Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

04 dicembre 2013

30 morti ogni mille partenze
Migranti, vittime senza volto ma con un numero: 623 mila dal ‘98
il fatto, 04-12-2013
Alessandro Oppes
Madrid  Il flusso è continuo, inarrestabile. E quando si interrompe è solo perché le carrette del mare alla deriva, gestite dalle mafie del traffico di esseri umani, trasformano il Mediterraneo in un cimitero a cielo aperto. Sempre più immigrati, sempre più alto il numero di vittime. Secondo una ricerca del Migration Policy Centre dell'Istituto universitario europeo di Firenze, gli sbarchi lungo le coste meridionali del continente sono stati 623mila nel corso degli ultimi 15 anni, con una media di oltre 40mila migranti illegali l'anno. Ma soprattutto, è andata drammaticamente in crescendo la percentuale di vittime: più di 30 morti durante la traversata ogni mille persone che si imbarcano, a partire dal 2007, mentre fino al 2001 la cifra era inferiore al 10 per mille.
Un bilancio fallimentare per la “fortezza Europa” che, oltre a rivelarsi tutt'altro che inespugnabile, non riesce a evitare che i viaggi della disperazione assumano i contorni di una tragedia permanente. Secondo i dati aggiornati alla metà dello scorso mese di ottobre, le persone morte in mare dal 1988 sono 19.372, di cui 2.350 solo nel corso del 2011, cifra scesa a 590 lo scorso anno, mentre nel 2013 sono già circa 700.
CIFRE CHE CONDUCONO a una conclusione inequivocabile: la rotta marittima verso l'Europa è diventata “la più pericolosa al mondo”. Non solo per le condizioni estremamente precarie in cui sono costretti a viaggire i migranti, stipati su imbarcazioni insicure e sovraccariche (ora, soprattutto dal Nordafrica verso la Spagna, si tentano spesso impossibili traversate anche a bordo di piccoli canotti gonfiabili), ma anche per la sorveglianza sempre più rigida da parte dei paesi Ue, che costringe i migranti a scegliere rotte più lunghe e a più alto rischio. Lo si vede anche dai grafici che corredano lo studio del Migration Policy Centre: fino al 2007, il principale paese di destinazione era la Spagna (relativamente prossima al continente africano), ora è l'Italia, più lontana e difficile da raggiungere.
Una svolta spiegabile, in parte, con gli accordi bilaterali conclusi dal governo Zapatero con Senegal, Mauritania e Marocco per frenare i flussi migratori all'origine. E con i controlli sempre più severi per bloccare l'accesso a Ceuta e Melilla. Ora, con il dispositivo di vigilanza Eurosur entrato in funzione due giorni fa, l'Europa si propone di lottare contro l'immigrazione clandestina e “salvare i profughi che fuggono via mare”. Proposito tutto da verificare, dopo i fallimenti degli ultimi anni.



Vito, il pescatore eroe di Lampedusa: “Così ho capito che era un massacro”
A due mesi dal naufragio, raccolte le testimonianze di superstiti e soccorritori
Il 3 ottobre scorso un barcone di immigrati è naufragato al largo di Lampedusa. Alla fine i morti sono stati 366
La Stampa 03-12-13
Niccolò Zancan
«Io sono Vito Fiorino. Ho 64 anni e non sono un eroe. Voi che non vivete di mare, lo sapete che si muore di maestrale?». Era la prima cosa che ti dicevano tutti, il pomeriggio del 3 ottobre. «Andate a cercare Vito. Ha un bar sulla strada principale. Potrà spiegarvi meglio di chiunque altro quello che è successo». A Lampedusa c’era un sole stupendo. Atterravano in continuazione aerei carichi di giornalisti ed elicotteri della marina militare. Su furgoni del pane e del pesce, invece, arrivano i primi cadaveri ripescati al largo dell’Isola dei Conigli. Li allineavano nell’hangar dell’aeroporto, dentro sacche di nylon di tre colori diversi. Per ogni corpo, un numero scritto a pennarello: 114 alle sei di sera.
A quell’ora Vito Fiorino aveva chiuso il suo piccolo bar per lutto autodecretato. Camminava avanti e indietro per via Roma, con un codino di capelli bianchi che sbatteva sulla canottiera stinta dal sole. I parenti lo chiamavano al cellulare inorgogliti, ogni tre minuti: «Corri al bar... Torna, Vito. Dai... Ti vogliono intervistare. C’è Canale5». Ma lui continuava a camminare scuotendo la testa, sempre sul punto di scoppiare a piangere. Ripeteva a bassa voce: «Ho fatto soltanto quello che dovevo fare».
Il giorno prima era andato a pesca di tonnetti con sette amici. Insieme avevano dormito in mare e brindato alla fine dell’estate. Erano in pace. Fino a quel rumore stridulo delle sei del mattino. «All’inizio pensavo fossero gabbiani, stormi di cavazzi. Lo ripetevo al mio amico, che per primo si era svegliato. “Gabbiani, gabbiani, stai tranquillo...”. Ma mi sbagliavo. Erano urla di ragazzi a braccia alzate, che chiedevano aiuto in mezzo al mare, a mezzo miglio da noi. Allora ho preso la ciambella di salvataggio e ci ho attaccato una cima. Abbiamo incominciato a tirarli a bordo uno dopo l’altro, senza nemmeno bisogno di guardarci negli occhi. Erano ragazzi stravolti, nudi, sporchi di nafta, per questo scivolosi. Ho chiesto a uno: da quanto siete in acqua? Mi ha risposto: quattro ore. C’era scirocco e non maestrale, per fortuna. Il vento li aveva portati verso riva. Ho chiesto a un altro: quanti siete? Cinquecento, mi ha riposto. Allora ho capito che era una massacro».
Vito Fiorino ha salvato quarantasei uomini e una donna. Li ha contati personalmente durante le opera- zioni di sbarco al molo Favaloro. Era furioso per- ché i soccorsi, se- condo lui, avreb- bero potuto esse- re più rapidi. O al- meno non imbri- gliati dentro pro- tocolli assurdi. «Sono arrivati con navi enormi che non servivano per ripescare i naufraghi dice ho chiesto di poter trasferire i miei ragazzi sulla loro barca per continuare il salvataggio, ma loro non hanno voluto». Ancora oggi è tormentato dagli orari: «Alle 6,40 abbiamo chiesto aiuto attraverso il canale 16 della radio di bordo, collegato con la capitaneria  di Lampedusa. Nulla. Alle 7,20 abbiamo chiamato via telefono il centralino di Roma e ci hanno risposto: “Stanno arrivando”. Ma sono passati altri 5 se non 10 minuti, non riesco a pensarci. Mi sale una rabbia...». I morti, alla fine, saranno 366.
Tutti i protagonisti di questa storia ne sono prigionieri. Tutti hanno perso per sempre qualcosa, anche i sopravvissuti. E tutti temono di restare in silenzio, a sentire ancora quelle grida che non erano gabbiani. Ecco perché è nato il progetto «Sciabica». È una parola araba che significa rete da pesca. Vuole essere un modo per impigliare la storia, i vivi e i morti, per non lasciarli andare.
Per non dimenticarli. È una raccolta di testimonianze. Piccole frasi lapidarie. Pizzini come quello di Vito Fiorino. O come questo: «Io sono Russom, ho trent’anni e non sono un eroe. Dal mare mi ha salvato Dio. E Vito».
Russom non possiede neppure il suo cognome. Non può dirlo perché ha paura che il governo del suo Paese metta in atto delle ritorsioni contro i parenti. Dall’Eritrea scappano spesso ragazzi condannati alla leva militare permanente. Russom è nato in un villaggio nel deserto. Per poter incominciare a sognare il grande viaggio ha dovuto rinunciare a tutto. Lo ha raccontato ai coordinatori del progetto Sciabica: «Ho venduto le mie 50 pecore. Mia moglie ha venduto l’oro che aveva. Io sono un pastore, so leggere le stelle. A piedi dall’Eritrea sono arrivato a Khartum, Sudan. Ho pagato 2200 dollari per andare in Libia. In Libia ho speso 1300 dollari per salire sulla barca affondata il 3 ottobre 2013. Quella notte abbiamo bruciato coperte per farci vedere, anche se qualcuno ci aveva già visto. Chi di noi sapeva nuotare si è buttato in mare. Io mi sono spogliato e mi sono tuffato».
Lo hanno messo a verbale diversi testimoni. Almeno due imbarcazioni – forse tre – hanno visto alla deriva il barcone carico di immigrati. Motore in panne. La costa ormai vicina, ma non abbastanza. Accendere un fuoco doveva servire per rendersi finalmente visibili.
Invece si sono ritrovati a nuotare nel mare scintillante di stelle. Un mare enorme e calmo, blu cobalto. Russom ha resistito per quattro ore. Stava per arrendersi quando ha sentito il braccio di Vito che lo issava a bordo. Da quel giorno lo chiama «papà». Gli deve una seconda vita. Insieme combattono contro il silenzio. Per loro e per tutti quelli che non si sono salvati. Ecco perché questa sera Vito Fiorino sarà al Circolo dei lettori di Torino per testimoniare. «Ho guardato quei ragazzi negli occhi. Ho capito che hanno un cuore e un coraggio a noi sconosciuti. Sono orgoglioso che Russom mi chiami papà. Ma nulla può avere un senso se questa tragedia non ci indicherà la strada perché non succeda mai più».



L’eroina in lacrime premiata a Berlino «A Lampedusa troppi affaristi»
Le motovedette tardarono perché aspettavano ordini da Roma
Corriere della sera, 03-12-2013
Felice Cavallaro
CATANIA — Sono passati due mesi esatti dal naufragio di Lampedusa con i 366 migranti annegati a mezzo miglio dall’isola dei Conigli. E una delle immagini che simboleggiano la tragedia è quella di Grazia Migliosini, commerciante e turista, quel giorno per caso in zona. La prima a intervenire, con sette amici, riuscendo a salvare 47 disperati. La prima a rientrare con quel carico dolente al Molo Favorolo. Lei, dritta a prua, le lacrime asciugate col dorso di una mano e una rabbia subito denunciata «per il ritardo di motovedette che invece di salvare vite umane aspettavano ordini da Roma», come disse allora e ripete oggi.
Una denuncia inquietante seguita dal silenzio su quell’equipaggio di giovani che per fortuna, avendo deciso di passare la notte in rada per pescare, all’alba si erano accorti del dramma lanciando il primo allarme. Elogi, citazioni ufficiali ed encomi a tanti non ne sono mancati. Ma Grazia e i suoi amici sono rimasti un po’ oscurati, dalle nostre parti. Mentre in Germania li hanno chiamati perfino per la notte delle stelle, i «Bambi Awards», i riconoscimenti più importanti dei media tedeschi. E lei si è ritrovata sullo stesso palco con Bill Gates e Robbie Williams, come racconta appagata: «I tedeschi si sono accorti di noi. Hanno proiettato un filmato commovente, con le immagini sul mio arrivo, in piedi sulla barca, in lacrime. Ed erano lacrime di dolore perché si poteva fare di più. Per questo ci siamo permessi di criticare chi non è arrivato in tempo per aiutarci a salvare altre decine di migranti».
Eccola a Catania, appena rientrata da Berlino, lontana da Lampedusa dove ha saputo di Domenico Colapinto, il pescatore in analisi che, dopo aver partecipato ai soccorsi, non riesce più ad andare per mare: «Io spero di riaprire la boutique in aprile, di tornare nell’isola, ma so che quelle immagini restano impresse nell’anima e tornano la notte. Così, prendo le distanze da quanti si stanno facendo un po’ di pubblicità, da qualche personalità politica, dal nostro sindaco, da alcuni aspiranti candidati a prossime elezioni, da quelli del Centro di accoglienza, da alcuni sponsor della Guardia costiera che merita rispetto ma senza nasconderne insufficienze e ritardi».
Insiste lei con Marcello Nizza, anche lui a Catania, e con gli altri amici di quella drammatica alba: «Un’inchiesta sui morti che hanno fatto morire non la faranno mai. Ma si potrà dire o no la verità se una motovedetta, invece dei 17 minuti ufficialmente strombazzati, ne impiega 47 per raggiungerci dal porto all’Isola dei Conigli? Io so che col mini-fuoribordo di mia sorella bastano cinque minuti».
Dura, determinata, amareggiata dopo la pausa tedesca, contrattacca, leggendo le ultime ricostruzioni su un’altra tragedia finita male: «Si è ripetuto lo stesso copione l’11 ottobre, con duecento migranti morti a causa dei ritardi. Al di là di ogni retorica, sprechiamo soldi e non riusciamo a impedire che questi disperati affoghino nel Mediterraneo. Basta con la retorica. Che male c’è a dire che la macchina non funziona come vorremmo? È il quesito posto a Berlino, mentre da Lampedusa a Roma noi siamo nessuno».
Ha raccolto le copie dei giornali, si è documentata e i conti non le tornano: «Quando abbiamo sentito che da Bruxelles piovevano 30 milioni di euro all’Italia ho capito che Lampedusa è il cuore di un business. Un affare. Ho scoperto che in sei anni dalla Ue sono arrivati 580 milioni di euro all’Italia per l’emergenza extracomunitari. Posso dichiararmi sorpresa? Ho il diritto di interrogarmi, visto che ho contribuito a salvare 47 disperati? No, non punto il dito contro la Guardia costiera, ma contro un sistema nel quale vedo bene immersi tanti maneggioni e opportunisti».



Condannati al silenzio
il manifesto, 04-12-2013
Annamaria Rivera
Niente di edificante c'è in questa cupa tragedia. Niente che possa permetterci di dire «eppure...». Eppure si ribellano, per esempio, come poté dirsi degli schiavi di Rosarno a gennaio del 2010. Eppure hanno il coraggio d'incrociare le braccia e sfidare il caporalato, come dicemmo dei duemila braccianti immigrati che alcuni mesi dopo occuparono sedici «rotonde» tra Caserta e Napoli.
No, gli operai cinesi arsi vivi, intrappolati come topi fra pareti di cartone e pavimenti d'amianto, non erano che forza-lavoro bruta, nuda vita a disposizione del capitale globalizzato.
Privati di ogni alternativa e possibilità di uscita dalla loro condizione, quindi appropriati da padroni e padroncini di stile ottocentesco sì, ma avvezzi alle Porsche e a frequenti viaggi intercontinentali: essi stessi al servizio del cieco meccanismo del profitto e della competitività a ogni costo e su scala planetaria.
Scrivo volutamente nuda vita: cioè spogliata del nome, della voce, di ogni diritto e statuto giuridico, perfino della possibilità di ribellarsi. Sebbene il concetto sia abusato, non è improprio per dire di esistenze che passano senza nome in sordidi capannoni ove si lavora, si vive e si muore: zone di sospensione quasi totale della legge, comparabili perciò, in qualche misura, ai campi di concentramento. Nei quali proprio perché la legge era sospesa «tutto era possibile», scriveva Hannah Arendt. L'analogia non è troppo azzardata e irrispettosa, se è vero che è venuta in mente anche a Enrico Rossi, presidente della Regione Toscana: «Vivono e lavorano in soppalchi che ricordano quelli di Auschwitz».
Queste piccole Dachau - più che Auschwitz - ci confermano che l'epoca del neoliberismo trionfante non ha affatto archiviato relazioni e condizioni di lavoro «arcaiche». Al contrario: il tempo del capitale globalizzato ha assorbito perfettamente il «non-contemporaneo», per dirla alla maniera di Ernst Bloch, sussumendone anche le forme di sfruttamento estreme, fino alla schiavitù. L'«arcaico» è, infatti, perfettamente funzionale alla delocalizzazione in loco, come si dice, e alla logica della competitività. Da cui traggono profitto numerosi attori economici, di ogni livello e non solo cinesi, fino all'immobiliare italiana proprietaria dello squallido capannone. Senza una rete vasta di profittatori e complici non si costruisce un sistema economico illegale dal valore di almeno un miliardo di euro l'anno. Sappiamo, per esempio, di una «missione» in Cina di un anno fa, promossa dall'Unione industriale di Prato e finanziata dalla Regione Toscana. Oltre lo scopo dichiarato e conseguito - ammorbidire i controlli severi e minuziosi di Pechino sui prodotti tessili in ingresso nel Paese -, quali ne erano gli obiettivi non dichiarati, quale la contropartita italiana?
Se davvero capillari ed efficaci, i controlli da parte di autorità locali e nazionali (ispettorati del lavoro, polizia, carabinieri, vigili urbani, guardia di finanza...) avrebbero potuto almeno inceppare un meccanismo che si perpetua da un ventennio. Ma al di là di questo, per sottrarre al silenzio e all'impotenza le esistenze di questi operai schiavizzati niente sembra sia stato tentato neppure sul versante di misure non repressive bensì inclusive. Del tutto inefficace si è rivelato, per esempio, il decreto-legge 109/2012. Questo dispositivo stabilisce che, in casi di «particolare sfruttamento lavorativo», si possa concedere il permesso di soggiorno «allo straniero che abbia presentato denuncia e cooperi nel procedimento penale instaurato nei confronti del datore di lavoro». In realtà, avendo mal interpretato la direttiva europea che lo imponeva, quindi non prevedendo alcun meccanismo di tutela per chi denuncia, il decreto è rimasto in sostanza lettera morta, come insistono da tempo sindacati e associazioni antirazziste.
C'è un altro aspetto sconfortante in questa tragedia. Nel corso degli anni la propaganda e la politica al servizio della xenofobia hanno costruito l'immagine indiscutibile di una diaspora cinese «chiusa, con cui è difficile dialogare, per la quale isolarsi sembra quasi una condizione prescelta»: così dichiarava nel 2007, pur auspicando il dialogo, il ministro dell'Interno Giuliano Amato a commento dei fatti di via Paolo Sarpi, a Milano.
Quest'immagine negativa totalizzante, che non ammette eccezioni, ha pesato come un macigno sull'opinione pubblica, sulla politica, sui media. E già va declinando quel poco di attenzione e di pietas che le vittime della strage hanno ottenuto. Fino al momento in cui scrivo, a Prato nessuna visita è prevista da parte di ministri/e. Quanto al sistema d'informazione, il 1° dicembre, i quotidiani online più importanti hanno atteso ben dodici ore prima di promuovere la tragedia a notizia di rilievo.
A noi spetta tentare di tenere accesa la fiammella tremula della solidarietà e dell'empatia, consapevoli che il Macrolotto di Prato ci riguarda assai da vicino: è il «modello di sviluppo» che intendono imporci «per uscire dalla crisi»; è la sorte che già è riservata a tanta parte del nuovo proletariato arcaico, di ogni colore e nazionalità.



Ombre cinesi
Dopo la tragedia di Prato viaggio nella comunità immigrata più atipica e meno integrata. Solo lavoro e nessun diritto. Complici gli italiani
la Repubblica, 04-12-2013
RICCARDO STAGLIANO
Il monumento all’incomunicabilità era il gran tazebao di via Pistoiese. Nel cuore della Chinatown pratese un muro ricoperto di annunci in ideogrammi. Si capivano solo i numeri di telefono. Annunci di lavoro, bici vendesi, una stanza da dividere. Ma poteva esserci scritto qualsiasi altra cosa e nello spread tra comprensione e pregiudizio le persone si allontanano. Fino alla clamorosa fiaccolata di ieri sera. Quando, per la prima volta, la comunità ha mostrato le foto dei suoi morti. Un piccolo passo per uscire dall’invisibilità. Sì, perché dei cinesi non si sa niente. Ci servono il caffè, ci vendono cianfrusaglie. Hanno inventato la religione del low cost prima che diventasse marketing. Da una parte commiseriamo le loro vite 24 ore su 24, sette giorni su 7. Dall’altra ci fanno paura, per una capacità di lavoro preternaturale, inconcepibile, da prima rivoluzione industriale. Però poi buongiorno e buonasera. Paghiamo pochi euro per un caricatore dell’iPhone che costerebbe sei volte tanto e siamo contenti. Fino a quando le contraddizioni di questo sistema esplodono, letteralmente prendono fuoco in un capannone pratese come tanti, e sette persone muoiono bruciate all’alba di una domenica come tante, dopo una notte passata verosimilmente a cucire.
Più che esseri umani, con nomi e storie individuali, ombre cinesi. Sempre più minacciose con la crisi che morde più feroce che mai. I nemici ideali, per dirla con Carl Schmitt, per ridefinire la nostra identità ammaccata. Se Prato muore la colpa deve essere di qualcuno. Ci sono tanti cinesi, che sgobbano da mattina a sera. Il sillogismo è fatto.
Peccato che sia un sillogismo, appiccicato sugli immigrati ben oltre la provincia toscana, sbagliato.
Per capire quello che è successo bisogna andare all’origine di questa storia e di queste storie. I cinesi sono immigrati anomali. Si mettono in proprio più degli altri. E a Prato sono riusciti in un’impresa che non poteva non avere conseguenze sulla psiche cittadina. «È l’unico luogo dove, in una sola generazione, sono diventati “ditte finali” e non solo terzisti per conto di italiani» spiega Antonella Ceccagno, docente di sociologia dei Paesi asiatici a Bologna che su incarico delle giunte precedenti li ha studiati. «Qui c’era il tessile. Loro hanno portato il pronto moda. Ma il contributo che hanno dato alla ricchezza locale non è stata sufficiente a compensare la crisi del tessile». Su cui si è innestata quella globale e ne ha fatto le spese la sinistra che da sessant’anni governava la città. «A quella economica è seguita una perdita di legittimità. E la coalizione di destra ha vinto in chiave anti-cinese». Non senza paradossi. Come il sindaco Roberto Cenni, imprenditore della moda, che mentre denunciava i cinesi locali andava a delocalizzare in Cina. O l’assessore alla sicurezza Aldo Milone che, lamentandosi in pubblico dell’invasione immobiliare orientale, in privato vendeva loro una villetta.
Le ipocrisie della politica non cancellano tuttavia i problemi. Se, fino a ieri, nessuno è andato a riconoscere i morti è perché i loro
stessi parenti potrebbero essere clandestini e non hanno intenzione di autodenunciarsi. È lo stesso motivo per cui molti evitano l’ospedale gratis e preferiscono farsi curare, pagando, da medici fidati. Invisibilità su cui allignano le leggende. Come quella nera, tragicamente smentita, che non muoiono mai. La verità è che intanto sono in media molto più giovani degli italiani e quando cominciano ad avere problemi seri tornano in Cina. Perché «la foglia non deve cadere lontano dall’albero » e per farsi curare da qualcuno che capisce bene la loro lingua. Chi proprio volesse verificare l’offensiva inconsistenza del mito, può farsi un giro ai cimiteri di Milano e di Brescia. Venire qui è costato loro tutto ciò che avevano, anzi di più. Se non hai nessuno in Italia paghi uno “she tou”, una testa di serpente, il trafficante che ti trova i contatti con un potenziale padrone. Ma anche se hai un parente che chiede espressamente te, succede che si faccia pagare per la cortesia. Solo i fortunatissimi partono da zero. Tutti gli altri da meno 12 a meno 18 mila euro, l’equivalente di un anno o più di salari mancati, per ripagare il debito. Questo per spiegare i turni disumani. Poi, finalmente “liberti”, inizia l’accumulazione originaria. In dieci in un soppalco, senza riscaldamento, risparmiando su tutto. Il cursus honorum di privazioni finisce generalmente col matrimonio, il giorno più ricco della vita, dove parenti e conoscenti consegnano le buste rosse piene di contanti. Vengono da lì i 50, 100, 150 mila euro cash che le banche non avrebbero mai concesso e che diventano la proposta che i proprietari di immobili italiani non possono rifiutare. Non sono, come si tende a romanzare, i soldi delle triadi. Ma il frutto del “guanxi”, quel sistema creditizio premoderno, clanico, basato sui prestiti reciproci, e che funziona sul presupposto che il 90% dei cinesi d’Italia vengono tutti dalla stessa regione, lo Zhejiang, e sono tutti in qualche modo legati da pochi gradi di separazione. Chi sgarra, e non restituisce il favore quando serve, diventa un “herein”, una persona nera, ostracizzata per sempre.
Può non piacere, ma funziona. Al punto che in un convegno recente a Prato intitolato provocatoriamente “Per fortuna vendo ai pratesi” spiegava come questo mutuo soccorso fosse anti-ciclico, non risentisse della mancanza di liquidità della crisi globale. Anzi, alla locale Unicoop i cinesi, ufficialmente il 7% della popolazione (16 mila persone, ma si stima che con gli irregolari siano almeno il doppio) consumassero il 25% dei prodotti per l’infanzia. E da quando il supermercato impiega commessi che conoscono il mandarino, come succede da sempre nella vicina Farmacia Etrusca o alle Poste della Chinatown, gli affari vanno benissimo. Per gli italiani, grazie ai cinesi. Dove si ferma la politica arriva il commercio. Però la prima resta essenziale. «A Campi Bisenzio e a San Donnino, dove i problemi di convivenza si sono presentati prima che a Prato, adesso conviviamo pacificamente» racconta Wang Dongbo, presidente fiorentino di Associna, l’associazione delle seconde generazioni. Un percorso lungo, culminato nel 2008 con la nomina del primo assessore cinese, una laureata in chimica, ai rapporti con la comunità orientale. «Lì tendenzialmente non si trovano più dormitori come quello bruciato in via Toscana. A Prato però gli affitti per gli stranieri costano di più. E i trasporti pubblici da e per il Macrolotto sono praticamente inesistenti. Su questo l’amministrazione potrebbe impegnarsi. Le colpe? Sono di tutti. Dei cinesi che non rispettano la sicurezza, ma anche degli italiani che ci lucrano, sia come affitti che come costi di produzione. E anche di noi consumatori che non disdegniamo risparmi assurdi». Rincara la dose la sinologa Ceccagno: «Queste condizioni di lavoro sono funzionali al sistema della moda. Se non fosse così le avrebbero già risolte ».
Il sindaco e il suo assessore alla sicurezza hanno già annunciato raid a tappeto. «Difficile immaginare che miglioreranno i rapporti » osserva mestamente Luciano Luongo, appassionato professore di italiano all’Istituto Datini che da anni cerca di migliorare la comprensione reciproca. «Le regole vanno rispettate, ovvio, ma anche da parte dei pratesi che affittano loro i capannoni a 8-12 mila euro al mese e poi fingono di ignorare l’uso che se ne fa». I problemi sono complessi, quella economica è solo la buccia e la polpa culturale non si cambia in un giorno. Ne è convinto anche Massimo Luconi, regista pratese autore di “L’occupazione cinese” che Rai Storia ha appena mandato in onda: «Ho visto fabbriche in condizioni pessime e altre esemplari, gestite da giovani cinesi forse più ligi di quanto non lo sarebbero gli italiani. Se ne esce solo insieme, non c’è alternativa». Magari facendo il primo passo. Anni fa Alexia, una ventenne cinese di Prato, aveva un’agenzia immobiliare tra due negozi italiani: «Mai una volta che uno dei titolari mi dicesse buongiorno. Tantomeno come stavo. Ed ero solo una ragazzina ». Oggi lavora in banca e si è sposata con un italiano, un ex assessore. Dei cinesi non si sa niente, ma se si chiede gentilmente ti rispondono. A volte anche affermativamente a proposte di matrimonio.



Quelle braccia italiane nelle Rosarno d'Australia
il manifesto, 04-12-2013
Eleonora Martini
Viaggio tra i nuovi emigranti del Belpaese: giovani con la laurea riposta nel cassetto, disposti ai lavori che in patria lasciano agli africani Nessun lavoro invece per i rifugiati, rinchiusi nei centri dislocati in Papua nuova Guinea, a Manus Island o a Nauru Tra il 2011 e il 2012 l'88,6% in più di italiani ha rinnovato il visto Working Holiday concesso agli under 31
'AUSTRALIA. Sempre più braccia e non solo cervelli in fuga dall'Italia, ormai. L'elenco delle "Rosarno" d'Australia è lungo e lo stila lo stesso governo di Canberra. Childers, Echuca, Shepparton, Forbes, Ayr, Boonah, Bowen, Gatton, Ulverstone: sono solo alcune delle località dove si concentrano le farm più importanti per la raccolta di pomodori, dal Southern Queensland allo stato di Victoria, fino alla Tasmania. La National Harvest Guide le descrive minuziosamente, non tralasciando informazioni turistiche e attrattive locali, e spiegando alle migliaia di giovani europei che ogni anno si riversano in pellegrinaggio in questi santuari del Working holiday visa quando andare, come arrivare e a chi rivolgersi. Bastano 88 giorni di duro lavoro in queste cattedrali ai margini dell'arso deserto australiano per ottenere un secondo anno di visto e guadagnarsi così la chance di una nuova vita nel paradiso dei surfisti. Il sogno degli under 31 europei, e italiani in particolare, parla ancora inglese ma non è più americano: si nutre di parole come wild life, health, wellness, fitness, organic.
È questa l'Australia, nelle fantasie dei giovani italiani che negli ultimi due anni in numero più che raddoppiato hanno comprato un biglietto di sola andata per il lungo viaggio Down Under. Disposti a spezzarsi la schiena sotto il sole, a fare i lavori più umili, quelli che in patria lasciano volentieri alla mano d'opera africana. In attesa, ogni mattina all'alba in quegli incroci polverosi che chiamano town, del furgoncino guidato da aborigeni sottopagati che li preleva, se il farmer decide di assumerli per una giornata a raccogliere frutta o vegetali, a governare gli animali o anche solo a spalare letame. Disposti a seppellire nel cassetto quel titolo di studio così importante alle nostre latitudini e così inutile nel «paese delle opportunità», dove «ti mettono alla prova e se funzioni il lavoro è tuo», come ripetono in ogni ristorante, in ogni fattoria e in ogni cantiere edile popolato da immigrati d'ultima generazione. Non sempre il sogno si avvera, e molto spesso si torna delusi e bastonati alla base. Ma l'orizzonte è luminoso, non buio come da noi, per quelle decine di migliaia di giovani italiani - 18 mila nei primi sei mesi di quest'anno - che prendono il volo; più fortunati dei loro nonni che negli anni '50 vomitavano per due mesi a bordo dei transatlantici.
Bye Bye Italia
«L'Europa era troppo vicina per fare un passo così importante; in Australia sicuramente non potremo cedere alla tentazione del rientro in Italia alla prima difficoltà». Ilaria ha lasciato a Roma un posto fisso come operatrice e montatrice video, stufa della precarietà che «si respira ovunque e comunque: una casa che non puoi permetterti, la difficoltà di spostarsi, la paura continua di perdere il lavoro, e un salario che non ti basta neppure a comprarti un'auto nuova». Assieme al fidanzato Emiliano hanno salutato parenti e amici con le lacrime agli occhi. L'inglese non è il loro forte ma hanno meno di 31 anni, il limite massimo per poter ottenere il visto annuale 417, la tipologia del Working holiday rinnovabile per un secondo anno e disponibile per i cittadini di 29 Paesi del mondo. Per i giovani del Commonwealth è una vecchia tradizione, attiva dal 1975, mentre gli italiani vi hanno accesso solo dal 2002, ultimi tra i Paesi occidentali. Sembrerebbe strano, vista la consistenza delle comunità italiane in città come Melbourne, Sydney, Brisbane, Adelaide, Perth, Canberra o Cairns. Ma è più comprensibile se si pensa che fino al 1973 le leggi della White Australia policy puntavano all'incentivazione dell'immigrazione bianca ma consideravano l'etnia italiana «half white».
Ilaria e Emiliano hanno scelto Brisbane per il clima subtropicale e soprattutto per la vicinanza a numerose farm accreditate per il rinnovo del visto di soggiorno. La politica del governo federale in materia d'immigrazione infatti prevede un visto "premio" per gli stranieri che prestino mano d'opera nell'industria primaria di alcune «aree di sviluppo» del Paese per almeno 88 giorni: le fattorie di certe regioni agricole, le miniere e alcuni cantieri edili. Tre mesi durissimi per ottenere due anni di tempo da spendere alla ricerca di un posto fisso sponsorizzato. Non proprio un'illusione: in Australia la disoccupazione viaggia costantemente al di sotto del 5,8%. «Con il nuovo governo, poi, si sta rivalutando anche una seconda tipologia di visto lavorativo, il 457, per chi ottiene una sponsorizzazione da parte di un'azienda che dimostri di non aver trovato tra le competenze locali il profilo lavorativo dell'immigrato, assunto a tempo pieno per due o quattro anni e con stipendio minimo previsto dallo Stato», spiega Marina Freri, giovane giornalista italiana trasferitasi a Sydney cinque anni fa e già assunta regolarmente dalla Sbs, il canale radiotelevisivo governativo all news nato negli anni '70 al servizio della società multiculturale aussie e che trasmette oggi in 74 lingue diverse. «Dopo due anni di sponsorizzazione puoi richiedere la residenza e dopo un altro anno la cittadinanza, purché non si lasci il Paese per più di tre mesi; il conferimento finale avviene davanti al sindaco previo esame di conoscenza generale del Paese e della sua società», aggiunge Freri che con un altro giornalista italiano, Marco Lucchi, conduce per la Sbs una rubrica radiofonica settimanale in italiano - «Australia: istruzioni per l'uso» - dedicata alla nuova ondata di emigranti nostrani.
Lavoratori o rifugiati: doppia misura
Regole rigide per gli immigrati, dunque, ma non irragionevoli come da noi. Anche se, va ricordato, di tutt'altro tenore è la politica contro i boat people, respinti in mare manu militari o trasferiti immediatamente, quando riescono ad approdare vivi sulle coste australiane, nei centri di detenzione in Papua Nuova Guinea, a Manus Island o a Nauru. Secondo le ultime notizie, in questi community placement si trovano detenuti - illegalmente, secondo le leggi australiane e internazionali - molti minori, ma non se ne conosce il numero. Si sa solo che fino a quando i richiedenti asilo venivano ancora "custoditi" in Australia, nei centri a «basso livello di sicurezza» hanno vissuto reclusi anche fino a duemila bambini. «E le cose stanno perfino peggiorando, per gli asylum seekers - racconta ancora Freri - dopo le elezioni del 7 settembre scorso, il ministero dell'Immigrazione ha ristretto i canali di comunicazione istituzionale con i giornalisti riducendoli ad una conferenza stampa settimanale. Ed ha perfino cambiato nome: al posto della delega alla "cittadinanza", il ministero ha ora la delega al "border protection"».
Come rifugiato non si ha diritto al lavoro, mentre per gli over 31 o per gli immigrati indipendenti non sponsorizzati l'unica chance per un Bridging visa, rinnovabile a discrezione dell'ufficio immigrazione, sta nel cercare un'occupazione contemplata nella lista delle professioni e dei mestieri, la Skilled Occupation List, richiesti dal governo aussie. Una cosa è certa: per i malati di Hiv o di patologie croniche la residenza, e dunque la cittadinanza, sono off limits.
Ma tornano al Working holiday visa, l'Italia occupa la settima posizione tra i Paesi con il maggior aumento di richieste dal 2011 ad oggi, anche se in termini assoluti siamo molto distanti dal flusso continuo di giovani provenienti dalle nazioni del Commonwealth. Rispetto a due anni fa, però, se ai cittadini del Regno unito sono stati concessi il 22,2% in più di visti per il secondo anno di W&H, l'incremento per gli italiani è stato dell'88,6%, seguiti a vista solo dagli immigrati da Taiwan con il 68,7%.
Non proprio il paese dei balocchi
Antonio, ingegnere edile napoletano di 30 anni, era «stufo di contratti che si rinnovavano di mese in mese». Però prima di approdare nella farm di banane a Innisfail, vicino Brisbane, dove lavora attualmente, ha girato per un po', passando al setaccio numerosi working hostel del Queensland. È in questo tipo di ostelli, infatti, frequentati solitamente dai backpackers (viaggiatori fai da te, zaino in spalla), che in genere si trova lavoro, anche se non sempre retribuito adeguatamente e molto spesso solo in cambio di vitto e alloggio (nella modalità Woofing, da Willing workers on organic farm). «A volte le condizioni sono al limite dello sfruttamento, sotto il minimum wage previsto dallo Stato che è di 17,50 $ l'ora - racconta Antonio ai microfoni di Marina Freri -. Nelle farm vicine alle grandi città le paghe sono più basse; per esempio, in 10 ore di lavoro per tre persone si riempiono generalmente 4 ceste di banane, e il compenso è di circa 40$ a cesta». Insomma, «pensavo fosse il Paese dei balocchi, ma è molto più dura di quanto ci si possa aspettare». Nelle farm infatti i giornalisti non sono ben accetti: praticamente impossibile farsi aprire le porte.
Lo raccontano anche Ilaria e Emiliano che, appena sistematisi a Brisbane, non nascondevano l'entusiasmo: «Qui è tutto organizzatissimo, tutto facile e chiaro, tutto scritto on line. In un paio di giorni abbiamo aperto un conto in banca, concluse le pratiche per il Medicare (l'assistenza sanitaria gratuita, ndr) e tutte le altre prassi. Burocrazia zero, e molta cortesia. Hai l'impressione che pur ricominciando da capo, con una lingua nuova e tutto il resto, non sarai condannato allo stallo perenne; il futuro ti sorride di nuovo». Ora, dopo qualche settimana e qualche sfruttatore da dimenticare, i due giovani si trovano a Gympie, un piccolo villaggio tagliato fuori dal mondo, senza connessione internet o telefonica, a curare vacche e polli: «Ci alziamo tutti i giorni alle 7 per iniziare il nostro lavoro verso le 8... Si iniziano a fare i lavori più duri appena alzati, così a mano a mano che sei stanco puoi dedicarti a qualcosa di più soft. Ci trattano bene, però», scrivono sul loro blog che aggiornano solo nei giorni liberi, quando riescono a spostarsi in luoghi "connessi".
E non è facile, perché le zone di produzione agricola sono quasi sempre molto distanti dai centri abitati e quasi mai raggiungibili con mezzi pubblici. Per arrivare a Griffith, nel New South Wales, per esempio, la più grande area di produzione di agrumi, pollame e uova dell'Australia e da dove proviene più del 20% del vino australiano, bisogna percorrere la Hume Highway, poi la Sturt Highway e infine l'Irrigation Way, per 635 chilometri ad ovest di Sydney. Qui il lavoro è sicuro, nelle risaie o a raccogliere cotone o cetriolini per McDonald. «Molto spesso se non hai la macchina non ti prendono a lavorare», racconta ancora Antonio. Che però non molla: «Se non altro per imparare bene l'inglese e poi chissà... Magari riuscirò a tornare anche in Italia, con un lavoro sicuro, però».



Vi spiego la mentalità cinese del sacrificio (senza giustificare Prato)
Corriere.it, 04-12-2013
Francesco Wu
Sono ancora scosso da ciò che è accaduto a Prato, dove a causa di un incendio sono morte sette persone di origine cinese dentro un capannone (nella foto). Senza dilungarmi troppo sui dettagli da cronaca nera, cerco di esporre il mio punto di vista non solo e non tanto sulla tragedia, ma soprattutto sulla manifattura cinese in Italia in generale, cercando di essere il più schietto e oggettivo possibile. La aziende manifatturiere cinesi in Italia esistono da quando ci sono i cinesi in Italia, cioè da quando i primissimi iniziarono a vendere e produrre borse e cravatte a Milano, nelle vie Rosmini e Canonica, limitrofe alla famosa via Paolo Sarpi, attorno agli anni Venti del secolo scorso, quindi non ci dobbiamo meravigliare del fenomeno, poiché in campo economico si percorrono spesso strade già percorse da altri e poiché la Cina è sempre stata un mondo a vocazione manifatturiera-manuale. Si pensi alla via della seta che collegava Venezia con il Cathay, si pensi alla capacità dell’uso delle bacchette di bambù che già in tenera età usano i bambini cinesi per prendere il cibo dal piatto. Ciò che invece mi colpisce è il fenomeno delle aziende cinesi a Prato.
Inizialmente, fino agli anni Novanta, erano quasi tutte piccole aziende con la partita IVA che confezionavamo indumenti per committenti che erano aziende locali, ma anche grandi marche nazionali.
    Il problema della sicurezza e delle condizioni lavorative esistevano già a partire dagli anni Ottanta, ma se ne parlava molto meno ed io penso che bisognava intervenire allora con delle politiche efficaci di gestione del territorio dal punto di vista economico, colpendo sia le aziende cinesi che quelle italiane.
Non si fece niente e secondo alcuni ricercatori, tra cui il professor Prodi junior, le istituzioni non intervennero in maniera adeguata perché le grandi aziende italiane facevano profitti molto alti, sotto pagando quelle cinesi che per sopravvivere e fare profitto a loro volta, facevano lavorare le persone in condizioni disastrose, cioè lo Stato italiano incassava lo stesso dalle grandi aziende che creavano posti di lavoro e quindi lo Stato non voleva rompere un equilibrio precario.
    Poi intervenne la globalizzazione e la crisi economica a far chiudere le aziende tessili pratesi. E adesso la maggior parte dei committenti sono aziende con titolari cinesi come i moltissimi laboratori che riescono, nonostante tutto, a sopravvivere, grazie alle stesse condizioni che vi erano negli anni Novanta.
Penso quindi che il problema del tessile pratese sia un problema prettamente italiano di mal governo: in primo luogo ovviamente perché il cittadino cinese non è più virtuoso rispetto al cittadino italiano e se può fare profitti facili non si tira indietro, detto in parole povere, inoltre perché in Italia ci sono altre categorie di persone che non lavorano in sicurezza, come moltissimi operai nel campo dell’edilizia che impegna manovalanza italiana o immigrata, senza parlare dei braccianti agricoli nel Sud.
Va ricordato che anche in Lombardia vi erano le stesse condizioni nei laboratori tessili, ma mentre a Prato la situazione è rimasta immutata, al Nord è sempre più difficile trovare laboratori dormitori, anzi stanno proprio sparendo sia per la crisi ma perché e per fortuna ci sono grandi marche italiane che impongono condizioni di sicurezza e di igiene ai loro terzisti cinesi che vengono pagati adeguatamente.
Analizzando le questioni di carattere generale, sappiamo che in realtà nella manifattura cinese in italia non si tratta di sfruttamento nella maggior parte dei casi ma di auto-sfruttamento, sacrificio temporaneo per aspirare a diventare imprenditori o comunque per costruire un futuro migliore alla propria famiglia in Italia o in Cina.
Quando si accosta la parola “sacrificio” al lavoro cinese, solitamente non viene metabolizzato dal lettore medio, ma cerchiamo di capirla: la maggior parte dei cinesi in Italia provengono da zone rurali e per dire la verità tutta la Cina era rurale fino a pochi anni fa, quindi in Italia quasi tutti i cinesi, operai o imprenditori di prima generazione, hanno un passato contadino o almeno avevano qualcuno in famiglia che era contadino e lavorare la terra significa alzarsi all’alba e tornare al tramonto e sicuramente la terra non aspetta che il contadino si riposi al settimo giorno, mi disse una volta un mio amico imprenditore vicentino di nome Bressan, ormai sulla sessantina parlando del suo padre contadino.
Tutto questo per dire come il cittadino cinese sia abituato al sacrificio e sappiamo anche che in Cina i ritmi nelle fabbriche tessili non sono migliori, per le stesse ragioni sopracitate: cioè è meglio essere un operaio sfruttato o autosfruttatto che sia, ma con qualche denaro in tasca, che un contadino autosfruttatto senza un quattrino, anzi con il rischio di inondazioni e siccità e quindi di raccolto magro oltre a dover far rendere sempre al massimo un fazzoletto di terra con 3 raccolti di riso all’anno.
Un’altra delle ragioni non meno importanti è che in Cina non esiste un sistema pensionistico come quello italiano, anzi esiste solo per i lavoratori statali e quindi per i membri del partito comunista, forse qualcosa da questo punto di vista sta cambiando ma ad un passo molto lento; nè esiste un sistema sanitario pubblico come lo abbiamo qui in Italia quindi neanche un sistema scolastico pubblico decente che non sia anch’esso a pagamento. La cosa stona, ma è così.
Quindi bisogna produrre, produrre e produrre se si vuole sopravvivere nel mondo cinese ed anche quando si raggiunge il benessere non ci si accorge che ormai si è culturalmente imbevuti di materialismo, cioè che l’avere per quanto importante nella vita, per vivere dignitosamente, diventa l’unico cruccio che moltissimi hanno, per fortuna i giovani italocinesi oltre all’avere iniziano a dare importanza anche all’essere. L’ideale sarebbe una via di mezzo, ovviamente,ma sappiamo che anche in Italia la mentalità non è tanto migliore poiché ci sono madri che augurano alle proprie figlie di diventare veline e sposare il calciatore piuttosto che diventare delle donne culturalmente e professionalmente valide.
Spero di aver aiutato a spiegare il perché della capacità di lavoro e sacrificio cinese, cioè è una questione di sopravvivenza ed adattamento che il popolo cinese ha assimilato nei secoli e millenni sopravvivendo alle varie dinastie cinesi;bisogna accumulare averi per la vecchiaia, cosa che dovremo fare anche qui in Italia tra pochissimo tempo ed tutti noi siamo sulla stessa barca che va a fondo se non ci saranno cambiamenti strutturali e radicali ma questo è un altro discorso.
Detto ciò, non voglio giustificare che nel 2013 esistano certe condizioni di lavoro e se il figlio non vuole ascoltare bisogna che il buon padre intervenga, senza scendere in campagna elettorale con proclami ma con capacità di governo reale e serve che ci sia anche della buona informazione che spieghi meglio le ragioni di tutto ciò e spero di aver, nel piccolo, dato il mio contributo.

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