La democrazia e il terrorismo xenofobo

 

Luigi Manconi
Che ci piaccia o no, e non ci piace affatto, gli psicopatici esistono. Ed esistono zone del cervello umano e della vita sociale dove è arduo penetrare e indagare, dove le spiegazioni razionali incespicano e le interpretazioni scientifiche arrancano. Dobbiamo riconoscerlo e dobbiamo accettare questa inaccettabile condizione. 
A distanza di quattro giorni dalla strage dell’isola di Utoya, è forse possibile fare un primo e parzialissimo bilancio delle tragiche lezioni che quella vicenda ci consegna. E la prima è la più desolante. La forza delle strutture democratiche e i relativi sistemi di difesa – e l’onnipotenza delle tecnologie - nulla possono contro l’irrazionale quando si manifesta come patologia aggressiva. Possono contenerne gli effetti e ridurne i danni, non possono prevenirne gli atti e impedirne l’esplosione.  Ciò non deve indurci alla resa, tutt’altro, ma deve renderci consapevoli che i regimi democratici, e proprio perché democratici, sono massimamente vulnerabili. Nessuna legislazione speciale e nessuno stato d’eccezione possono garantirci  in assoluto dall’imprevisto e dall’insondabile di un nemico interno, tanto più insidioso perché può mimetizzarsi nel flusso della vita di relazione e nelle pieghe della “società aperta”, com’è proprio – appunto - dei sistemi democratici. E sono questi sistemi che, per loro stessa natura, incubano e producono periodicamente una quota di violenza criminale, variabile a seconda delle fasi storiche e dei cicli economici ma permanente; e le crisi sociali possono rappresentare un fattore di precipitazione. È allora che irrompono, nelle società sviluppate dell’Occidente, le molte manifestazioni dei “ribelli senza causa” e della “ultraviolenza” di Arancia meccanica. Ma qui il discorso deve allargarsi. E infatti, se i due elementi prima citati (la psicopatologia individuale e la violenza “insensata”) sono in qualche misura inevitabili e incontrollabili, è il contesto che può e deve essere sottoposto a controllo e governato. E, di quel contesto, sono i “fattori di agevolazione” – che assecondano e incentivano l’esplosione dell’aggressività – che vanno in primo luogo messi sotto osservazione. Tra quei fattori, oggi, nell’Europa prostrata dalla crisi economica e dallo smarrimento culturale, è l’ideologia a svolgere ancora un ruolo preminente. Il bagaglio di idee coltivato da Anders Behring Breivik, è stato indagato minuziosamente in queste ore: appare come il deposito polveroso di un rigattiere folle che accumula reperti e ciarpame di tutte le tradizioni più regressive e di tutte le reazioni più torbide (compresa quella comunista-capitalistica di Vladimir Putin), in un coacervo sgangherato e paranoide. E tuttavia emerge un tratto dominante, ed è la coppia identità/invasione. Insomma, ancora l’idea di una purezza originaria del ceppo europeo, insidiata da un nemico esterno (l’Islam, sia pure contraddittoriamente) con la complicità dei “marxisti culturali”. Ovvero, sembra di capire, i teorici del multiculturalismo. Qui è necessario molto rigore. La libertà di opinione (anche di quella più abietta) non può essere conculcata: e sarebbe sciocco, prima ancora che politicamente sbagliato, associare atti di terrorismo, come questa orribile strage, a movimenti reazionari legali e a partiti ostili all’immigrazione, oggi presenti in tanti paesi europei. Dunque, nessuna frettolosa accusa di collusione o di favoreggiamento ideologico, se non documentalmente provata. Ma detto questo, e detto anche che Mario Borghezio, Marine Le Pen e il Partito del Progresso norvegese hanno piena legittimità in un sistema democratico, fino a che rimangano nell’ambito della legalità, il discorso non si esaurisce. La xenofobia è, alla lettera, la paura dello straniero: sentimento radicato nell’antropologia umana, che si manifesta come inquietudine e insicurezza. Può essere affrontata con argomenti razionali e amministrata con strategie intelligenti che la disinneschino e la neutralizzino. Ma quando un agitatore o un partito ne fanno risorsa politica e mezzo di acquisizione del consenso, quando si attivano gli imprenditori politici dell’intolleranza, lì si sta scherzando col fuoco. Quando le parole dell’ansia collettiva vengono trasferite  nella sfera pubblico-istituzionale, fino a diventare programma politico, tutto può accadere. Anche che uno psicopatico frustrato arrivi a immaginarsi come l’eroico soldato di una guerra santa contro l’invasione dell’Europa.
 
il Messaggero 26 luglio 2011
 
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