni nessun poliziotto avrà cuore di mandarli in un carcere minorile. Oggi l`interprete è un egiziano, e tutti lo chiamano Aldo, ma poi ci sono anche Giovanni e Giacomo, soprannominati così in omaggio al popolare trio di comici. Aldo fa domande ai profughi perché così parlano più volentieri, e racconta al Foglio di essere amareggiato. "Ora dal mio paese mandano i ragazzini in mezzo al mare a fare gli scafisti. Ora i trafficanti mandano i picciotti", spiega, accaldato dopo ore di colloqui, che si sono svolti in uffici senza aria condizionata in una giornata afosa e umida. Poi Aldo si rivolge al commissario Panini e gli segnala che il numero 12 e il numero 21, dei profughi sbarcati, potrebbero essere scafisti.
Quest`anno ad Augusta ne hanno arrestati già duecento, i trafficanti hanno capito che stanno rischiando troppo e quindi mandano i più giovani perché la loro agenzia di viaggi per esseri umani in fuga, gestita con capacità imprenditoriale, non può permettersi dí perdere troppo personale specializzato. Costi di gestione aziendale. Gli scafisti delle organizzazioni egiziane sono quelli con cui poliziotti e investigatori preferiscono avere a che fare, perché per gli egiziani trasportare immigrati e profughi e portarli su fino a Milano ormai è un antico mestiere, e molti lo fanno con professionale cura dei loro passeggeri, per evitare che muoiano. Altrimenti si sparge la voce e chi vuole andare via dall`Africa si rivolge alla concorrenza.
Se i barconi arrivano dalla Libia, invece, la storia è diversa, più atroce, incontrollabile. Sulle coste libiche a dirigere il traffico ci sono i briganti del Terzo millennio, milizie armate dí fucili e bastoni, che reclutano pescatori maghrebini, soprattutto tunisini, qualche volta anche egiziani, senza scrupoli. Li addestrano velocemente in modo improvvisato gli africani che accettano di fare gli scafisti per pagarsi il viaggio, senza sapere come fare a governare le correnti del mare perché loro, il mare, non lo avevano mai visto, prima di arrivare in Libia. I trafficanti prendono i soldi, anche pochi, ma maledetti e subito, e poi non importa se i passeggeri affogano a poche miglia dai porti.
Gli interrogatori proseguono. Nel frattempo sullo schermo della capitaneria di porto si proietta una sequenza di immagini riprese durante il salvataggio. Una carretta blu e bianca si avvicina a una petroliera che sta per salvare centinaia di profughi. Sembra quasi vuota. Sul ponte poche decine di immigrati. Sequenza successiva: escono dalle stive come topi altre decine di uomini, donne e bambini. Terza sequenza: sono tutti fuori, a centinaia. Con le mani si aggrappano al mercantile, anche per evitare di andare a sbattere col rischio che la nave si inabissi. Solo dopo, finiti gli interrogatori, sentiti i testimoni, si saprà che i veri scafisti sono già andati via, prima che il mercantile arrivasse a salvarli, sulla nave buona, per così dire, di ferro.
Il giovane Moser, seduto per terra e appoggiato a un muro, dopo qualche ora smette di piangere e alza lo sguardo, incerto, sconcertato, verso gli ufficiali dell`Interforze di Siracusa. E racconta parzialmente ciò che è successo prima dell`arrivo del mercantile che li ha salvati. Spiega al traduttore che, dopo un litigio violento fra gli organizzatori del viaggio - organizzatori che stanno diventando sempre più voraci, ubriacati e storditi da viaggi facili che fruttano circa un milione di euro a ogni traversata - con lo scafista rimasto sulla carretta fatiscente a tenere a galla una nave troppo piena, lui è rimasto da solo al comando della carretta. Durante il litigio uno dei pirati, che si sentiva a rischio perché la  sua merce era troppa e pensava di non potercela fare a rimanere a galla, ha fatto entrare acqua nella barca per far capire che era disposto ad affondare, piuttosto di imbarcare altri profughi. Ma era un gesto fatto solo per creare panico e deviare l`attenzione dei salvatori italiani sulla carretta, e permettere ai trafficanti e agli altri scafisti di fuggire, di tornare indietro, indisturbati,
in Egitto.
In una stanza del porto commerciale di Augusta, Aldo scrive in arabo la dinamica dell`ennesimo sbarco avvenuto a 150 miglia dalle coste siciliane. I poliziotti leggono il suo verbale, ma sanno già che non c`è bisogno di tradurre: questa volta non ci saranno altri scafisti da arrestare. Sono stati più furbi. In una stanza, seduti per terra, i profughi mangiano, dopo aver testimoniato. Hanno sguardi sereni, sanno che il loro contributo verrà premiato. Non c`è tempo per soffermarsi, riflettere, filosofeggiare, analizzare. Il sole sta tramontando e bisogna prepararsi per un nuovo sbarco. Altri uomini, donne e bambini di cui non sappiamo né sapremo nulla - tranne per i profughi siriani che arrivano con ori, gioielli, migliaia di dollari cuciti dentro gli abiti, i loro ricordi di vite agiate nei piccoli bagagli, e dicono di aver preferito rischiare la sorte in mare piuttosto che morire sotto le bombe di Bashar el Assad - scendono silenziosamente da un altro mercantile che ha messo a disposizione il suo equipaggio per portare i profughi in porto. Molti arrivano dall`Eritrea, dalla Nigeria, dalla Somalia, dal Ghana. Sono africani, sono quelli che vengono accolti con più compassione, perché ai piedi hanno ceppi invisibili. Nuovi schiavi d`Africa. Miserabili, valgono poco, qualche centinaio di euro al massimo per traversata. Vengono tenuti per mesi prigionieri nei capannoni vicino alle coste libiche. Picchiati, torturati - alcune donne violentate hanno mostrato persino i segni delle scariche elettriche. Maltrattati dai libici, che hanno un profondo odio razziale verso i neri, e sono i primi a morire.
Mare nostrum e mare monstrum. O per dirla con meno poesia: che cosa accade quando si spengono i riflettori sulle facce stranite ma sorridenti dei profughi salvati, stupiti di averla scampata, e sui volti compenetrati e compassionevoli dei salvatori? Cosa succede nei porti siciliani, dove ogni giorno si abbatte una nuova bomba umanitaria, si comincia a tessere la delicata trama delle indagini giudiziarie? Si comincia, ci si prova almeno, a dividere i buoni dai cattivi, i profughi dagli immigrati clandestini, le vittime dai carnefici, gli scafisti dai passeggeri. E infine gli scafisti per caso da quelli professionisti. E bisogna affidarsi all`esperienza e all`intuito, e riconoscere con uno sguardo, nel gruppo di migranti appena sbarcato, chi può essere assoldato come collaboratore o confidente, perché senza il loro aiuto non si va da nessuna parte. E` a questo punto che Mare nostrum, finita l`efficienza del ripescaggio e la retorica del "no child left behind", diventa un limbo nel quale squadre sparute di investigatori, poliziotti, carabinieri lavorano in trincea, lontano dai burocrati italiani ed europei, per gestire l`emergenza, per ricreare il simulacro della giustizia. Ed è qui che ci si scontra ogni giorno con la banalità del male del traffico degli esseri umani. Dentro agli uffici spogli delle capitanerie di porto, dove si cerca di gestire con un mix di sapienza e intuito un esodo inarrestabile. E anche con il timore di sbagliare, ora che in Europa si aggira lo spettro dell`Is, perché fra finti palestinesi, veri siriani, scafisti scafati e scaltri maghrebini, non si sa mai chi entra, chi esce, chi si ferma e chi sia davvero pericoloso.
Per vedere l`altro volto, sconosciuto, dell`emergenza umanitaria, bisogna venire quaggiù, per riuscire a infilarsi nei porti fra Siracusa e Ragusa, dove arrivano a migliaia, anche quattromila profughi in un solo fine settimana. Anche se poi quando si guarda negli occhi gli scafisti arrestati, si capisce che in fondo non hanno nulla da dire. Basta leggere le loro parziali confessioni, contenute in centinaia di verbali, mentre nella stanza di fianco pazienti interpreti ascoltano i profughi, che accettano di testimoniare. Per riconoscenza e per convenienza, per un tacito patto con i propri salvatori, per ripicca contro chi li ha tenuti stipati dentro una stiva con la misura di un tappo d`acqua al giorno, quando va bene. Attenti però a non svelare nulla, se invece chi guidava il barcone era come loro, un disperato affamato. O magari un organizzatore del racket che, giunto in Italia, deve poi portarli fino al nord. Fino a Milano, di preferenza, dove spesso da Messina o da Siracusa i siriani arrivano a bordo di un taxi, se hanno i soldi per permetterselo. Altrimenti c`è il treno.
Le confessioni degli scafisti iniziano sempre con la stessa frase rituale: "Voglio collaborare, non pensavo di aver commesso alcun reato contro lo stato italiano, datemi uno sconto di pena". Gli scafisti sanno che se sono incensurati e collaborativi, con le attenuanti rimarranno in galera per sei mesi e poi espulsi, e grazie ai voli charter del Viminale potranno tornare a casa con un biglietto gratuito e ricominciare da capo. Ricominciare salendo su barconi dove stipare uomini, donne e bambini, vivi e qualche volta già morti, ammazzati sulle coste libiche, guadagnando diverse migliaia di euro (dipende dall`organizzazione). E in fretta. Perché come i calciatori, gli scafisti hanno una data di scadenza e dopo due arresti, tre al massimo, il gioco si fa troppo rischioso, le condanne diventano più lunghe e se si parla, se si collabora con la polizia italiana, alle famiglie può accadere qualcosa.
E` dentro questi porti, che il Foglio per diversi giorni ha cercato di capire la dimensione di un caos politico e sociale che i media chiamano per comodità emergenza, ma che a guardare bene è un conflitto a bassa intensità, ma non annoverato nemmeno fra quelli che compongono il puzzle della "Terza guerra mondiale, ma a pezzi", di cui ha parlato con solenne e grave semplicità Papa Francesco.
Da mesi sappiamo tutto del meccanismo di salvataggio, dell`eroismo dei militari che sottraggono i profughi al mare e alla morte, della generosità delle petroliere e dei mercantili che fanno servizio taxi dal Canale di Sicilia alla rada dei porti per portare in salvo ogni giorno che Dio manda in terra centinaia di disgraziati. Più complicato è sapere che cosa succede poi, dopo gli sbarchi. Assistiti gli ammalati, fornita acqua agli assetati, pane agli affamati, scarpe agli scalzi, coperte calde e giocattoli ai bambini, bisogna poi cominciare a comprendere cosa è successo sulle loro carrette durante il viaggio. Per illudersi, più che altro, di poter vincere una battaglia di monitoraggio e gestione dell`ordine che è già stata persa in partenza contro il traffico seriale degli esseri umani.
Un traffico che, paradossalmente ma certo non inspiegabilmente, viene amplificato dal dispositivo di Mare Nostrum. Perché noi siamo europei, e apparteniamo a una civiltà che rispetta la vita umana. E se si sa che davanti alle coste libiche i briganti armati, una volta incassati i soldi, ammazzano i passeggeri o li mettono su canotti gonfiabili che affondano poche ore dopo la partenza, allora bisogna andare a salvarli a tutti i costi. Anche pagando il prezzo di favorire, nostro malgrado, il lavoro dei trafficanti.
Di creare aspettativa e dunque mercato. Dentro i porti, dopo gli sbarchi,tutta l`attenzione è verso gli scafisti. Bisogna prenderli, aumentare i numeri degli arresti per dimostrare che qualcosa si può fare contro il traffico degli esseri umani, anche se qui lo sanno tutti che questa guerra sarà difficile vincerla, che è appena cominciata e durerà anni. E` anche facile dire che gli scafisti sono criminali, bisogna arrestarli, inasprire le pene, convincerli a smettere di fare i terminali delle organizzazioni criminali che usano gli esseri umani in fuga dalle guerre e dalla miseria come fattore di lucro, o carne da macello da lanciare in mare verso le nostre coste, soprattutto siciliane, per alimentare il caos, sostenere il mercato o la tensione politica.
Può sembrare rassicurante leggere le comunicazioni della polizia di stato, che conta i numeri degli scafisti arrestati (121 a Ragusa oltre 200 a Siracusa solo nel 2014), portati negli istituti penitenziari, ormai ribattezzati le carceri degli scafisti. Ma poi quando si riesce, come ha fatto il Foglio, a rimanere per giorni e notti nei porti siciliani, dove arriva la maggioranza dei migranti, e si osserva da vicino cosa accade a ogni nuovo sbarco, la prospettiva cambia. E` lì, dove si accolgono i profughi sbarcati, che c`è da dividere i buoni dai cattivi. Qui si premia chi collabora, si punisce chi ha vessato i passeggeri. E si chiude un occhio sui minorenni - la nuova generazione di scafisti egiziani e tunisini - nella speranza di farli rimanere in Italia a studiare, e interrompere la loro carriera di trafficanti di uomini.



"I centri di accoglienza come Guantanamo" La Germania sotto choc
Botte e umiliazioni nelle strutture gestite dai privati
La Stampa, 01-10-14
Tonia Mastrobuoni
L'uomo è seduto sul pavimento, c`è vomito ovunque: sui suoi pantaloni, sul materasso accanto a lui, a terra. Lui piagnucola, farfuglia «era solo una birra», qualcuno gli urla «stai zitto o ti prendo a pugni in bocca». Qualcun altro gli intima di sdraiarsi sul materasso,
«chiudi gli occhi e addormentati lì, nel tuo vomito». Il video dura appena quindici secondi ed è diventato un caso politico. L`uomo è un rifugiato, i suoi aguzzini alcune guardie private di un centro di accoglienza a Burbach, nel Nordreno Westfalia.
Quando il video è arrivato nelle mani della polizia, sono scattate le perquisizioni. E nello smartphone di uno dei torturatori, gli inquirenti hanno trovato altre immagini scioccanti: in una si vede una guardia che schiaccia con lo stivale il collo di un algerino sdraiato a terra, a faccia in giù. Modello Guantanamo.
Non è il primo scandalo nei centri tedeschi di accoglienza per rifugiati, che in Germania vengono subappaltati ai privati. «European Homecare» l`azienda che gestisce 40 centri nel Paese e si occupa in particolare di Burbach, ha dichiarato di essere «scioccata» che l`abuso del video possa essere avvenuto «in una delle nostre strutture» e ha annunciato di aver interrotto ogni collaborazione con Ski, la società di vigilanza che le ha procurato le guardie accusate degli abusi.
Nel Nordreno Westfalia è già il terzo centro per rifugiati ad essere finito in poco tempo sulle prime pagine dei giornali. Le guardie del video di Burbach, accusate ora di maltrattamenti, hanno ammesso che nella struttura esisteva una «stanza dei problemi» dove venivano rinchiusi ad esempio i rifugiati ubriachi. E hanno raccontato anche che alcuni colleghi proverrebbero da ambienti di estrema destra.
Il caso ha scatenato un putiferio; lunedì il portavoce di Angela Merkel ha detto che «siamo un Paese umano, dove la dignità delle persone è rispettata» e il primo ministro del Land, Hannelore Kraft, ha detto di essere «scioccata». Tuttavia ieri il ministro degli Interni, Thomas De Maizière, ha rifiutato ulteriori finanziamenti alle regioni e ai comuni per l`accoglienza degli immigrati che richiedono asilo politico.
«Per ora continueremo a mantenere la stessa proporzione nei contributi federali e locali», ha precisato, dopo che i Verdi e il capo dell`ala bavarese dei conservatori, Horst Seehofer, avevano chiesto al governo di stanziare risorse straordinarie per l`ondata di rifugiati.
Dall`inizio dell`anno sono già 100 mila gli immigrati arrivati in Germania che provengono da zone difficili e che richiedono asilo politico, il governo ne prevede almeno altrettanti entro la fine dell`anno. Per ricevere lo status di rifugiati devono aspettare mesi, spesso anni. E sono affidati a strutture che in molti casi finiscono nelle cronache. La scorsa settimana ha fatto discutere un centro accusato di scarse condizioni igieniche: il gestore è un ex ufficiale dei servizi segreti della Germania Est, che ai tempi si era già fatto notare per la crudeltà con cui inquisiva le sue vittime. Non proprio la biografia ideale per un centro di rifugiati.



Se lo zingaro diventa un capro espiatorio
la Repubblica, 01-10-14
Chiara Saraceno
GLI zingari che rubano i bambini. Uno stereotipo tanto radicato e diffuso quanto privo di ogni fondamento, di ogni evidenza empirica e persino di ogni plausibile spiegazione. Perché mai gli zingari dovrebbero rubare i bambini, infatti, come se non ne avessero abbastanza dei loro? Eppure, sembra essere la prima cosa che viene in mente, che viene ritenuta plausibile, non solo quando un bambino, effettivamente, sparisce, ma anche quando un bambino della comunità zingara è troppo biondo e chiaro di pelle “per essere davvero figlio loro”, scatenando ipotesi fantasiose di rapimento. È avvenuto tempo fa in Grecia quando una bambina, appunto, “troppo bionda per essere zingara”, venne individuata in un insediamento rom, scatenando accuse di rapimento e ricerche dei “genitori veri”, salvo scoprire che questi erano effettivamente diversi da quelli che avevano la custodia della piccola, ma, zingari anch’essi, la avevano ceduta in una sorta di affido famigliare informale, per- ché non erano in grado di provvedere per lei. Da segnalare che tutte le sollecite preoccupazioni per il benessere della bambina sparirono quando si scoprì che, dopo tutto, era solo una rom. Un caso molto simile scoppiò nello stesso periodo in Irlanda, salvo scoprire che gli zingari “rapitori” erano i genitori a tutti gli effetti, biologici e legali. Non stupisce allora che uno stereotipo tanto radicato possa essere utilizzato come una copertura plausibile da un adulto che cerca di coprire le proprie responsabilità. Come ha fatto il padre che qualche giorno fa, per nascondere di aver perso di vista il proprio figlioletto di tre anni e il suo amico ad una fiera di paese nel torinese, dichiarò di averlo salvato dalle grinfie di uno zingaro che lo aveva rapito. Dimostrando la stessa incoscienza e irresponsabilità della quindicenne che, qualche anno prima, per nascondere di aver fatto l’amore con il proprio ragazzo, denunciò per stupro un giovane rom, scatenando una rappresaglia feroce e incivile contro il campo nomadi. Fortunatamente, questa volta la polizia è riuscita a smascherare la bugia prima che le pulsioni antizingare si organizzassero e partisse la spedizione punitiva.
La spiegazione della diffusione dello stereotipo dello zingaro come quintessenza della brutalità malvagia non va ricercata in qualche esperienza effettiva in un passato più o meno lontano, e neppure, forse, nella società contadina. Mito letterario costruito dai commediografi italiani e spagnoli tra cinque e seicento, nel periodo di prima formazione degli stati moderni, con le loro esigenze di controllo sia del territorio sia della popolazione, esso è assimilabile ad altri stereotipi di cui sono state e sono oggetto altre minoranze: gli ebrei che rubavano i bambini (cristiani) per nutrirsi del loro sangue, i mendicanti che li rubavano per mandarli ad elemosinare. Gli zingari sembrano condensare in sé tutte le caratteristiche di una minoranza designabile insieme come altro da sé e come capro espiatorio: sono (o meglio erano) nomadi, di una etnia diversa da quella prevalente nei luoghi in cui transitano o abitano; sono poveri e chiedono l’elemosina; hanno abitudini e comportamenti spesso molto diversi da quelli prevalenti. Lo stereotipo è talmente forte, per altro, che mentre si accetta senza battere ciglio che vivano in condizioni spesso spaventose (tanto sono “come animali”, “sub-umani”), purché i loro insediamenti siano a debita distanza da quelli dei “civilizzati”, si considera una pretesa fuori luogo che chiedano invece di poter vivere in condizioni civili. Così come si ignora che molti rom e sinti, non solo non sono più nomadi, ma sono insediati accanto a noi, in abitazioni simili alle nostre, mandano i figli a scuola, hanno, o vorrebbero avere, una occupazione regolare e non vorrebbero essere costretti a vergognarsi, a nascondere, di essere rom. Gli stereotipi condannano i rom alla propria diversità, alla immagine negativa che la accompagna e che li rende insieme vulnerabili e scarsamente legittimati a ricevere sostegno. Una diversità, per altro, oggi resa più complicata dal fatto che i campi rom sono sempre più affollati da migranti dei paesi dell’Est, non sempre rom essi stessi, che solo in questi luoghi spesso di estremo degrado trovano una qualche, per quanto fragile e rischiosa, accoglienza.

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