Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

06 settembre 2011

Mantovano: “spero che la manovra economica non penalizzi gli immigrati”.
Il Sottosegretario all’Interno scettico sull’imposta per le rimesse: “aspettiamo la versione definitiva della manovra...”
Immigrazione Oggi, 06-09-2011
“Spero che non ci sia una penalizzazione degli immigrati che in questo caso peraltro sarebbero gli immigrati regolari”. È quanto ha dichiarati ieri a Bari il sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano, rispondendo a chi gli chiedeva se gli immigrati saranno penalizzati dall’emendamento alla manovra che prevede il pagamento di una imposta di bollo per l’invio di soldi alle famiglie di origine.
Mantovano, che si trovava nel capoluogo pugliese per insediare la seconda Commissione territoriale per il diritto di asilo, decisa dopo le rivolta degli immigrati presenti nel Cara all’inizio di agosto, ha inoltre dichiarato che “ogni commento alla manovra deve essere fatto nel momento in cui uscirà nella versione definitiva dal Parlamento”.



Fiore (Pd): "No alla tassazione delle rimesse degli immigrati"
Città della Spezia, 05-09-2011
Liguria. L’istituzione di un'imposta di bollo sui trasferimenti di denaro all'estero attraverso gli istituti bancari, le agenzie 'money transfer' e altri agenti in attività finanziaria in misura pari al 2% trasferito con ogni singola operazione, con un minimo di prelievo di 3 euro “Rappresentare l’ennesima misura dal contenuto discriminatorio e in odor di razzismo, è la prova più evidente del fallimento delle politiche sull’immigrazione del Governo Berlusconi-Bossi” Sono le parole di Michele Fiore del Forum Immigrazione del Partito Democratico. In una nota stampa Fiore prosegue: “ Sono proprio le rimesse degli immigrati, infatti, a svolgere, in un momento di crisi economica come è quella attuale, un importantissimo ruolo anticiclico poiché permettono ai familiari degli stranieri presenti nel nostro paese di trovare una quanto mai necessaria fonte di sostentamento e di disincentivo alla migrazione. Sono numerosissimi i casi di immigrati che avendo “fatto fortuna” in Italia, hanno garantito il mantenimento delle proprie famiglie ed il risparmio di importanti risorse economiche poi reinvestite nel proprio paese di origine, ottenendo risultati ben più lusinghieri della politiche di cooperazione allo sviluppo.
Anche perché, paradossalmente, le politiche di cooperazione allo sviluppo anziché limitare le migrazioni finiscono con l’incentivarle poiché destinate prevalentemente a paesi poverissimi i cui abitanti potrebbero così trovarsi nelle condizioni economiche per poter espatriare.”
Fiore conclude: “Come certificato anche dall’ultimo rapporto Caritas Migrantes 2010, al netto di rifugiati e perseguitati, emigra prevalentemente chi “se lo può permettere”.
L’Italia investe in Cooperazione allo sviluppo una miseria: 3,7 mld di euro nel 2008 e 2,1 mld nel 2009 (circa lo 0,14% del PIL). Di contro le rimesse che gli immigrati inviano ai paesi di origine sono state di 6,5 mld nel 2009 in aumento di 300.000 euro rispetto all’anno precedente. Quindi, parafrasando la Lega, se proprio non vogliamo “aiutarli a casa loro”, almeno permettiamo che lo facciano da soli.”



Kate è libera: «Voglio vivere qui» Il governo: asilo senza indugi
Il Messaggero,06-09-2011
GIANFRANCO MANFREDI
COSENZA - «Voglio restare libera in un Paese libero» dice tra le lacrime, lasciando il penitenziario femminile di Castro- villari. Abbraccia Franco Corbelli dei movimento Diritti Civili, che ha lanciato il primo appello in suo favore e gli si inginocchia davanti, definendolo «il mio Salvatore». «Non pensavo che ce l'avrei fatta. Grazie a tutti, agli italiani, ai calabresi, al presidente Napolitano».
Piange Kate Omoregbe, giovane nigeriana di 34 anni. Confessa di non aver dormito l'altra notte, in attesa della scarcerazione. La sua vicenda è diventata un caso umanitario che ha fatto il giro del mondo scuotendo la rete web.
Esce dal cárcere, Kate, ma entra in un incubo. II tempo della sua detenzione è scaduto in anticipo, ieri pomeriggio - per buona condotta - accorciando la condanna per detenzione di droga comminatale nel 2008 dal tribunale di Roma. Ma adesso si deciderà il destino dela donna che rischia un provvedimento di espulsione che equivarrebbe a una condanna a morte che in Nigeria prevede la lapidazione. Kate saluta i suoi sostenitori di Castrovillari e poi di corsa in auto alla volta di Cosenza per chiedere in questura il riconoscimento dell'asilo politico. «Voglio rimanere in Italia, in Calabria - sospira -. Voglio riprendere gli studi, mi vorrei laureare».
In questura si decide la sua prossima destinazione. II presidente della Regione Calabria, Giuseppe Scopelliti, ieri mattina aveva manifestato la disponibilità ad accoglierla in attesa che si abbiano notizie certe sulla sua richiesta di asilo. Ma provvisoriamente Kate sara trasferita in un Centro d'identificazione per immigrati di Roma per poi tornare nei prossmi giomi in Calabria nella
struttura messa a disposizione dalla Regione.
Occorre qualche settimana di lavoro alla commissione che deve valutare la richiesta di asilo. Dovranno verifícare la veridicità delle dichiarazioni della donna e i reali pericoli che corre nel suo Paese e la risposta è prevista per il 19 ottobre. Le prospettive dei rimpatrio con le prevedibili conseguenze, sem- brano comunque scongiurate.E'un impegno dei Ministro degli Esteri, Franco Frattini, e dei Ministro per le Pari Op- portunità,
Mara Carfagna. «II caso di Kate - sostengono i due esponenti dei Governo in una nota congiunta - tira ancora una volta in bailo il rispetto dei diritti fondamentali di ciascuna persona, un principio che l'Italia non lia mai considerato una battaglia ad intermittenza. Il Governo italiano è dunque impegnato a salvare la vita di Kate, evitarle la pena di morte che, presumibilmente, le toccherebbe in sorte nel suo Paese di origine».



Salviamo Kate e le altre
Agora Vox, 06-09-2011
Kate Omoregbe è una giovane donna nigeriana di religione cristiana, che ha scontato due anni di pena in Calabria, nel carcere di Castrovillari, dopo essere stata arrestata perchè nell'appartamento in cui viveva assieme a un'altra ragazza è stata trovata della droga. Lei si è sempre professata innocente ed è appena stata rimessa in libertà per buona condotta, anche se i termini per la scarcerazione sarebbero scaduti solo il prossimo novembre. Ora rischia una condanna ben più grave della detenzione: l'immediato rimpatrio in Nigeria, dove l'attende la lapidazione per essersi rifiutata di sposare un uomo molto più anziano di lei e di convertirsi all’Islam.
Per evitare che venga espulsa e che vada incontro a una morte certa, si stanno attivando esponenti del mondo politico e varie associazioni. La mobilitazione, ovviamente, si è subito diffusa anche sul web, con la pagina No alla lapidazione di Kate Omoregbe aperta su Facebook e una raccolta firme avviata sul sito di Articolo 21. Nel frattempo, anche nella stessa comunità di Castrovillari si stanno moltiplicando le manifestazioni di solidarietà nei confronti di Kate.
 Il destino della giovane nigeriana è purtroppo condiviso da molte altre ragazze residenti in Italia, le cui vite sono spezzate già all'età di 12 o 13 anni. Una parte della loro mente vive infatti nel Paese di origine, sottoposta alle continue pressioni dei familiari; un'altra nel Paese che le ha accolte, assieme agli amici che ne favoriscono l'inserimento nella nostra società. Sono poco più che bambine quando cominciano ad avvertire i primi sintomi di questo profondo conflitto interiore.
Da piccolissime, quando frequentano ancora le elementari, possono tranquillamente portare i compagni a casa e uscire con loro. Poi, crescendo, tutto diventa improvvisamente proibito e pure una semplice gita con la classe è motivo di sospetto e divieto. Iniziano così le liti per i vestiti, il trucco, le abitudini considerate troppo occidentali. Situazioni che finiscono per rappresentare un ostacolo quasi insormontabile nel loro processo evolutivo, e troppo spesso prefino per determinare drammi fra le mura domestiche.
Ogni tanto c'è qualche ragazza che sparisce dalle scuole superiori, oppure non rientra dalle vacanze. Perché le famiglie le costringono a tornare nel loro Paese per farle sposare a vecchi decrepiti che nascondono la propria perversione dietro la fede. Solo nel 2010, nella cittadina inglese di Bradford sono scomparse 200 ragazzine tra i 13 e i 16 anni, figlie di immigrati. In Italia, in proposito, non abbiamo statistiche dettagliate. L’unica stima è del Centro nazionale di documentazione per l’infanzia, secondo il quale le "spose bambine" del nostro Paese sarebbero oltre 2 mila all’anno.
Questo succede nonostante in Italia i minorenni non possano sposarsi, perchè esiste una deroga per "gravi motivi". Dai 16 anni di età in poi, il Tribunale per i minori può infatti autorizzare le nozze. A metà degli anni '90 casi del genere, tutti fra i residenti immigrati, ammontavano a poco più di un migliaio, poi sono via via diminuiti fino ad assestarsi stabilmente nell'ordine dei 200 circa degli ultimi anni, che per le conseguenze sociali e civili rappresentano comunque una enormità.
L'ultimo dato disponibile (2007/2008), ci dice che è la Campania la regione in cui ne avvengono di più: in media un'ottantina all'anno. Per la maggior parte si tratta di matrimoni fra stranieri, con in testa le comunità di immigrati da Pakistan, India e Marocco. Numeri che però tracciano solo l’aspetto legale e visibile della questione, considerato che secondo gli esperti del Viminale sono molti di più i legami imposti clandestinamente all’interno delle famiglie e suggellati in qualche moschea o, per l'appunto, nei Paesi d’origine.
Si tratta di una situazione di rischio potenziale. Le ragazze immigrate di seconda generazione, nel nostro Paese, sono circa 175 mila. Il matrimonio combinato riguarda però solo alcune comunità: l'indiana e la pakistana più delle altre, in misura minore quelle del Nord Africa. Inoltre, le nozze imposte appaiono come il male minore. Il vero pericolo è che nei prossimi dieci anni esploda la "conflittualità latente" incarnata da ragazze che studiano e si integrano, ma che vivono in famiglie troppo legate alle tradizioni.
Molti genitori, come sottolinea l'Associazione dei Giovani Musulmani d'Italia, non hanno un grado di istruzione elevato e dinnanzi a situazioni che stentano a comprendere, e nelle quali intravedono un pericolo, non sanno come reagire. Si chiudono, diventano severi e impongono le regole con l’aggressività. Entrando in conflitto con le figlie che pretendono dialogo e rivendicano maggiori spazi di libertà.
Del resto, la ribellione è complicata. Tanto che a denunciare gli abusi e i maltrattamenti subiti da queste ragazze straniere sono quasi sempre gli amici, i conoscenti, i vicini di casa italiani. Per trovare un equilibrio, le giovani e giovanissime "promesse mogli" cercano uno spazio di negoziato, quasi un rimedio estremo per smettere di soffrire. Che consiste nel trattare la loro condanna.
L'Associazione delle Donne Marocchine in Italia, ad esempio, riporta la storia di una giovane marocchina che vive a Milano, che lo scorso anno aderì alla richiesta del padre di sposare un uomo del suo Paese rinunciando al proprio futuro emancipato qui in Italia. Per accettare, ha dovuto però chiedere di poter scegliere tra più opzioni, di vedere almeno tre o quattro possibili mariti. Ciò avviene quando le ragazze non possono, o non vogliono, scardinare il sistema di regole della propria famiglia, ma cercano ugualmente di ricavare spazi minimi di sopravvivenza.
Analoga vicenda si riferisce a un’adolescente egiziana, anche lei studentessa "milanese": "Hanno scelto l’uomo per me, non mi oppongo. Ma ho chiesto due cose. Prima del matrimonio volevo vederlo. E poi ho ottenuto una garanzia, una specie di contratto non scritto: dopo il matrimonio potrò continuare la scuola e poi andare all’università per laurearmi".
Sono storie di ordinaria inconciliabilità. Che insinuano molti dubbi anche a chi crede sinceramente nel dovere "laico" del dialogo e dell'integrazione. E allora viene da domandarsi se non sia il caso di dare ragione a quanti suggeriscono a gran voce di optare per una forma di “multiculturalismo sostenibile”, privilegiando i rapporti con culture e religioni che come noi mantengono ben distinta la sfera civile dalla fede.
Ma forse no, il "noi" e il "loro" qui non c'entrano nulla. Forse è semplicemente una questione di coraggio e di diritti. E la vera domanda da porsi è ancora una volta la seguente: se non ora quando? Kate e diverse altre giovani vite sono "ora" in pericolo, e "ora" vanno salvate. L'auspicio è che l'esempio di quella infinita fiumana rosa, che a più riprese è scesa in piazza in questi mesi per rivendicare fino in fondo l'emancipazione delle donne italiane, contamini le tante ragazze straniere giunte nel nostro Paese per sfuggire alle proprie inique - e sovente stupide - miserie umane e culturali.



"Venezia sta con gli immigrati": l'appello del Cinema alle istituzioni
Un appello firmato da Andrea Segre, Elio Germano, Marco Tullio Giordana e molti altri registi, produttori e attori del cinema italiano chiede all'Italia di assumersi le proprie responsabilità nei confronti dei profughi libici e degli immigrati quotidianamente privati dei diritti fondamentali nei CIE. Al Festival di Venezia riparte l'impegno a fare cultura in senso diametralmente opposto a quello dominante.
Il Cambiamento, 06-09-2011
Elisa Magrì
"Si intensifichino gli sforzi a livello internazionale per ridurre l'eccidio intollerabile di profughi in fuga dalla Libia"
“Si intensifichino gli sforzi a livello internazionale per ridurre l'eccidio intollerabile di profughi in fuga dalla Libia. È disumano ciò che è successo dal marzo 2011 ad oggi: civili in fuga da un Paese sotto attacco militare sono stati lasciati completamente soli ad affrontare il mare, con un bilancio di almeno 1500 vittime.
È dovere umanitario internazionale ed italiano in primis fare di tutto perché chi fugge da una guerra, a cui il nostro stesso paese partecipa, peraltro con l’obiettivo dichiarato di proteggere i civili, sia adeguatamente tutelato”.
È questo l'esordio dell'appello lanciato da autori e attori del cinema italiano alla 68° Mostra del cinema di Venezia, un modo per far presente l'urgenza della crisi umanitaria in atto in Africa ed evitare che il Festival sia strumentalizzato dai media standard per stornare l'attenzione da quanto accade oggi in Libia e a Lampedusa.
L'appello di registi, autori, produttori, attori e artisti si rivolge all'opinione pubblica ed alle istituzioni “per contribuire con la nostra voce, oltre che con i nostri racconti, alla costruzione di una società meno soggetta a chiusure e derive xenofobe e più preparata a comprendere i flussi di immigrazione e a dialogare con i nuovi cittadini”.
In effetti l'edizione di quest'anno del Festival di Venezia affronta l'immigrazione in diverse pellicole, a cominciare da Io Sono Li di Andrea Segre firmatario dell'appello, già autore del documentario Come un uomo sulla terra, il primo a denunciare gli abusi e le torture dietro gli accordi sull'immigrazione firmati nel 2008 fra Italia e Libia, e del film Il sangue verde sulla tragedia di Rosarno.
Io Sono Li è la storia di un amore fra due culture profondamente diverse, quella cinese e quella veneta-chioggiotta, ed esplora i temi della contaminazione e della crisi identitaria al centro di periferie multietniche come quelle del Veneto, una regione che affascina il regista perché passata in breve tempo da terra di emigrazione a terra di immigrazione.
L'appello non è un monito patetico a ricordarsi delle vittime di guerra, ma una vigorosa denuncia della posizione italiana nel conflitto in Libia e del trattamento riservato dalle istituzioni agli immigrati che raggiungono le coste italiane. I registi e gli autori firmatari chiedono al governo l'impegno a “non replicare mai in futuro la scellerata politica dei respingimenti, attivata nel maggio 2009 con l'allora 'amico' Gheddafi nonostante le denunce di vari organismi internazionali. Nessun respingimento in mare è accettabile, né verso la Libia né verso altri Paesi, come purtroppo sembra stia succedendo nelle ultime settimane con la Tunisia”.
Inoltre si richiede l'abolizione del reato di clandestinità (già bocciato dalla Corte di Giustizia Europea) e il blocco del prolungamento a 18 mesi della detenzione nei Centri di Identificazione ed Espulsione, “la cui organizzazione e funzione va completamente ripensata essendo diventati luoghi di intollerabile sospensione dei diritti, di forte umiliazione delle dignità personali e di isolamento civile e democratico”.
A tal proposito gli artisti del cinema auspicano che venga revocata la circolare ministeriale che impedisce l'accesso di giornalisti ed altri osservatori nei Centri stessi. Infine è fatta esplicita richiesta del riconoscimento della piena cittadinanza italiana ai cittadini cresciuti in Italia, ma figli di stranieri.
Evidentemente l'appello non trascura nessuno dei punti attorno a cui si accende il dibattito a proposito del ruolo dell'Italia in Libia e soprattutto delle politiche italiane in materia di immigrazione, accoglienza e integrazione. Da anni associazioni come Amnesty International ed Emergency denunciano l'anomalia di un Paese che sfrutta la forza-lavoro straniera, ma è incapace di approntare strutture ed apparati adeguati per favorirne lo sviluppo umano.
Questo manifesto da parte del mondo del cinema segnala la consapevolezza delle derive razziste cui l'atteggiamento italiano incorre e si distingue per l'intento di 'fare cultura' in senso diametralmente opposto a quello dominante da parte dei grandi canali di informazione e di divulgazione. I firmatari si impegnano, infatti, a tenere alta l'attenzione su questi temi ed a “a collaborare con i nostri film a percorsi di educazione e conoscenza in scuole, università, biblioteche e altri luoghi di incontro in tutte le Regioni Italiane”.
Tra gli altri sottoscrittori dell'appello figurano Guido Lombardi, Marco Paolini, Giuseppe Battiston, Valerio Mastrandrea, Elio Germano, Roberto Citran, Gaetano Di Vaio, Luca Bigazzi, Francesco Bonsembiante, Marco Tullio Giordana, Daniele Vicari, Daniele Gaglianone e sono molte le personalità che continuano a sottoscrivere il documento in questi giorni.



Tentato stupro, Alassio in rivolta
il Secolo XIX, 05-09-2011
Valerio Arrichiello
Savona - Il ragazzo entra nel bar. Ha gli occhi neri, la pelle scura e la sua colpa, oggi, è solo quella. Si trova di fronte due braci ardenti e un cartello “Da oggi vietato l’ingresso ai marocchini”. Le braci ardenti sono gli occhi della barista. Una donna minuta ma con una rabbia in corpo che potrebbe scaraventare il bancone in testa all’avventore. Invece si limita a guardarlo fisso e a dirgli: «Caffè per te non ce n’è». Alassio, 4 settembre 2011. La signora Maria, barista del “No Problem” di via Leonardo Da Vinci, ha deciso che nel suo bar i marocchini non metteranno più piede. Ha ancora negli occhi la scena di sua figlia che entra nel bar con la schiena e il braccio feriti da un taglio profondo. Sua figlia che ha poco più di vent’anni e pochi minuti prima ha incontrato in una strada buia Ghalfi El Mustapha, trent’anni, ambulante e avvezzo a spaccare le bottiglie dopo averle svuotate. È lui che l’ha avvicinata con frasi oscene e per tutta risposta, al rifiuto della ragazza, ha sferrato un colpo mirando al suo collo con un coccio di bottiglia.
Le urla della ragazza hanno attirato gli abitanti e i turisti degli hotel che danno sulla via. Ghalfi, resosiconto di quello che stava accadendo, è scappato. I carabinieri lo trovano poco lontano, sull’Aurelia, a piedi. Prima che lo facciano gli alassini con i bastoni. Ha scampato il loro odio, ma ne ha scatenato un altro più profondo che sta tutto in un caffè negato.



Immigrati, 92 africani in attesa di asilo. Le storie dal C.A.R.A di Anguillara
ultimo aggiornamento: 04 settembre, ore 18:13
Roma - (Ign) - Da oltre un mese i ragazzi, partiti anni fa dalla Nigeria, dal Ghana, dal Mali, aspettano l'esito della domanda in un Centro di accoglienza a 45 km da Roma che un tempo era un agriturismo
Roma, 4 sett. (Ign) - Una sola speranza: ottenere l’asilo politico. Da oltre un mese 92 ragazzi africani aspettano l’esito della loro domanda in un ex agriturismo trasformato in Centro d’accoglienza per richiedenti asilo (Cara) a 45 chilometri da Roma, nelle campagne che circondano il lago di Bracciano. Le telecamere Adnkronos sono entrate nel centro - il video andrà in onda mercoledì prossimo sul Rotocalco Adnkronos e sul sito Ign - per raccontare le loro storie e i loro sogni.
Partiti anni fa dalla Nigeria, dal Ghana, dal Mali, dalla guerra permanente della Somalia. Molti di loro hanno lavorato in Libia ma poi la guerra è arrivata anche là. “Io vengo dalla Nigeria – racconta Kingsley, 27 anni e un filo di voce – Ho lasciato il mio Paese nel 2008 per andare in Libia. Quando sono partito avevo appena perso mia madre. Eravamo rimasti in sei a casa, tutti orfani e non avevamo la possibilità di sopravvivere”. Negli occhi scuri di Kingsley ora è come se si riaprisse uno squarcio su un luogo della memoria che i giorni passati a cercare di sopravvivere avevano allontanato. “Avevo un grande negozio di elettrodomestici in Nigeria – racconta fissandosi le mani – ma me lo hanno bruciato. Non avevamo assistenza dal governo, nessun aiuto. Io avevo degli amici che lavoravano in Libia, mi hanno detto che avrebbero potuto darmi una mano se fossi andato lì, che era un Pese dove si poteva lavorare. Così – continua tutto d’un fiato – con il loro aiuto sono andato in Libia e ho lavorato per due anni, un buon lavoro ma poi è arrivata la guerra. Sono scappato. Il 5 maggio sono arrivato in Italia”. Rialza la testa, lo sguardo è stanco come se quel percorso lo avesse appena fatto una seconda volta. “Ringrazio Dio – dice - di avermi fatto attraversare vivo il mare. Ringrazio anche il governo italiano per avermi salvato quando eravamo ancora sulla barca”.
Kingsley come gli altri è arrivato al C.a.r.a di Anguillara Sabazia da Lampedusa, dopo essere passato per un altro centro a Civitavecchia. Oggi vive qui, in una struttura composta di piccole case affiancate una all’altra dove i migranti sono stati divisi per nazionalità, rispettando i legami che nel frattempo si sono venuti a creare tra loro. Intorno, un giardino ampio, un campo di calcetto, una piscina senz’acqua, il prato protetto dalle siepi dove ogni tanto qualcuno si ritira a pregare con lo sguardo diretto verso La Mecca.
Mentre Kingley racconta, arrivano le risate del gruppo che nella stanza accanto fa lezione di italiano. “Hanno tutti una gran voglia di imparare la lingua – spiega la direttrice del centro Grazia Verdone – hanno fretta di inserirsi. E noi li aiutiamo facendogli corsi di educazione civica e ambientale, mettendogli a disposizione un avvocato che li segue nelle pratiche e li prepara al colloquio che dovranno sostenere davanti alla commissione che decide se accogliere o meno la loro richiesta di asilo”.
Intanto nel piazzale di fronte all’ufficio Monday, la camicia bianca senza maniche e lo sguardo cupo, cammina su e giù. E’ un ragazzone alto, ha muscoli da atleta, di quei tipi che nei film americani farebbero la parte del bullo di Harlem. Ad un tratto si ferma, entra dritto nell’ufficio dove Kingsley ha appena finito di raccontare la sua storia. “Voglio parlare anch’io”, dice. E non è una domanda. Davanti al microfono acceso è un fiume in piena: “Abbiamo lavorato in Libia ma tutto per noi è stato sempre molto duro: non c’è rispetto per i diritti umani, non c’è un buon livello di vita. Noi abbiamo sopportato perché non volevamo tornare nel nostro Paese. In Libia molte persone sono state uccise, le donne sono state stuprate, abusate, rapite. Non c’è stata nessun’altra opzione che decidere di partire per l’Europa. Quando siamo arrivati qui – continua con la voce tesa – l’Italia ci ha accolto e siamo molto contenti che ci abbiano dato una casa, che si siano presi cura di noi. Ma questo – dice – non è tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Ciò di cui abbiamo bisogno è libertà, rispetto dei diritti umani. Noi siamo neri, voi siete bianchi, ma siamo figli di un unico Dio. Lasciateci dimostrare l’amore di questa differenza”.
Quello di Monday è un appello agli italiani, una richiesta di accoglienza a quelle persone che talvolta li guardano con sospetto. “L’Europa si è fatta carico di noi – spiega - perché questa è la nostra ultima speranza. Molta gente è morta in mare, molta gente è morta in Libia, molta gente è morta nel deserto. Noi – scandisce – siamo gli unici sopravvissuti e se l’Italia non ci accetta per noi è finita. Il mio sogno di tutti i giorni – aggiunge con voce morbida, quasi malinconica – è vivere in un posto dove la gente mi ama e dove io posso fare qualcosa per loro e loro qualcosa per me”. Alza lo sguardo, scatta in piedi, ora negli occhi non c’è più nulla del bullo di Harlem: sta sorridendo, liberato.
Come Monday tutti sanno che fuori al cancello del centro c’è una realtà meno protetta di quella in cui vivono in questi giorni. Vogliono lavorare ma sanno che anche per gli italiani oggi è difficile trovare un impiego. “Loro però hanno tutti un mestiere in mano – spiega Anna Maria Brundu che tra le altre cose gli insegna italiano – ci sono ingegneri meccanici, falegnami specializzati, elettricisti, panettieri, musicisti. Tutti sono giovani tra i 25 e i 35 anni e conoscono almeno due lingue, o l’inglese o il francese a seconda del Paese di provenienza”. Nel centro ci sono anche donne, o per meglio dire ragazzine. In tutto sono 37, quattro sono incinte e una è qui con il marito e il figlioletto di un anno appena compiuto. Sono più schive degli uomini, nessuna ha voglia di parlare. Meglio che a farlo, se ci sono, siano i compagni.
“Ringrazio l’Italia per aver accolto me, mia moglie e mio figlio – dice Ilori – Speriamo che la commissione possa accogliere la nostra richiesta. Io sono un meccanico, ho già fatto questo lavoro in Libia e spero di poter trovare un lavoro anche qui per poter mantenere la mia famiglia. Noi - dice con le mani intrecciate sul petto come in una preghiera – ci impegniamo a imparare l’italiano per poter lavorare e inserirci nella vostra società rispettando le leggi e le consuetudini italiane”.

 

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