Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

20 gennaio 2014

Manconi: «Aiuto ai profughi anche negli spazi dell'ex Cie»
Il presidente della Commíssione per la tutela dei dirítti umani in visita a Gradisca: «Proporrò al governo l'allargamento della struttura». Ma il Comune è contrario
Il Piccolo, 20-01-2014
Luigi Murciano
GRADISCA
«Il Cara di Gradisca è una struttura che va ampliata in virtù del numero di persone che sta attualmente ospitando, e che è destinato a crescere ulteriormente». Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, non ha dubbi. Secondo il Senatore Pd, che lo ha visitato nella mattinata di ieri, il Centro per richiedenti asilo della cittadina isontina andrebbe potenziato per poter operare al meglio. Magari riconvertendo in Cara, questa l'opinione di Manconi, l'altro centro gradiscano: ovvero il Cie, il centro di espulsione per clandestini attualmente in ristrutturazione dopo le rivolte dei mesi scorsi.
«Il Cie va chiuso in quanto luogo ove i diritti umani sono sospesi o addirittura calpestati - ha affermato il parlamentare - come del resto avevamo appurato in una recente visita. Ma la realtà del Cara è ben diversa. È una struttura che assolve ad un compito fondamentale previsto dalla nostra Costituzione: quello di fornire assistenza alle persone in attesa di asilo politico e pro- tezione internazionale perché perseguitate o fuggite dalla guerra. E va aiutato a svolgere la sua funzione al meglio. La chiusura del Cie, che noi vogliamo, potrebbe lasciare eventuali spazi ad un ampliamento del Cara».
Posizione netta, quella di Manconi, che assicura di non essere il solo a vederla in questo modo. «Questa mia ipotesi è condivisa anche dal presidente della Regione Friuli Venezia Giulia e da tante associazioni che si occupano di studi sulle problematiche dell'immigrazione».
Meno entusiasta di queste parole il Comune di Gradisca, che nelle scorse settimane aveva messo nero su bianco la sua contrarietà alla riapertura del Cie, ma anche all'ampliamento del Cara. I numeri non sarebbero più gestibili dal territorio, che a queste persone (libere di circolare) non riuscirebbe più a garantire risposte sociali, tantomeno senza risorse. «Sappiamo dell' ostilità degli enti locali a questa ipotesi, cosi come siamo consapevoli che a livello centrale si vuole riaprire il Cie. Ma la
commissione ha il dovere di presentare le proprie riflessioni».
Di certo, come ha appurato ieri Manconi nel corso della sua visita fiume (ben 4 ore) accompagnato dalla direttrice Cardella e dai funzionari della Prefettura, il Cara di Gradisca è una struttura complessa. Lo sanno bene i dipendenti, che svolgono responsabilmente un lavoro delicatissimo nonostante continui ritardi nell'erogazione degli stipendi. Manconi li ha incontrati. Attendono le mensilita' di novembre, dicembre, la tredicesima e un 20% di pregressi. Sono stremati, chiedono tempistiche certe.
Il nuovo contratto di appalto è stato depositato alla Corte dei Conti e questo dovrebbe finalmente riportare tutto alla normalità. «Anche il cambio della guardia alla guida della Prefettura dovrebbe aprire un nuovo capitolo in questo senso» afferma Manconi.
Di certo il Cara negli ultimi mesi è cambiato. La sua capienza è stata portata dai 138 posti standard a 204 per consentire l'apertura di una sezione Cda, ovvero di accoglienza per i profughi sbarcati sulle coste siciliane. Attualmente gli ospiti del Cara/Cda sono 176, ma il turnover nella sezione di accoglienza è continuo. Il bisogno di spazi è effettivo. Attualmente non vi sono all'ex Polonio né minori né nuclei familiari. «Se ci fossero - spiegano dalla direzione - troveremmo qualche difficoltà ad organizzarci con gli spazi».
L'80% di quanti approda al Cda invece rimane per poche ore: poi si volatilizza perché non ha interesse a chiedere protezione al nostro Paese ma mira al Nord Europa. Lo Stato lascia fare, ma il ricambio è costante. Afghanistan, Pakistan, Bangladesh, Eritrea, Mali, Senegal, Ghana, Nigeria i Paesi piu' rappresentati. Per i richiedenti asilo in media la permanenza al Cara dura 120 giorni. C'è assistenza sanitaria, psicologica, mediazione culturale, orientamento legale. Esistono una ludoteca e luoghi dedicati al culto. «Contrariamente ad altri centri - conferma Manconi - l'opinione degli ospiti sui servizi è buona. Ma il governo dovrebbe investire maggiori risorse sul diritto all'asilo e sull'integrazione di queste persone. I tempi di attesa per entrare nel circuito Sprar sono lunghi, ma qualcosa si sta muovendo



«Basta mercanti di carne umana»
Avvenire, 20-01-2014
Una parrocchia del centro di Roma ma rappresentativa di quelle "periferie esistenziali" che tanto a cuore stanno a papa Francesco. La chiesa del Sacro Cuore di Gesù a Castro Pretorio, attigua alla Stazione Termini, fondata da don Bosco e retta dai Salesiani, è stata scelta da Bergoglio per la visita di questo pomeriggio anche perché punto di riferimento per tanti poveri, senza fissa dimora, rifugiati.
E il Papa si è soffermato lungamente con loro - oltre che con i tanti parrocchiani, i giovani e i bambini - celebrando anche così l'odierna, per la Chiesa, Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato.
Una giornata in cui all'Angelus Francesco ha rinnovato il suo appello all'"accoglienza" e puntato il dito contro "i mercanti di carne umana, che schiavizzano i migranti". Al suo arrivo alle 16.00 sulla Ford Focus nella quarta parrocchia romana da lui visitata, in via Marsala, il Papa è stato accolto dal consueto bagno di folla, nonostante la pioggia, e da uno striscione in tipico gergo romano: "Bella Frà". Non si è risparmiato nel voler salutare i parrocchiani, uno ad uno, baciando e abbracciando i bambini.
"Che il Signore ci benedica tutti con quest'acqua", ha detto ai fedeli. Con lui il cardinale vicario Agostino Vallini, il parroco don Valerio Baresi. Presenti nella parrocchia anche il cardinale Giuseppe Versaldi, capo della Prefettura degli Affari economici, diacono della basilica, e l'arcivescovo Mario Toso, salesiano, segretario di Giustizia e Pace. Momenti centrali della visita, l'incontro con una sessantina di poveri e senza fissa dimora che gravitano nella zona della Stazione Termini, e quello con un centinaio di rifugiati, accompagnati dai volontari della parrocchia che li seguono in varie iniziative di integrazione. Prima della messa, un senzatetto e un rifugiato sono stati anche tra le cinque persone confessate dal Papa, insieme a una religiosa e due giovani scelti tra i tanti della parrocchia.
E nell'omelia Bergoglio ha esortato a "crescere nella fiducia in Gesù", indicando questa come "la chiave del successo della vita". "Questa è una scommessa che dobbiamo fare: affidarci a lui e mai delude", ha detto, invitando poi i fedeli a pensare, in silenzio, alla scena del battesimo di Gesù sulle rive del Giordano e "ognuno di noi dica qualcosa a Gesù dal suo cuore". Nell'incontro a porte chiuse con circa 200 giovani, il Papa si è così rivolto loro: "Lasciatevi colpire dalle vostre ferite. Tutti abbiamo delle ferite ma chiamate le vostre ferite per nome altrimenti non potrete capirle e superarle".
Altro momento molto toccante, secondo quanto raccontato dal parroco don Valerio, l'incontro con le persone senza fissa dimora: "Si percepiva proprio una sintonia tra il Papa e i poveri si capiva che le persone si sentono da lui comprese, ascoltate, capite e amate. Per questo può permettersi di dire anche ai poveri, come ha fatto, di vivere nella speranza e di non scoraggiarsi mai". Il ritorno in Vaticano dopo quattro ore di visita e dopo essersi soffermato con tutte le realtà parrocchiali. In precedenza, all'Angelus in Piazza San Pietro, dopo aver sollecitato la Chiesa a non essere una "cittadella assediata", ma una realtà "aperta, accogliente, solidale", ha ricordato che oggi era la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato e ha salutato le diverse comunità etniche presenti. "Voi siete vicini al cuore della Chiesa", ha detto, aggiungendo: "Non perdete la speranza di un mondo migliore!".
"Vi auguro di vivere in pace nei Paesi che vi accolgono, custodendo i valori delle vostre culture di origine", ha proseguito Bergoglio. Parlando "a braccio" e usando anche toni intensi, ha voluto ringraziare coloro, come i Padri Scalabriniani, "che lavorano con i migranti per accoglierli e accompagnarli nei loro momenti difficili, per difenderli da quelli che il Beato Scalabrini ha definito i mercanti di carne umana, che vogliono schiavizzare i migranti". "In questo momento - è stata l'ulteriore considerazione del Pontefice - pensiamo a tanti migranti, a tanti rifugiati, alle loro sofferenze, alla loro vita tante volte senza lavoro, senza documenti, con tanto dolore". Ha quindi invitato i fedeli a recitare con lui un'Ave Maria, "per i migranti e i rifugiati che vivono situazioni più gravi e più difficili".



“Vi racconto il mio mestiere di trafficante di uomini”
Kabir, Muammer, Emir guadagnano milioni di euro coi barconi “Sono soldi facili. Siamo un clan, tutti devono avere paura di te”
la Repubblica, 20-01-2014
Vladimiro Polchi
«Tutti vogliono venire in Italia. Io aiuto le persone. Realizzo sogni ». Kabir, faccia pulita e sorriso aperto, è ben vestito, ha scarpe eleganti e una giacca alla moda con gilet trapuntato. Pare un agente di viaggi. Dal suo aspetto non penseresti mai a un trafficante di uomini. Kabir, pachistano cinquantenne, preferisce definirsi “mediatore”: «Forse lo fareste pure voi, se sapeste di guadagnare così facile — azzarda Kabir — per ogni persona portata dal Pakistan in Italia trattengo dai 3.000 ai 4.500 euro. C’è un po’ di rischio, è vero, ma è accettabile: io intanto prendo il denaro, poi Dio provvede».
Dimenticate le vittime disperate e i piccoli scafisti che per pochi spiccioli le trasportano in Europa, oggi la più grande e criminosa “agenzia viaggi” del mondo muove milioni di migranti e fattura tra i tre e i dieci miliardi di dollari l’anno. Un esempio: per la tratta più cara, quella dalla Cina agli Usa, il biglietto costa dai 40 ai 70mila dollari. Solo la cocaina produce di più. È un business popolato da tanti piccoli delinquenti, dietro ai quali si celano spesso grandi mercanti di clandestini, gente in doppiopetto dalle immense fortune. Sono gli “smugglers”, i trafficanti d’uomini, i “mercanti di carne umana” condannati ieri anche da Papa Francesco.
Una star del mercato è senza dubbio il turco Muammer Küçük. Per anni è stato il boss indiscusso degli sbarchi illegali nel Mediterraneo. La sua specialità: nasconde i migranti nella pancia delle barche a vela. Quanto guadagna? Basta chiedere a chi lavora per lui, come Ohran, skipper turco: «Calcolate che solo ultimamente sono stati arrestati trentacinque suoi capitani, che hanno portato in tutto venti barche. Ognuna di queste, se non la fermano, fa cinque o sei viaggi a stagione. Un’imbarcazione porta, a viaggio, un guadagno medio di 50mila dollari. Fanno più o meno 300mila dollari a stagione. Se si moltiplica per le venti barche fermate, sono 6 milioni di dollari. Ed è solo parte del colossale fatturato del trafficante turco. Da un peschereccio di venti metri, Muammer ricava molto di più: 500mila dollari, di cui 400mila vanno tutti in tasca sua». Certo, non mancano le spese. C’è, per esempio, da oliare alcuni ingranaggi: «Un ufficiale corrotto riesce a ricavare circa 40mila dollari a stagione. Di solito è un tenente o un colonnello». A far parlare gli “smugglers” è un libro-inchiesta: “Confessioni di un trafficante di uomini” (in uscita il 23 gennaio per Chiarelettere). I due autori, AndreaDi Nicola e Giampaolo Musumeci, hanno viaggiato a ritroso sulle rotte dei migranti, alla scoperta delle fonti dei flussi migratori. Come le isole Kerkenna, inTunisia. Da qui ci si imbarca per l’Italia.
Emir ha un peschereccio con un motore da 30 cavalli. Lampedusa dista 64 miglia, se il mare è buono si raggiunge in dieci ore. «Come recluto i migranti? Ho cinque persone in giro per la Tunisia che mi cercano i clienti — spiega Emir — stanno a Tunisi, Sidi Bouzid, Djerba. Lavorano dove sono conosciuti, devono essere del posto. Io da questo affare devo ricavare il più possibile. Qui, durante la rivoluzione del 2011, era un macello: venivano da tutto il Paese, dopo essersi venduti ogni cosa. Tutti volevano andare a Lampedusa. Non pensate che sia facile, per fare questo business bisogna essere coraggiosi. Tutti devono avere paura di te. I clienti più tranquilli sono gli africani neri, sono timorosi, se ne stanno quieti. Le teste calde sono i tunisini, sono spesso delinquenti o galeotti che arrivano da Tunisi o dall’interno. Sono dei piccoli boss nella loro regione. Io li massacro subito di botte, non ho scelta. Devono capire immediatamente chi comanda. E assesto loro subito due manate in faccia come si deve».
Risalire tutti i nodi della rete è impossibile. Le tratte sono spesso in subappalto, così i grossi trafficanti non si sporcano le mani. «Mi chiamano El Douly, “l’internazionale”, perché sono uno che ha viaggiato molto. Vengo da un villaggio della zona di Suez, in Egitto. Mio padre era ingegnere, grazie a lui ho potuto studiare: mi ha pagato la scuola fino alle superiori». El Douly opera in una delle zone più calde per l’immigrazione irregolare. Gestisce una rete egiziana, che collabora con una grande rete libica specializzata nel muovere i migranti verso la Sicilia. «Ora sono cresciuto nel mio business ed è la gente a cercarmi — racconta El Douly — nei piccoli villaggi dell’Egitto i giovani hanno bisogno di me. Qui non c’è un vero capo, un regista. Siamo in tanti, ci conosciamo e ci fidiamo l’uno dell’altro. Ognuno fa un pezzo del lavoro. È una rete, una collaborazione. A volte la fiducia passa dai legami tra clan, che in alcune regioni del mondo sono molto forti». Insomma, «se cercate un solo capo, significa che non avete ancora capito nulla di questo business».



IMMIGRAZIONE, QUELLE FALSE CREDENZE
La Stampa, 20-01-2014
GIOVANNA ZINCONE
L'immigrazione stimola affermazioni che poco hanno a che fare con la realtà. Faccio qualche esempio.
Lo ius soli è una fobbrica di italiani fasulli, perché per avere la cittadinanza basta nascere qui, con la possibilità magari di passaria ai Igenitori. Falso. Le proposte in pole position prevedono un certo numero di anni di soggiorno regolare dei genitori o dei bambini, per questi ultimi qualche progetto lascia spazio anche ai minori arrivati da piccoli che però hanno studiato in Italia. Aggiungo che la cittadinanza è una strada a senso unico: va solo dai genitori ai figli, non viceversa.
Altro esempio: se si abroga il reato d'immigrazione clandestina saremo invasi da orde di stranieri. Falso. Il reato è stato introdotto con il pacchetto sicurezza Maroni nel 2009 (non dalla Bossi-Fini come si continua a dire) e riguarda anche gli irregolari, cioè coloro che sono entrati legalmente, spesso con un visto turistico, ma ilceui permesso è scaduto. La punizione non è il carcere, ma una salata ammenda che gli immigrati non sono in grado di pagare, quindi in base al principio giuridico ad impossibilia nemo tenetur (a nessuno si può chiedere l'impossibile), ne consegue solo che si intasano tribunali che avrebbero di meglio da fare.
Gli immigrati irregolari sono comunque detenuti nei CIE (Centri di identificazione e di espulsione) per individuare la loro identità e quindi il Paese di origine dove rimandarli alla base. È una misura introdotta dalla Bossi-Fini. Falso. La denominazione deriva dalla fase uno del pacchetto Maroni, quella del 2008, e il meecanismo è stato introdotto dalla Turco-Napolitano del 1998, che li definiva più pudicamente CPT (Centri di Permanenza Temporanea). Il tempo massimo di detenzione era allora di 20 giorni, prorogabili dal giudice fino a 30. I governi di centro-destra lo hanno continuamente alzato, arrivando a 6 mesi e infine dal 2011, in base alla direttiva comunitaria sul rimpatrio degli irregolari, si potrebbe arrivare fino a 18 mesi. L'aumento dei tempi di permanenza nei Centri ha peggiorato drammaticamente le condizioni degli immigrati B trattenuti. Di fetto, i CIE sono talora peggio tenuti delle nostre prigioni (ed è tutto dire) e racchiudono in gran parte persone che non hanno alcuna pericolosità sociale. È uno strumento non particolarmente efficiente. Si stima che coloro che finiscono nei CIE siano una percentuale infima degli irregolari (poco più dell'1%) e che di questi solo poco più del 50% venga rimandato in patria: gli immigrati nascondono la propria nazio- nalità e i Paesi di origine non hanno alcun interesse a riprenderli, perché sono potenziali fonti di rimesse. I Governi, quello italiano incluso, cercano di invogliare gli Stati di origine a riaccogliere i propri emigrati irregolari attraverso accordi economici, sostegno alle forze dell'ordine locali, quote riservate nei flussi di immigrazione programmati. In qualche caso, ad esempio l'Albania, questa politica ha funzionato. Il contrasto dell'immigrazione clandestina si rafforzerebbe se anche gli aiuti derivanti dalla cooperazione allô svi- luppo fossero condizionati ad atteggiamenti collaborativi in questa matéria. Quello del- l'immigrazione irregolare è un nodo difficile da sciogliere: non si possono spalancare le frontière, soluzioni insieme efficaci e giuste non sono pronte all'uso. Certo non serve tuonare allo scandalo. Tanto più che chi troppo spesso predica male, in passato non ha esitato a favorire gli immigrati irregolari. La Lega al governo ha varato, proprio in concomitanza con la Bossi-Fini, tanto vituperata dalla sinistra, una delle più grandi regolarizzazioni europee. Il fatto è che l'immigrazione sfugge alla presa delle leggi. Gli squilibri economici globali, le guerre, i conflitti civili sono motori troppo potenti.
L'Italia affetta da buonismo e disattenta ai propri interessi non seleziona i lavoratori sulla base dell'utilità. Falso. I Governi Italiani lo fanno da un pezzo, da quando hanno adottato gli ingressi programmati vengono specificate quantità e qualità degli immigrati ammessi. Ci sono non solo quote riservate agli Stati che si riprendono gÛ irregolari, ma anche quote per le professioni e le qualifiche scarse sul mercato nazionale. Inoltre alcune categorie «pregiate» possono entrare senza restrizioni. Si aggiunga che l'Italia ha recepi- to la Carta Blu europea che offre condizioni di privilegio agli immigrati altamente istruiti. Se gli immigrati più qualificati non scelgono l'Italia è perché non trovano le nostre offerte economiche e accademiche particolarmente attraenti. Invece le badanti trovano famiglie che le richiedono, anche se la crisi economi- ca, da una parte, ha contratto questa doman- da e, dall'altra, ha spinto un po' di italiane ad offrirai per questa occupazione.
Altra affermazione non solo poco fondata, ma pericolosa. Non diamo priorità agli immigrati provenienti da Paesi culturalmente affini. Ma non è forse anche e molto questo l'Unione Europea? Non è stato anche questo il senso dell'allargamento ad Est? Oggi l'immigrazione dei neo-comunitari sta preoccupando inglesi e tedeschi, terrorizzati dal famoso idraulico polacco, ma non gli italiani che si tengono stretti, se possono, colf e muratori romeni. Inoltre introduire limitazioni o blocchi all'immigrazione da Paesi islamici significherebbe per l'Italia discriminare soprattutto i marocchini che costituiscono la nostra seconda minoranza dopo i romeni. Non definirei proprio il Marocco uno stato fondamentalista. Sottolineo che discriminare i musulmani potrebbe suscitare reazioni internazionali e persino interne molto gravi. A chi si preoccupa per rischi di attacco ai valori repubblicani va ricordato anche che dal 2012 è entrato in vigore l'Accordo di Integrazione in base al quale si chiede a chi voglia lavorare in Italia di impegnarsi a seguire un percorso di integrazione e di accettare la carta dei valori, che prevede tra l'altro la parité di genere e la tolleranza religiosa. Non è una ricetta miracolosa, ma non vedo moite ricette migliori. Insomma, non concordo con Angelo Panebianco, un collega che per altri versi stimo molto e che ha sostenuto queste tesi. Credo però che il dissenso si debbaesprimere con argomenti non con secchiate di vernice.
Ultima affermazione infondata. Cécile Kyenge non è adatta a fare la Ministra perché è un'oculista. Falso. Dovremmo forse nominare solo politologi e costituzionalisti, che magari sanno assai poco della materia? Oppure equanimi odontoiatri come Calderoli? Kyenge, prima di essere nominata, ha operato a lungo nelle organizzazioni che si occupano di immigrati e ne sa molto più dei suoi tanti critici. Soprattutto rispetto a loro è persona bene educata, cortese, con un forte senso delle istituzioni e dei ruolo che ricopre. Scusate se è poco.



Scegliere gli immigrati come fustini di detersivo al supermarket?
Corriere.it, 20-01-2014
Danilo De Biasio
Ognuno ha i riferimenti culturali che si merita. Tra i miei c’è Carosello. Ricordo il famoso attore con il dolcevita bianco che cercava di strappare alla casalinga col cappottino e collo di pelliccia il suo fustino di detersivo, offrendogliene due di una marca diversa. “E’ conveniente!”, spiegava l’attore. Ma inesorabilmente la signora resisteva, dichiarando che la sua scelta era migliore, che la sua convenienza stava nel risultato, non nell’offerta quantitativa. Bei tempi quelli di Carosello: se l’erede del famoso attore andasse oggi in un discount a fare la stessa proposta, otterrebbe il risultato opposto. Da tempo siamo entrati nell’era del «3 x 2». Angelo Panebianco, sulla prima pagina del Corriere della Sera, ha proposto sull’immigrazione il criterio «della convenienza, della nostra convenienza». Sarebbe interessante stabilire chi siamo «noi», ma per il momento mi soffermo sul concetto di convenienza.
Il professore, nel suo articolo, sembrava stesse scegliendo il detersivo al supermarket: di quanti immigrati abbiamo bisogno, settori tecnici lasciati sguarniti, manodopera qualificata… Finora non ha funzionato così non solo e non tanto perché domanda e offerta non s’incrociano, ma piuttosto perché le migrazioni nascono da esigenze impellenti e sono alimentate da disuguaglianze scandalose. Sono spesso fughe da un inferno, sono ricerche di una vita migliore. E – non per ultimo – lasciare buona parte della popolazione migrante in condizioni di inferiorità genera interessi economici. Insomma Panebianco propone un criterio forse discutibile ma esclusivamente teorico.
    Attenzione a parlare di convenienza economica.
Ovviamente il professor Panebianco parla di convenienza all’interno delle leggi dello Stato. Ma occorre comunque stabilire un limite, perché la migliore convenienza in questo campo è la schiavitù. Do per scontato che il professor Panebianco sia contrarissimo, che la respinga e la condanni, ma resta il fatto che nei campi di pomodori, in alcune finte cooperative di logistica, perfino in certi ristoranti che frequentiamo, la convenienza economica è massimizzata. E solo in minima parte – ammetterà il professore – dipende dal numero di migranti: la moderna schiavitù dipende da alcune leggi e dal controllo ferreo di taluni territori da parte della criminalità organizzata.
    C’è poi la selezione religiosa.
Nel suo articolo il professor Panebianco scrive «certi gruppi, provenienti da certi Paesi, dovrebbero essere privilegiati rispetto ad altri gruppi, provenienti da altri Paesi, se si constata che gli immigrati del primo tipo possono essere integrati più facilmente di quelli del secondo tipo. È possibile che convenga favorire l’immigrazione dal mondo cristiano-ortodosso a scapito, al di là, di certe soglie, e tenuto conto del divario nei tassi di natalità, di quelli provenienti dal mondo islamico». Sicuramente è un passo in avanti nella civiltà: ricordate quando l’allora Ministro Calderoli affermava «ci sono etnie con una maggiore propensione al lavoro e altre che ne hanno meno. Ce ne sono che hanno una maggiore predisposizione a delinquere»? Oggi siamo di fronte a una riflessione più sofisticata: si usa il condizionale e s’introduce la variante religiosa, la nazionalità non è più automaticamente uno stigma ma un indole. Il ragionamento si complica quando però si scopre che non sempre nazionalità e religione sono accoppiati: come la mettiamo con gli egiziani copti? Tutti buoni? E i romeni ortodossi? Tutti cattivi? Ogni tanto capita di incontrare uno scozzese generoso, un portoghese che paga il biglietto, un friulano astemio, un emiliano vegetariano…
    Ha fatto bene il direttore del Corriere della Sera a mettere in prima pagina il ragionamento del suo corsivista. Farebbe altrettanto bene a far proseguire il dibattito, ospitando altri punti di vista. Perché forse la «nostra convenienza» (di cui scrive Panebianco) è tale solo quando si riuscirà ad abolire quel «noi» contrapposto agli «altri».



Migranti, dove l'integrazione avviene nella fattoria che fabbrica grissini, biscotti e si produce vino rosso
Alle porte di Roma l'Azienda agricola "Tenuta del cavaliere" dove Alì e i suoi compagni immigrati rifugiati e alcuni ex detenuti vogliono ritrovare il loro posto nella società, imparando un mestiere, acquisendo una specializzazione, creando una vera e propria cooperativa di agricoltura sociale
la Repubblica, 17-01-2014
VLADIMIRO POLCHI
ROMA - Ali è un mago dei grissini. Li fa al peperoncino, al rosmarino, cacio e pepe, alla cipolla, al papavero e al finocchio. E poi all'uva passa e al vino rosso, il massimo. Ali lavora in una fattoria nelle campagne a nord di Roma. È un profugo afgano in Italia. Con lui faticano i suoi compagni d'avventura, tutti rifugiati e qualche ex detenuto. Il loro progetto ha un bel nome: si chiama "Fattorie migranti".
Cooperativa di migranti ed ex detenuti. "I nostri prodotti - spiegano dalle Fattorie - nascono nell'azienda agricola "Tenuta del cavaliere", alle porte di Roma. È qui che coltiviamo il nostro orto, che pascolano gli animali, che si trovano le nostre cucine e le nostre case. Il progetto è promosso dal comune di Roma e dalla cooperativa sociale PID e si chiama "Fattorie migranti", perché punta a insegnare un lavoro a un gruppo di migranti o ex detenuti che vogliono ritrovare il loro posto nella società, imparando un mestiere, acquisendo una specializzazione, creando una vera e propria cooperativa di agricoltura sociale".
Ali e i suoi compagni. "Il progetto è nato nel 2012 - racconta Livia Fiorletta, operatrice di Fattorie migranti  -  per formare al lavoro ex detenuti, ma soprattutto rifugiati e richiedenti asilo. Finora in dieci hanno partecipato, per lo più afgani come Ali. Tutto è cominciato quando il comune di Roma ci ha assegnato un terreno all'interno di un'azienda agricola comunale. Abbiamo avuto anche un casale che, dopo aver ristrutturato, abbiamo destinato a casa famiglia per i rifugiati".
Biscotti e grissini. Alle Fattorie migranti si coltiva la terra e si cuociono prodotti dolci e salati. "L'idea è quella di unire la valenza sociale del progetto all'altissima qualità dei prodotti. Per questo nelle nostre cucine ci sono cuochi professionisti che seguono passo passo la lavorazione dei prodotti. E per questo tutto è fatto interamente a mano, senza conservanti". Il progetto finora ha camminato grazie ai finanziamenti comunali. "Ma da questo mese dovremo andare avanti da soli, con la vendita dei nostri prodotti  -  fa sapere Fiorletta  -  con lo scopo anche di far diventare i migranti soci della cooperativa".

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