Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

All'ultimo stadio


Mauro Valeri
E’ sicuramente indicativo che i testimonial della proposta di legge bipartisan sulla riforma della cittadinanza siano i ragazzi della Nazionale Under 15 di cricket, che hanno recentemente vinto la coppa agli Europei. E’ indicativo perché lo sport può rappresentare un buon esempio dei cambiamenti, anche sul piano delle relazioni etniche, che sta attraversando il nostro paese, ma anche delle resistenze a questi cambiamenti che spesso assumono connotati di tipo razzista. I giovani giocatori del cricket, molti feri quali d’origine straniera, sono riusciti ad indossare la maglia della Nazionale grazie ad un’intensa attività di dirigenti e appassionati (tra tutti Simone Gambino e Francis Alphonsus Jayarajah), che hanno trasformato uno sport importato e giocato per decenni da stranieri, in uno sport “italiano”, sebbene ci sia ancora chi, come qualche sindaco benpensante, continui a far di tutto per non concedere spazi pubblici ai ragazzi che amano giocare a cricket. Ne sa qualcosa Federico Mento che da alcuni anni, con il Piazza Vittorio Cricket Club, cerca di rendere concreto quel ruolo di integrazione che lo sport dovrebbe avere.


A mettere in discussione il ruolo che lo sport dovrebbe avere, ovvero favorire i processi di integrazione, sono anche gli insulti razzisti che è ancora possibile ascoltate in molti stadi italiani. E’ quello che capita da un po’ di tempo a Mario Balotelli. L’ultima volta a Cagliari. Al di là della polemica sul fatto che il giudice sportivo non abbia elevato alcuna ammenda perché nessuno ha messo a referto quegli insulti (mentre sulla stampa si parlava addirittura del fatto che, proprio per quei cori, in conformità alle nuove norme calcistiche, quella partita andava sospesa!), è curioso riprendere le giustificazioni portare dai tifosi sardi nel ribadire che quegli ululati che riprendevano il verso della scimmia non erano razzisti perché simili ai “belati” con i quali i cagliaritani vengono accolti negli stadi italiani, non ultimo anche a San Siro. Ridurre il razzismo ad un problema di “versi di bestie” è un pessimo esempio di banalizzazione del problema del razzismo sportivo. Infatti, Codice di Giustizia Sportiva alla mano, i “belati” dovrebbero essere considerati espressione di “discriminazione territoriale”, mentre gli “ululati” rientrano in quelli di “discriminazione razziale”. Anziché prendersela con il giudice sportivo che non penalizza chi li insulta, i tifosi cagliaritani si ritengono in diritto di insultare un calciatore nero! Siccome tutti ci sentiamo in qualche modo vittima di qualche ingiustizia, diveniamo portatori - neanche troppo sani - di un’altra ingiustizia. Non hanno invece sollevato alcuna indignazione ufficiale le “grida costituenti espressione di discriminazione razziale” che un gruppo di tifosi della Triestina hanno riservato ad un calciatore del Lecce (ma in questo caso il giudice sportivo ha posto una ammenda da alcune migliaia di euro). Probabilmente perché la Triestina gioca in serie B! Ribadiamo che questi soldi intascati dalla Lega dovrebbero essere utilizzati per attività antirazzista in ambito sportivo e non finire in un fondo indefinito. Così come sarebbe importante che tutti coloro che sono testimoni di episodi di razzismo negli stadi denuncino l’episodio all’Osservatorio sul razzismo del calcio gestito dall’Associazione culturale Panafrica ( Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo. ), che ogni anno pubblica i dati sugli episodi di razzismo negli stadi.

Ma nello sport italiano ci sono anche esempi postivi. Pochi giorni fa, a Borgo Valsugana (Tn), Jean Jacques Nkouloukidi ha vinto il titolo italiano assoluto dei 20 km di marcia, con il tempo di 1h25’18”. E’ un risultato importante, dopo le recenti esperienze alle Olimpiadi di Pechino (dove i Black Italians erano ben otto) e ai Mondiali di Berlino. Jean Jacques è nato il 15 aprile 1982 a Ostia, litorale romano, ed è figlio di immigrati. Suo padre proviene dal Congo Brazzaville, mentre sua madre è originaria di Haiti. E’ quindi un meticcio dal duplice trattino: italo-congo-haitiano (ma la sequenza potrebbe cambiare). Di certo, Jean Jacques si è sempre sentito italiano. Anche perché, quando è arrivato il suo diciottesimo anno d’età, che per molti ragazzi di seconda generazione rappresentano spesso una sorta di salto nel vuoto, ha ottenuto la cittadinanza utilizzando quella clausola normativa che permette, a chi nasce in Italia, una volta compiuti diciotto anni (ma prima che ne compia diciannove!) di chiedere la cittadinanza italiana. Anche se per la legge italiana, fino a diciotto anni Jean Jacques era uno straniero, lui si è sempre sentito italiano, non solo a scuola o a Ostia, ma soprattutto in pista, visto che ha iniziato a marciare a soli 11 anni. Oggi è un finanziere delle Fiamme Gialle, alla ricerca di quel gesto tecnicamente perfetto che ogni marciatore sogna di poter raggiungere, sintesi di un movimento che appare innaturale. Sorride quando gli ricordo che è uno dei pochissimi marciatori neri in Europa (e forse nel mondo), così come quando ricorda che più che il colore della pelle, ha dovuto superare la diffidenza di molti che, nel vederlo sgambettare mentre si allenava per il lungomare di Ostia, gli urlavano: “Aoh, che stai a fa’? Férmate! Lascia perde!”. Jean Jacques non ha lasciato perdere ed è riuscito a dimostrare il suo valore.
Allo stesso tempo, sono ancora molti, troppi ragazzi e ragazze che non possono giocare in Nazionale o concorrere per vincere un titolo nazionale, per il semplice motivo di avere genitori stranieri. La crisi dello sport italiano trova origine anche in questa chiusura immotivata verso i “nuovi italiani”. E’ ancora troppo raro poter vedere figli di immigrati giocare se non in Nazionale almeno nelle serie maggiori dei vari sport. In ciò il calcio rappresenta forse l’esempio più negativo. Una recente tragedia ha fatto conoscere la storia di un figlio di immigrati che era riuscito ad arrivare in Prima Divisione (ex serie C1) con il Ravenna: Brian Filipi, classe 1989, nato a Lezhe, in Albania, e arrivato in Italia all’età di tre anni insieme ai genitori. Probabilmente proprio per la normativa italiana sulla cittadinanza, aveva accettato la proposta di giocare con la Nazionale albanese Under 21. La sera di sabato 19 settembre, un automobile impazzita lo ha travolto vicino casa, a Cervia, dove era cresciuto e viveva con la famiglia.
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