Quando la parità di trattamento è solo nelle parole

l'Unità del 30.05.2009

A proposito di integrazione. Avete presente i benintenzionati, quelli che “figuriamoci se non vogliamo gli immigrati onesti e che lavorano duro…”?
Bene, cosa direbbero davanti a quanto sta accadendo al San Martino di Genova, uno dei più qualificati ospedali della città? Qui, cinque immigrati in possesso di carta di soggiorno sono stati esclusi da un concorso pubblico per operatore socio-sanitario. Il motivo è “la mancanza del requisito della cittadinanza italiana o europea” come affermato dalla direttrice delle risorse umane, Claudia Storace. Questo fatto ha dei precedenti: alcuni anni fa lo stesso ospedale aveva imposto il divieto agli infermieri stranieri di partecipare ai concorsi, ma aveva dovuto fare marcia indietro. Alle accuse di avvalersi di una disposizione “arcaica”,  la Storace replica appellandosi  a una norma del 2001, nella quale si prevede che i “funzionari pubblici” - così vengono qualificati gli operatori socio-sanitari - debbano essere in possesso della cittadinanza. I cinque stranieri si sono così rivolti ad un avvocato, dal momento che più sentenze hanno già riconosciuto il loro diritto a partecipare a concorsi pubblici; e che l’Italia ha ratificato una convenzione dell’Oil del 1975, che stabilisce che  lavoratori italiani e stranieri regolari hanno diritto a parità di trattamento. E tuttavia un dpr del 2001 e alcune sentenze della Cassazione riconoscono quella parità esclusivamente agli stranieri comunitari. Va da sé che, a prevalere, dovrebbe essere quanto previsto dalla convenzione internazionale, ma la materia resta controversa perché, evidentemente, fa gioco alimentare conflitti nonostante lettera e sostanza del diritto risultino inequivocabilmente limpide. A questo punto, è inevitabile che si arrivi a una sentenza della Corte Costituzionale per affermare giustizia laddove giustizia viene negata. 







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