Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

20 giugno 2012

Duecentomila euro al giorno la spesa fuori controllo dei Cie
Il rapporto di "A buon diritto" denuncia la disumanità di una legge che prevede fino a 18 mesi di permanenza nelle strutture. Con bassa efficienza e alti costi. E alla fine solo il 47% dei trattenuti viene espulso
la Repubblica, 20-06-2012
VLADIMIRO POLCHI
ROMA - C'è una fabbrica in Italia che non funziona, ma brucia 200mila euro al giorno di soldi pubblici. È la "fabbrica dei clandestini", la rete dei Cie colabrodo. Alti costi, scarsi risultati. Qualche numero: dal '99 al 2011 per i centri d'espulsione si è speso un miliardo di euro. Un flusso costante di denaro pubblico che corre parallelo al flusso migratorio: se c'è un mercato che non sente la crisi, ma fiorisce nelle emergenze, è quello del contrasto all'immigrazione irregolare.
Ogni immigrato costa in media 45 euro al giorno, ma ogni centro è un'isola a sé: si va dai 75 euro di Modena, ai 34 di Bari. I risultati? Deludenti: nell'ultimo anno gli espulsi sono stati meno della metà dei trattenuti, record a Milano e Modena (con percentuali oltre il 60%), maglia nera a Brindisi (ferma al 25%). Insomma, in caso di spending review i Cie soccomberebbero nel calcolo costi-benefici.
LA RETE DEI CIE
A fotografare il pianeta immigrazione è un ampio rapporto ("Lampedusa non è un'isola") curato da Luigi Manconi e Stefano Anastasia per l'associazione "A buon diritto" col contributo di Open Society Foundations e Compagnia di San Paolo, che verrà presentato oggi pomeriggio al Senato in occasione della Giornata mondiale del rifugiato. Si scopre che gli ospiti dei Cie (88% maschi) sono per lo più tunisini (40%), marocchini (16%) e nigeriani (9%), ma soprattutto che ogni centro fa storia a sé in base alle buone o cattive pratiche degli enti gestori. Un esempio: nei Cie di Roma e Torino non esistono mediatori culturali, a Milano e Lamezia Terme ce n'è uno solo, mentre a Bologna e Modena il loro numero è sufficiente.
IL FLOP
Nel 2011 la permanenza media nei centri è stata di 43 giorni per immigrato: il prolungamento dei tempi di trattenimento (a 18 mesi) non sembra finora aver avuto effetto. Non mancano forti disparità: si va dagli 11 giorni di permanenza media a Bologna, agli 81 di Trapani Milo. Qual è l'efficienza dei centri? Bassa: oggi solo il 47% dei trattenuti viene espulso, che poi è lo scopo dei Cie (con un aumento del 6% in un anno, grazie all'accordo sui rimpatri con la Tunisia). Milano e Modena superano quota 60%, Brindisi si ferma al 25%. Ma è sui costi di gestione che quello dei centri si dimostra un sistema a macchia di leopardo.
 IL FIUME DI DENARO PUBBLICO
I centri costano tanto: 985,4 milioni di euro dal '99 al 2011. Con il governo Berlusconi la spesa è lievitata: il decreto legge 151/2008 e la legge 94/2009 hanno destinato ai Cie ben 239 milioni e 250mila euro. Ciascun immigrato trattenuto costa allo Stato 45 euro al giorno e, considerata la permanenza media nei centri, la spesa pro-capite è di 10mila euro. Ma le spese differiscono molto a seconda degli enti gestori dei centri: si va da un minimo di 24 euro al giorno per migrante nel Cara (centro per richiedenti asilo) di Foggia, ai 34 euro del Cie di Bari, fino ai 75 del Cie di Modena. Quest'anno però tutte le gare d'appalto si stanno facendo al ribasso. Nel 2012 per il Cie di Bologna la prefettura ha fissato un tetto massimo di 28 euro al giorno: "Sarà interessante capire  -  si legge nel rapporto  -  quali servizi verranno offerti a tale costo".
I BAMBINI FANTASMA
Dal rapporto emergono altri numeri allarmanti. Innanzitutto quello dei minori "fantasma". Stando alla testimonianza dell'avvocato Alessandra Ballerini "almeno 200 minori non accompagnati presenti a Lampedusa nel 2011 non sono stati identificati", né segnalati alle autorità competenti. Insomma ragazzini invisibili e senza tutele. Non solo. Crescono i casi di discriminazione razziale: 859 episodi nei primi undici mesi del 2011 a fronte dei 653 dello stesso periodo del 2010 (dati Unar). E poi le vittime: nel 2011 quasi sei persone al giorno (2.160 in totale) sono morte o risultano disperse nel tentativo di attraversare il Mediterraneo.



Baracche e lavori in nero l’odissea dei rifugiati in Italia
Quasi la metà di chi ottiene asilo non trova un lavoro neppure dopo anni
La sentenza tedesca che dà ragione a chi fugge: «In Italia non sono garantiti i diritti fondamentali»
l'Unità, 20-06-2012
Mariagrazia Gerina
L’ultimo atto d’accusa all’Italia è scritto nero su bianco in una sentenza emessa il 25 aprile dal tribunale di Darmstadt, in Germania. A corollario di una delle stante storie di rifugio precario che attraversano il belpaese. Storia di una donna somala, che, approdata in Germania non voleva essere rispedita in italia, il paese che per primo le aveva dato asilo. La giustizia tedesca, a cui si era rivolta, le ha dato ragione. L’Italia non garantisce ai richiedenti asilo i diritti fondamentali, hanno scritto i giudici tedeschi, motivando la loro decisione. «In considerazione del ricorso della richiedente asilo e delle informazioni conosciute riguardanti l’effettiva applicazione della protezione dei rifugiati in Italia, con particolare riferimento alla situazione umanitaria, economica e sanitaria, come anche la situazione abitativa dei richiedenti asilo si legge nella sentenza -, il tribunale deve concludere che l’Italia non rispetta i suoi obblighi del diritto internazionale che risultano dalla carta dell’Unione europea sui diritti fondamentali e dalla convenzione di Ginevra sui rifugiati». Sentenza definitiva, non appellabile.
«Una condanna molto generica, perché non mette a fuoco che ci sono luci e ombre, anche in altri paesi, inclusa la stessa Germania», replica Christofer Hein, Direttore del Consiglio italiano per i rifugiati. E tuttavia vera, nella sostanza. Come documenta proprio la fotografia appena scatta dal Cir insieme al Dipartimento di Scienze sociali della Sapienza. Una indagine condotta su 222 rifugiati italiani, per la maggior parte di età compresa tra i 21 e i 30 anni, che raccontano capitolo per capitolo la loro odissea italiana: costretti a vivere nelle baracche, a mendicare un lavoro, a inseguire la burocrazia nella speranza di una integrazione sempre più negata.
Il 44,6% degli intervistati, anche anni dopo il loro arrivo in Italia, non hanno neppure un lavoro. Forse per questo gli altri si sentono, comunque, fortunati e felici del lavoro che hanno. Anche se sono laureati che fanno i braccianti, specializzati con un diploma post lauream che lavorano come operai. Oppure badanti e addetti alle pulizie. Ti piace? Sì, hanno risposto nel 75,6% dei casi. «Mi permette di vivere». Anche se, oltretutto, il 22% di loro lavora in nero.
«Ti devi svegliare presto a volte prima delle 4 del mattino... vai in questi posti a cercare lavoro, noi li chiamiamo kaliffo ground (kaliffo significa schiavo a giornata ndr), li conoscono tutti... vai e aspetti. Poi qualcuno viene e ti chiede “lavoro?”, e tu “sì”. Non lo conosci, non sai dove ti porterà: lo segui e basta, non chiedi niente. Lavori 8,10 ore e magari ti danno 20 euro», racconta agli intervistatori un rifugiato, che vive a Caserta. Una delle 7 città prese a campione per raccontare l’Italia vista dai rifugiati: Torino, Bologna, Roma, Lecce, Badolato, Catania.
«Sì, non c’è la guerra, però qui per me è come la guerra adesso», racconta Anele, giovane somala approdata a Lampedusa in fuga dalla Libia di Gheddafi. «Credevo sarebbe cambiata la mia vita, che avrei trovato lavoro e mi sarei trovata bene», spiega: «Invece non c’è niente».
Neppure la casa: la metà alla domanda «sei soddisfatto della tua situazione abitativa?» dice “no” o preferisce non rispondere. Vivono in baracche, in case sporche, sovraffollate. Solo il 31,1% è passato per un Centro per richiedenti asilo. E solo il 26% è passato attraverso la rete dello Sprar, il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, che pure, su 3mila posti disponibili nel 2011 ha dato accoglienza a 7500 richiedenti asilo e rifugiati, come spiega, Daniela Di Capua, direttrice dell’ufficio di coordinamento.
Ottimisticamente l’indagine condotta dal Cir insieme all’università La Sapienza di Roma si intitola «Le strade dell’integrazione». Eppure in Italia «non esiste neppure un programma nazionale per l’integrazione», scandisce il direttore del Cir. Basta guardare cosa raccontano i rifugiati dei corsi di italiano. Neppure quelli funzionano. «Occorrerebbe fare una spending review anche in questo settore», suggerisce Hein. Obiettivo: creare con le stesse risorse del fondo nazionale per l’asilo, un fondo specifico per l’integrazione. La parola, che pure ora ha un ministero dedicato osservano al Cir -, non trova ancora spazio nella normativa italiana sull’asilo. Infondo si capisce se come racconta lo stesso Hein il committente, ovvero il ministero dell’Interno, che ha finanziato la ricerca, non ne abbia gradito i risultati.



La Caritas: «Non rimandare all’inferno chi chiede asilo»
?Avvenire, 20-06-2012
Paolo Lambruschi
Il futuro delle 20 mila persone ancora in attesa di riconoscimento di uno status giuridico un anno dopo l’emergenza Nordafrica. E ancora, la creazione di un sistema di accoglienza sostenibile e chiarezza da parte del governo sui rifugiati in merito all’accordo con la Libia siglato il 3 aprile scorso dal ministro dell’Interno Cancellieri con il suo omologo libico. Sono i temi chiave sui quali Oliviero Forti, responsabile dell’ufficio immigrazione della Caritas italiana, interverrà stamane a Roma alla Casa del cinema alla celebrazione della giornata mondiale del rifugiato organizzata dall’Alto commissariato Onu. Forti rappresenterà il Tavolo asilo, il cartello della società civile che aiuta i migranti. Il governo sarà rappresentato dal ministro della Cooperazione Andrea Riccardi.
Qual è il quadro della situazione dei richiedenti asilo a più di un anno dallo scoppio dell’emergenza  Nordafica?
Per quanto riguarda le domande di asilo, nel 2011 sono state presentate poco più di 34 mila domande. Un incremento, rispetto agli anni precedenti, determinato dagli effetti della Primavera araba e della guerra in Libia.
Ma non uno tsunami umano...
No, si tratta di un numero che l’Italia può accogliere e integrare nonostante la crisi. Di questi, 20 mila sono attualmente ospitati nelle strutture convenzionate con la Protezione civile, tra cui quelle diocesane. Sono in attesa di risposta alla richiesta di asilo oppure hanno ricevuto un diniego dalle commissioni territoriali e hanno presentato ricorso. Abbiamo purtroppo anche le prime sentenze dei tribunali che respingono definitivamente i ricorsi. Siamo molto preoccupati perché provenendo da paesi dell’area subsahariana, sono lavoratori che si trovavano in Libia e che sono fuggiti dalla guerra, ma non hanno diritto allo status di rifugiato.
Cosa può accadere loro?
Che finiscano nell’irregolarità. Siamo contrari ai rimpatri forzati, ovviamente, e i dati provano che i rimpatri volontari hanno poca incidenza. L’anno scorso venne varato il pacchetto che prevedeva un biglietto aereo di rimpatrio e 200 euro di bonus, ma alla fine solo 70 persone sono effettivamente rientrate.
Per quale ragione?
Il progetto di chi migra, affrontando viaggi pericolosi anche in mare è lavorare per garantire un futuro alla propria famiglia, per far studiare e garantire cure ai figli. Chi invece è fuggito da persecuzioni e guerre con la famiglia, è stato così profondamente segnato dalle esperienze traumatiche vissute e ha bisogno di aiuto. Come ha ricordato il Santo Padre, è un diritto dell’uomo avere una famiglia, compito degli Stati è consentire i ricongiungimenti ai rifugiati.
Cosa chiedono il tavolo asilo e la Caritas italiana?
Un permesso umanitario per questi 20 mila fuggiti dalla Libia che ne consenta l’inserimento in Italia e in Europa.
Ma è compatibile con la crisi?
La vicenda dei tunisini è esemplare. Chi ha avuto il permesso umanitario si è inserito sul territorio nonostante la crisi oppure è andato in altri Paesi o è rimpatriato. Una situazione che si può replicare con i "libici" e che ci consentirebbe informalmente di condividere l’aiuto con altri partner europei.
Quali sono le prospettive del sistema di accoglienza?
Va cambiato in un sistema sostenibile. Le convenzioni con la Protezione civile scadono il 31 dicembre, dopo di che moriranno anche esperienze di accoglienza positive. Noi chiediamo un progetto oltre l’emergenza per incidere anche sull’integrazione di rifugiati con permesso che spesso nelle città non vengono accompagnati e finiscono a occupare strutture fatiscenti.
E cosa direte sull’accordo italo-libico il cui verbale è stato pubblicato dalla «Stampa»?
Anzitutto che avremmo preferito conoscere i contenuti, peraltro generici, direttamente e non in modo rocambolesco. Non credo che il governo voglia consentire i respingimenti in mare, per i quali siamo stati condannati dalla Corte di Strasburgo. Però l’accordo non fa cenno al fatto che in Libia arrivano anche rifugiati e che questo paese, che non ha siglato la Convenzione di Ginevra, deve trattarli adeguatamente. Su questo chiediamo chiarezza.



Respingimenti, accordi Italia-Libia identici a quando c'era Berlusconi
Un testo sottoscritto il 3 aprile scorso dal Ministro Cancellieri con il suo omologo libico Fawzi Al Taher Abdulali, di cui Amnesty International 1 e Repubblica.it 2 avevano chiesto i contenuti. Un testo che ricalca in molti punti le vecchie intese con Gheddafi dall'ex premier italiano, condannati a febbraio dalla Corte dei diritti umani di Strasburgo
la Repubblica, 20-06-2012
LIVIA ERMINI
ROMA - Ricominciare da Gheddafi. Nessuna discontinuità con il precedente governo nella politica di lotta all'immigrazione clandestina dell'esecutivo Monti. Sembra questo il senso dell'accordo sottoscritto lo scorso 3 aprile dal Ministro Cancellieri con il Ministro dell'Interno Libico Fawzi Al Taher Abdulali, di cui le organizzazioni per i diritti umani, assieme a Repubblica.it 3, avevano ripetutamente chiesto i contenuti. Un testo che ricalca in molti punti le vecchie intese sottoscritte con il dittatore da Berlusconi, in particolare quella sui respingimenti in mare, che erano stati condannati a febbraio dalla Corte dei diritti umani di Strasburgo.  
Accordi legalmente inapplicabili. "Adoperarsi alla programmazione di attività in mare negli ambiti di rispettiva competenza, nonché in acque internazionali, secondo quanto previsto dagli accordi bilaterali in materia e in conformità al diritto marittimo internazionale", si legge alla voce Monitoraggio dei Confini. Voce ampiamente contestata da Amnesty International 4, per la quale non solo "Non è chiaro quali siano gli accordi bilaterali in materia, citati nel testo", ma "nella situazione attuale è da escludere che possano applicarsi in conformità con le norme internazionali sui diritti umani".
I rischi di gravi violazioni. Secondo l'Organizzazione, infatti, con la Libia di oggi, un paese nel quale lo stato di diritto è assente, in cui i cittadini stranieri languono in carcere alla mercé delle milizie che dirigono i centri di detenzione, sottoposti a maltrattamenti, sfruttamento e a lavoro forzato, un accordo sul contrasto dell'immigrazione illegale comporta rischi di gravi violazioni dei diritti umani. Il documento - processo verbale della riunione delle due delegazioni - parla inoltre di "Programma di addestramento da parte dei nostri funzionari in favore di ufficiali di Polizia libici in vari settori della sicurezza tra cui tecniche di controllo della polizia di frontiera (confini terrestri e aeroporti)" e della costituzione di un "centro di individuazione di falso documentale" e un "centro di addestramento nautico" presso la nostra ambasciata di Tripoli. L'Italia si impegna inoltre a fornire mezzi tecnici e attrezzature al governo libico.
Il punto che preoccupa di più. Quello che preoccupa maggiormente però è il punto che parla della costruzione di un "centro sanitario a Kufra, per garantire i servizi sanitari di primo soccorso a favore dell'immigrazione illegale". La cittadina a sud della Libia è infatti uno dei principali varchi a cui approdano i flussi di migranti e profughi provenienti da Egitto, il Sudan, il Ciad e diretti verso il miraggio europeo. Secondo Amnesty, "Kufra non è mai stato un centro sanitario, né tantomeno un centro di accoglienza, ma un centro di detenzione durissimo e disumano. I cosiddetti centri di accoglienza di cui si sollecita il ripristino, chiedendo collaborazione alla Commissione europea hanno a loro volta funzionato come centri di detenzione, veri e propri luoghi di tortura. Ciò, nella situazione attuale, significa che l'Italia offre collaborazione a mettere a rischio la vita delle persone che si trovano in Libia".
Nessuna distinzione fra migrante e rifugiato. Il paese nord africano infatti non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra del '51 sullo status di rifugiato politico e non facendo distinzione tra richiedente asilo e migrante, nonostante tra coloro che approdano sul suo territorio ci siano persone che fuggono da conflitti e persecuzioni, come eritrei, etiopi e somali. Nulla è cambiato dunque rispetto al pre-rivoluzione del 17 febbraio? Archiviata la guerra, i nostri rapporti con l'ex colonia sembrano non aver cambiato passo, nonostante il Paese non abbia ancora né un Parlamento regolarmente eletto né una costituzione che dovrebbe uscire dalle elezioni del prossimo 7 luglio. Intanto, il deputato del Pd Jean-Leonard Touadi ha chiesto al Ministro Cancellieri di riferire in Parlamento i termini dell'accordo fino ad oggi rimasto blindato.



L’accoglienza è un diritto
l'Unità, 20-06-20121
Filippo Miraglia, Responsabile immigrazione Arci
I DATI DELL’UNHCR SUI RIFUGIATI NEL MONDO CONFERMANO UNA REALTÀ diversa da quella spesso rappresentata. La maggior parte di chi fugge da guerre o persecuzioni trova protezione nei Paesi limitrofi che quasi sempre hanno grosse difficoltà ad assicurare l’essenziale anche ai propri cittadini. Ciò smentisce l’idea di un Occidente invaso da profughi. Un anno fa, di primavera araba si parlava in Italia per l’arrivo di tanti tunisini e di migliaia di libici. Il governo di allora urlò all’invasione, mentre l’Europa ci avrebbe lasciati soli. Al ministro Maroni fu fatto notare che altri Paesi dell’Ue avevano accolto numeri ben più alti. E infatti tra i primi 10 Paesi che a livello mondiale ospitano rifugiati non c’è l’Italia, che con i suoi 58 mila è ben lontana dagli altri.
I 34 mila richiedenti asilo del 2011 sono stati in gran parte distribuiti nella rete d’accoglienza predisposta dalle Regioni e gestita dalla Protezione Civile. In base alle segnalazioni al numero verde dell’Arci oltre la metà sono stati affidati a strutture inadeguate. I profughi ospitati dalla «rete» sono stati indirizzati, i molti casi con forzature, verso la richiesta d’asilo e ora fioccano i dinieghi. Il governo tecnico non sembra voler risolvere i guai del governo Berlusconi, nè sui permessi di soggiorno nè sull’accoglienza. Le oltre 800 convenzioni firmate per aprire altrettanti centri sono senza copertura finanziaria. Aggiungete il nuovo accordo con la Libia, in preoccupante continuità con il precedente governo, ed è evidente che questo 20 giugno si celebra in un contesto per nulla positivo. L’Arci si mobilita in tante città, per ribadire l’urgenza di un cambio in tema di diritto d’asilo. Negare i diritti all’accoglienza, in particolare a chi chiede protezione, equivale a negare i valori fondamentali della nostra democrazia. Il 20 giugno serve a ricordarci questo.



Traffico di esseri umani, allarme Ue
Avvenire, 20-06-2012
Vincenzo R. Spagnolo
«In Romania avevo un bambino e un lavoro in un ristorante. Ciò che guadagnavo, ci bastava. Ma la mia matrigna e altre persone, minacciando mio figlio, mi hanno costretto a spostarmi in Belgio e a diventare una prostituta. Ogni venerdì dovevo inviare loro i miei ricavi. Ero disperata e disgustata da ciò che facevo, ma non sapevo come uscirne».
Teodora ha 35 anni ed è una vittima della tratta delle schiave. La salvezza la deve al proprio coraggio: ha denunciato i suoi aguzzini, contribuendo all’arresto dei capi della rete in Romania. Grazie alla collaborazione con poliziotti e magistrati, ha riconquistato la libertà e qualcosa a cui teneva anche di più: la custodia del suo bambino. «Se ce l’ho fatta, è stato solo per lui, ma le cicatrici di ciò che ho subito mi resteranno addosso per la vita». La sua storia angosciante è solo una delle migliaia contenute nei rapporti giudiziari europei sulla tratta di esseri umani, alcuni anche giovanissimi.
Dai dossier dell’Europol affiora inoltre uno degli allarmi più inquietanti: in alcuni Paesi, i minori costretti a compiere «attività criminali, come l’accattonaggio organizzato, vengono acquistati come merci per 20mila euro, coi cartellini del prezzo (price tags) addosso». Bambini, raccontano gli investigatori, sottratti alle famiglie o alla strada nelle periferie dell’Est Europa e poi messi all’asta come oggetti in veri e propri mercati degli schiavi, dove gli acquirenti criminali si sfregano le mani pregustando quanto incasseranno schiavizzandoli in Italia, Francia, Spagna, Regno Unito e altre nazioni come baby mendicanti o ladruncoli, dopo un rapido e brutale addestramento.
Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, nel mondo sono 20,9 milioni (5,5 milioni i minori) le vittime accertate di lavoro forzato, compreso lo sfruttamento sessuale. Nelle sole economie sviluppate (Stati Uniti, Canada, Australia, Giappone, Norvegia e Paesi Ue) il numero è di 1,5 milioni, il 7% del totale. Ogni anno, aggiunge la Commissione europea, la tratta di esseri umani frutta alle organizzazioni criminali internazionali profitti superiori a 25 miliardi di euro. Molte vittime provengono da Paesi terzi, ma anche la tratta interna alla Ue è in crescita: «Centinaia di migliaia di persone sono oggetto di tratta ogni anno: donne e uomini, ragazzi e ragazze in situazioni vulnerabili sono vittime di sfruttamento sessuale o per lavoro, espianto di organi, accattonaggio forzato, servitù domestica, matrimoni obbligati, adozioni illegali e altre schiavitù». Tre quarti delle vittime individuate subiscono sfruttamento sessuale (il 76% nel 2010), altre sono costrette allo sfruttamento da lavoro (il 14%), all’accattonaggio (il 3%) e alla servitù domestica (l’1%)».
I due paesi Ue da cui proviene la maggioranza relativa delle vittime, spiega a Avvenire il commissario agli affari interni della Ue, Cecilia Malmström, «sono la Romania e la Bulgaria, quelli extraeuropei Nigeria e Cina. E le vittime predilette dai trafficanti sono donne, il 79% tra il 2008 e il 2010, il 12% di giovane età». Ma il vero problema, denuncia la Malmström, è che «sono troppo pochi i trafficanti condannati». I dati mostrano infatti come il numero di condanne sia «diminuito da 1.500 nel 2008 a circa 1.250 nel 2010». Per correre ai ripari, ieri la Commissione ha adottato «la Strategia dell’Ue per l’eradicazione della tratta di esseri umani (2012-2016)», un pacchetto di misure concrete da attuare nei prossimi 5 anni, fra cui «l’istituzione di unità nazionali di contrasto specializzate nella tratta di esseri umani, la creazione di squadre investigative comuni e il coinvolgimento di Europol ed Eurojust in tutti i casi di tratta transfrontaliera». E, ancora, l’introduzione di una «Coalizione europea delle imprese» e di un «meccanismo dell’Ue per individuare, proteggere e assistere meglio le vittime».
La strategia verrà ora discussa dal Parlamento e dal Consiglio d’Europa. Intanto, nell’aprile 2013, dunque fra meno di un anno, scadrà il termine per il recepimento nei singoli Stati della direttiva europea anti tratta, la 36 del 2011. «Disgraziatamente la schiavitù non è stata ancora confinata ai libri di storia. È spaventoso vedere come ancor oggi gli esseri umani, e soprattutto i bambini, siano messi in vendita e costretti al lavoro forzato o alla prostituzione - conclude il commissario Malmström -. Lo scopo della nostra iniziativa è fare in modo che le vittime ottengano sostegno e che i trafficanti siano finalmente consegnati alla giustizia».?



Affonda barca di immigrati Strage nel canale di Otranto
Un immigrato soccorso dopo il naufragio di un'imbarcazione nel canale di Otranto
Quattro salvati, sette i dispersi
La Stampa, 20-06-2012
otranto -La temperatura dell’acqua è calda e il mare piatto fa ancora un po' sperare di poter trovare superstiti al largo del Capo di Leuca dove stamani, intorno alle 6, a cinque miglia dalla costa, si è consumata l’ennesima tragedia: un barchino di cinque-sei metri in vetroresina, alimentato da un piccolo motore, un guscio di noce, si è inabissato, facendo cadere in acqua gli 11 immigrati che erano a bordo.
L’ennesimo viaggio della speranza finito nel modo più drammatico. Quattro persone - due hanno detto di essere libici, uno ha dichiarato di essere afghano e un altro ha detto di essere tunisino - sono state tratte in salvo e condotte prima nell’ospedale di Tricase (Lecce) per accertamenti e poi nel Centro di prima accoglienza ’Don Tonino Bellò di Otranto (Lecce). Le loro condizioni di salute sono discrete. Per gli altri, le ricerche non si sono mai interrotte e, se le condizioni meteo-marine lo consentiranno, proseguiranno anche durante la notte. Uno dei migranti tratti in salvo, in lingua francese, ha raccontato che la barca, presumibilmente salpata dalle coste greche, quando era a circa cinque miglia da Santa Maria di Leuca ha cominciato ad imbarcare acqua ed è affondata.
A dare l’allarme, intorno alle 6.30, è stata una nave in transito che ha segnalato la presenza di tre persone in mare. È quindi stata allertata la Guardia Costiera che ha inviato una motovedetta il cui equipaggio è riuscito a recuperare uno dei migranti che erano in mare, mentre gli altri tre, nel frattempo, erano stati recuperati da alcuni diportisti. Alle ricerche dei sette dispersi - coordinate dalla Guardia costiera - partecipano motovedette delle Capitanerie, della Guardia di finanza, elicotteri delle fiamme gialle e della Guardia costiera e mezzi aerei della Marina militare. Lo scafo naufragato è stato localizzato: la prua emerge mentre il resto dell’imbarcazione è sommerso dall’acqua. «È una notizia - ha detto il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola - che suscita rabbia e dolore. Credo che sia venuto il tempo di avviare una riflessione profonda su un tema che segnerà il futuro della storia umana». Perchè, secondo il governatore della Puglia, «non si può immaginare di governare i flussi migratori e la loro dimensione crescente con lo sguardo rivolto verso la repressione, come se si trattasse di un gigantesco problema di ordine pubblico». «Una tragedia - aggiunge l’assessore regionale alle Politiche di inclusione dei migranti, Nicola Fratoianni - che mette ancora in luce la Puglia come terra di accoglienza dei flussi di migranti da ogni parte del mondo».
Un dramma, quindi, per la Puglia che torna tragicamente di attualità. E il presidente del Consiglio regionale pugliese, Onofrio Introna, esprimendo il cordoglio dell’assemblea regionale, è perentorio. «Dimenticando - dice - l’esodo dei profughi tunisini del 2011 e le scene di Manduria, l’Europa ha ignorato un segnale di allarme che ora si ripropone in tutta la sua dolorosa evidenza«. Una linea, questa, che indica in maniera chiara anche il presidente della Commissione Diritti Umani del Senato, Pietro Marcenaro, intervenendo su quanto accaduto nel Canale d’Otranto: »È arrivato il momento - dice - di accelerare le iniziative e i negoziati dell’Europa e dell’Italia per permettere all’Unhcr di aprire, nei paesi di partenza dei migranti, dei centri nei quali sia possibile presentare domanda di asilo e di protezione umanitaria, rendendo possibili viaggi regolari e sicuri«. Domani è la giornata mondiale del rifugiato: un giorno particolare, quindi, e la Commissione Diritti Umani del Senato chiede che il governo italiano si faccia promotore subito di un incontro con i nostri partner dell’Unione Europea per affrontare subito il problema, prima che ci siano altri morti da contare.



Otranto, arrestato lo scafista superstite l'unico con il giubbotto salvagente
Era scampato alla tragedia, fingendosi uno dei disperati in fuga che traghettava in Italia. In mare, continuano le ricerche dei sei dispersi che erano a bordo dell'imbarcazione affondata ieri a sei miglia dalla costa
la Repubblica. 20-06-2012
CHIARA SPAGNOLO
È stato arrestato uno dei presunti scafisti che all’alba di ieri hanno causato l’affondamento di un motoscafo carico di clandestini, a sei miglia dalla costa tra Santa Maria di Leuca e Torre Vado. L’uomo, un tunisino salvato ieri mattina insieme ad altre tre persone,  è stato individuato nel corso della notte, nell’ambito delle indagini sulla tragedia che potrebbe essere costata la vita a sei o sette persone. Sui numeri, al momento, non ci sono certezze assolute. Di sicuro c’è che quattro sono i sopravvissuti, tra cui appunto il presunto scafista, ripescati in mare da un peschereccio e dalla guardia costiera, mentre sei dovrebbero essere i dispersi, le cui ricerche sono proseguite per tutta la notte, tramite un imponente dispositivo interforze coordinato dalla Direzione marittima di Bari e di cui fanno parte i mezzi e gli uomini della guardia di finanza, della polizia e della marina militare.
Il numero delle persone da ricercare è stato ricostruito dalle testimonianze dei superstiti che, tuttavia, non risultano concordi, dal momento che tre uomini parlano di sei compagni caduti in mare e uno di sette. Le dichiarazioni dei quattro immigrati (due libici, un tunisino e un afghano) del resto, sono ricche di contraddizioni
e parole non dette. Il sostituto procuratore di Lecce Elsa Valeria Mignone, a cui è affidato il coordinamento delle indagini, ieri li ha ascoltati fino a sera, cercando di mettere insieme i tasselli per ricostruire il viaggio della speranza e le fasi concitate del naufragio. All’esito degli interrogatori, gli inquirenti hanno ritenuto di avere prove a sufficienza per far scattare le manette ai polsi del tunisino, che, quando è stato ripescato in mare dai soccorritori, era l’unico a indossare il giubbotto salvagente.
Non è ancora chiaro da dove sia partito il motoscafo che ha imbarcato acqua fino ad affondare, che sulla fiancata ha la scritta Marta in caratteri greci, ma l’ipotesi più probabile – stando alle dichiarazioni smozzicate dei sopravvissuti – è che abbia iniziato il suo viaggio proprio in Grecia.Proseguono, intanto, le ricerche dei dispersi o, come è più probabile a questo punto, dei loro corpi. Le forze dell’ordine stamattina hanno spostato il loro raggio d’azione verso le Secche di Ugento, avendo calcolato che la corrente di ieri potrebbe avere spinto verso quella parte le persone rimaste in mare.



Provincia di Roma
I Giovani Democratici e la campagna per lo «ius soli»
l'Unità, 20-06-2012
Anticipare il legislatore in materia di cittadinanza. E? questo lo scopo dell’iniziativa dei Giovani Democratici della Provincia di Roma, per stimolare le amministrazione comunali ad approvare una mozione per il conferimento della cittadinanza onoraria ai bambini nati in Italia da genitori stranieri. I Giovani Democratici hanno gia? aderito alla campagna “L’Italia sono anch’io” e la relativa proposta di legge e? stata inserita nel calendario dei lavori della Camera per giugno. A precorrere i tempi sono stati gia? diversi comuni e province d’Italia con il beneplacito del Presidente della Repubblica.

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Ospiteremo qui, ogni settimana, casi, vertenze, questioni ancora aperte o che hanno trovato una soluzione. Chiunque volesse porre quesiti su singole situazioni o tematiche generali, relative alle norme e alle politiche in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza nonché all'accesso al sistema di welfare locale da parte di stranieri, può farlo scrivendo a: immigrazione@arci.it o telefonando al numero verde 800905570
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