Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

Ecco cosa ho visto nelle gabbie di Ponte Galeria


Furio Colombo
Si apre un immenso cancello scorrevole e al di là c’è un soldato che verifica e trattiene i documenti.
Noi siamo deputati (Ferrante e io del Pd) o politici (l’iniziativa è del giovane segretario del Partito Radicale, Mario Staderini e di Rita Bernardini) e questo determina una curiosa estraneità, come una differenza di mondi. Passano veicoli militari nella striscia d’asfalto che separa il grande cancello dagli edifici del luogo in cui stiamo per entrare e che - da fuori e da lontano - sono lastroni di cemento senza aperture.

Avete visto il film "2012" sull’imminente fine del mondo, e il senso di condanna che incombe su strutture poderose e inutili? L’atmosfera è quella, minacciosa e allo stesso tempo non vera, come una cupa scena di Hollywood. Qui, alle porte di Roma, a Ponte Galeria, un contenitore di cemento e metallo grande e sigillato è stato preparato per chi viene catturato in un gioco perverso: il gioco dei clandestini. Gente che vive e lavora in Italia dopo essere sfuggita alla morte di guerra e alla traversata del mare, viene fermata, mentre porta i bambini a scuola o ha commesso l’imprudenza di andare in un ospedale, viene "catturata" mentre va o viene dal lavoro.

E - come in quei Paesi estranei alla democrazia - i catturati sono portati qui, nelle gabbie grandi all’aperto e in piccole stanze gelide con dodici o quindici letti sul fondo delle gabbie. In quelle stanze i catturati - che non sanno perché e per quanto saranno qui cercano di dormire, indossando tutti gli indumenti che possiedono, per non sapere la vita che stanno vivendo. Come sempre succede in questa Italia, non ci sono soldi, non ci sono Enti responsabili, non ci sono cure.

Qui un essere umano costa alla Repubblica Italiana 47 euro al giorno, quasi solo per piatti precotti con giorni di anticipo e che tutti uomini e donne, ucraini e africani, descrivono come immangiabili, un bel vantaggio per chi - Dio sa con quali regole - ha vinto l’appalto. La nostra visita non porta pace. I detenuti ci parlano con affanno e si capisce subito che non incontrano mai nessuno, che il giudice di pace, quando viene qui, non può che certificare che "mancano i documenti", "gli avvocati d’ufficio" scompaiono subito, dopo la prima formalità di finto processo.

I poliziotti, cercano di essere d’aiuto agli strani visitatori. Capisci al volo che sono precisi in quello che fanno, ma sono come l’equipaggio volenteroso di un’astronave sperduta. Il loro vero lavoro è fuori, per le strade a proteggere i cittadini. Quelli che incontriamo hanno l’aria di saperlo fare. Trasformati all’improvviso in secondini (insieme ai soldati che abbiamo visto all’esterno e che, quando sono in missione nel mondo, proteggono la stessa gente che qui è rinchiusa nelle gabbia) sembrano anch’essi sul punto di chiedere "perché siamo qui, che cosa è successo"? Invece correttamente ti spiegano tutti i passaggi della procedura arbitraria e assurda che porta qui, in detenzione e poi all’espulsione, lavoratori che erano in Italia da anni e che hanno famiglie italiane che li aspettavano, giovani madri che l’arresto ha separato di colpo da bambini piccoli, badanti sorprese un passo lontano dall’assistito e prive di "quel documento" (il permesso di soggiorno).

I poliziotti ripetono, per chiarire, "così vuole la legge", come per separare la loro vita di uomini e donne normali da questa vicenda che farebbe venire il cuore in gola in un film. Il visitatore "politico" come me, come Ferrante, come deputati e dirigenti dei radicali italiani che hanno organizzato questo giorno di civiltà sanno già che molti, detenuti qui, non hanno mai commesso alcun reato e stavano lavorando in Italia. Qui ci sono anche persone, portate nelle gabbie dopo aver scontato anni nelle prigioni italiane. Sono i primi a dirtelo. Qui nessuno pensa di farti pena, nessuno implora, anche se il parlare delle madri che non sanno dove sono e con chi sono i bambini è concitato, nervoso.

L’emozione è difficile da controllare, anche se l’uomo che hanno portato via mentre tornava a casa dopo il lavoro per cenare con moglie e figli e raccontare la giornata e sentire le storie di casa, non può far finta di non piangere. Ma coloro che hanno scontato condanne te lo dicono. Ti dicono il reato. Ti dicono il luogo e il tempo. E ti raccontano il momento imprevisto e terribile. Famiglia e amici li aspettavano fuori insieme ai parenti degli altri scarcerati per fine pena. Ma loro non sono mai usciti. Li ha prelevati una polizia di frontiera che non avrebbe giurisdizione su territorio italiano.

E li ha portati qui, all’insaputa di tutti, senza avvocato, senza difesa, senza spiegazioni, senza diritti. A carico e a danno degli ex detenuti si verifica il fatto giuridicamente più illegale e umanamente più umiliante. Queste persone hanno subito un processo, spesso anche di appello, hanno scontato la pena. Il che vuol dire che la Repubblica Italiana sa chi sono, lo sanno la Polizia e i tribunali, c’è scritto nella sentenza e in prigione. Ma questo, Ponte Galeria, con i gabbioni all’aperto per muoversi, e le stanze gelide per dormire, è un "Centro di Identificazione ed Espulsione": dunque bisogna identificare, il resto non conta.

Dunque i detenuti aspettano nel vuoto del tempo e nello squallore del posto, dove nessuno ti difende, nessuno ti ascolta, nessuno ti cura. Ho già detto- e vorrei ripeterlo- che due medici della Croce Rossa (uno nero, uno bianco, il dottor Amos Dawodu è il responsabile) provvedono da soli e senza mezzi, come nell’avamposto assediato di una guerra. Infatti le Asl del Lazio di questi malati non ne vogliono sapere.

E non ci sono nomi o numeri di telefono per cercare l’aiuto di un avvocato. Ho già detto - e devo ripeterlo - che l’80%, di donne e uomini portati nelle gabbie, di Ponte Galeria non ha commesso alcun reato, non è accusato di nulla. Resta ti dicono ma rimangono detenuti in queste gabbie e in queste stanze tra 12 o 15 letti finché i poliziotti, che non dispongono di mezzi o connessioni internazionali, li avranno identificati.

Il momento più temuto sono due agenti che ti affiancano e ti portano all’aeroporto in qualunque momento per farti salire insieme a loro su un aereo diretto in un luogo che il più delle volte i deportati non conoscono perché tutto ciò che hanno, dai figli al lavoro, è in Italia. Una legge detta "il pacchetto sicurezza", che tratta tutti gli immigrati come criminali, li deporta fuori dal Paese che hanno arricchito con il loro lavoro (uso l’argomento dell’economista conservatore Milton Friedman), fuori dalla Costituzione Italiana, fuori dal corpo giuridico dei Paesi civili, lontano da ogni riferimento alla Carta dei Diritti dell’Uomo.

Perché tanti italiani tacciono? Il cardinale Tettamanzi, ha certo voluto dire che non lui bisogna difendere ma gli immigrati, le loro famiglie, le madri portate nelle gabbie di Ponte Galeria centinaia di chilometri lontani dai loro bambini, l’operaio che stava tornando dal lavoro nel solo Paese che conosce, mentre stava tornando dalla sola famiglia che ha e adesso gli spetta un volo a caso, verso un luogo che non lo riguarda, uno che non ha mai violato la legge. Fuori ci sono le camionette dell’esercito, ma qui non sono in missione di pace. È una strana missione incivile di cui o non sanno o cercano di non sapere. Soldati dell’Esercito Italiano col tricolore sul braccio sono agli ordini della Lega Nord per l’indipendenza della Padania.

Il Fatto Quotidiano, 10 dicembre 2009
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