Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

Menù

 

"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

Vinca il migliore


Mauro Valeri

Con la multa alla Juventus per cori razzisti contro due giocatori dell’Internazionale, e la mancata sanzione dei cori intonati nel derby capitolino, rispettivamente dai laziali contro il romanista Juan e dai romanisti contro il laziale Diakité, si è chiusa una fase del capitolo “calcio e razzismo”. Tutti i proclami prima della partita di Torino, in cui in molti avevano garantito che in caso di cori razzisti avrebbero smesso di giocare, sono finiti nel nulla. I cori ci sono stati (e addirittura se n’è accorto il giudice sportivo!), ma nessuno ha chiesto di bloccare la partita. Le promesse nel mondo del calcio, almeno per ciò che riguarda il razzismo, sembrano davvero avere la consistenza del vento. In attesa del risultato delle indagini sui cori razzisti contro Balotelli intonati a Bologna e a Bordeaux, una certezza c’è: nelle prossime settimane, il razzismo tornerà ad essere un problema di secondo piano, sommerso dai tanti guai che domenica scorsa sono esplosi in tanti campi: dall’assenza di fair play (o dal pentimento dei pochi che lo hanno praticato), alle bombe carta, agli insulti, alle risse, alle simulazioni, ecc. (ma di sicuro presto si parlerà di nuovo il calcio scommesse e il doping). Forse il problema sta tutto qua: considerare il razzismo sempre un male assai minore rispetto ai tanti guai che il calcio sta attraversando, o meglio che ciclicamente attraversa ormai da decenni. Questo circolo vizioso si romperà forse solo quando le istituzioni calcistiche ma soprattutto i tesserati (cioè presidenti, allenatori, calciatori, ecc.) capiranno che la lotta al razzismo è parte integrante e portante di quella cultura sportiva che è quasi del tutto assente nel calcio italiano, e che è all’origine di gran parte dei guai domenicali. Una cultura sportiva che dovrebbe basarsi anche su una meritocrazia spesso solo enunciata, e riassunta in quel “Vinca il migliore” che ancora oggi è l’incipit di qualche gara sportiva (probabilmente più tra i dilettanti che tra i professionisti). Se dovessimo trovare qualche esempio in cui questo enunciato ha trovato piena applicazione, saremmo obbligati a far riferimento ad alcuni atleti stranieri che, nonostante alcuni problemi con il permesso di soggiorno, sono riusciti a diventare campioni. Va premesso che in genere funziona il meccanismo inverso. Campioni stranieri che, una volta giunti in Italia, davanti a difficoltà di tipo burocratico, ma anche discriminatorio, sono finiti per diventare clandestini. Personalmente mi è capitato, alcuni anni fa, di seguire la storia di cinque ragazzi della Nazionale di calcio etiopica. Erano scappati in Italia, durante una trasferta, per motivi legati al timore di essere perseguitati in patria. Grazie alla rete della comunità etiopica romana, era stato garantito ai ragazzi di continuare a giocare, arrivando anche a fare qualche provino con qualche squadra importante. Di uno di loro si occupò anche la stampa capitolina, soprannominandolo il “Costacurta dell’Africa”. Ma l’assenza dei permesso di soggiorno e i lunghi tempi per il riconoscimento dello status di rifugiati (e la scarsa conoscenza del calcio etiope) hanno fatto sì che, nel giro di un paio d’anni, per vivere quei ragazzi erano passati dal giocare con la Nazionale a vendere i giornali ai semafori o a fare lavori di edilizia. L’unica soddisfazione, che ancora raccontano dopo diversi anni, è stata la vittoria per 10-1 contro alcuni poliziotti della Questura di Roma! Oggi per fortuna a Roma c’è il Liberi Nantes che prova a garantire ai calciatori stranieri con permessi di soggiorno temporanei, spesso in attesa del riconoscimento dello status di rifugiato, di giocare a pallone anche in un torneo locale di Terza Categoria (esperienza immortalata anche nel film Liberi Nantes Football Club). Pochi però i casi in cui i rifugiati sono riusciti, almeno in Italia, ad arrivare a giocare in squadre professionistiche, nonostante le norme internazionali hanno sempre ribadito che chi fugge dal suo paese per timore di essere perseguitato va tutelata anche per quanto riguarda il tesseramento. A smuovere le acque ci sta provando la CGIL, che ha scritto una lettera ai presidenti della Figc e della Lega Nazionale Dilettanti, ma anche all’UNAR, per chiedere chiarimenti sulle norme che attualmente regolamentano il tesseramento di un calciatore dilettante cittadino di un paese non dell’Unione Europea. Infatti, vengano richiesti alcuni requisiti kafkiani, in particolare l’assunzione da parte di un indefinito “Ente competente”. Non è che si tratta forse di discriminazione? La risposta al momento è stata: “Stiamo studiando”, riconoscendo almeno in parte il problema.
Se il calcio è ancora oggi avaro di storie in cui a vincere è davvero il migliore, anche quando è uno straniero, qualcosa di meglio offrono altri sport. Il pugilato, ad esempio. E’ di qualche anno fa la storia, davvero da film, di Mohammed Alì Ndaye. Figlio di un pugile senegalese di buon livello, ha già nel nome un destino, quello di diventare un giorno come il grande Muhammad Alì, alias Classius Cly. Quello stesso destino che ha fatto sì che pochi giorni dopo la nascita del nostro Mohammed Alì, quello vero fosse in visita proprio a Dakar. Così, il padre pugile aveva preso un pulmino e da Pikine, periferia della capitale, si era scapicollato per far sì che il grande campione benedicesse il figliolo. Sembrerebbe una storia del tutto inventata, se non fosse per una fotografia che immortala il grande campione in piedi in mezzo ad un ring di Dakar, che alza al cielo un bimbetto tutto coperto, esponendolo al pubblico come un possibile suo erede al trono. Quello che la foto non può dire, ma i griot raccontano, è che il campione abbia in quell’occasione pronunciato la formula magica: “Un giorno questo bambino sarà un campione”. Per passione ed obbligo, il nostro Mohammed Alì era cresciuto a pane e pugni, di quelli dati contro al sacco o sul ring. Seguendo i consigli del padre era diventato un campioncino dalle molte speranze. Ma in Senegal chi fa il pugile non guadagna abbastanza. Meglio provare in Europa. Così Mohammed Alì, seguendo forse le orme del mitico Battling Siki (il primo pugile d’origine africana – era senegalese anche lui – campione del mondo nei lontani anni Venti), si era trasferito in Francia. Qui però la burocrazia, la diffidenza e qualche manager furbastro lo avevano presto fatto ritrovare senza soldi, senza permesso di soggiorno e senza sogni. E’ a questo punto che decide di trasferirsi in Italia, dove, non certo per scelta, diviene presto un clandestino. Venditore di improbabili cd a Brescia, sempre in fuga dai vigili. Lui ha la determinazione di non mollare: continua ad allenarsi in attesa del grande giorno in cui finalmente realizzerà quel destino annunciato a Dakar. Poi qualcuno lo informa che è meglio spostarsi a Pontedera, dove c’è una comunità senegalese ben organizzata. Mohammed Alì forse sa che a Pontedera si producono motociclette. Non sa che è la “patria” dei fratelli Mazzinghi, Guido e soprattutto Sandro, entrambi grandi pugili, che hanno fatto conoscere il paese in tutto il mondo. Quando entra per la prima volta in una palestra di pugilato, e, ottenuto il permesso di allenarsi, mostra la sua stoffa, a nessuno viene in mente di chiedergli se ha o meno il permesso di soggiorno. Quello che conta è che è un vero talento, oltre che un bravo ragazzo. Protetto da tutta la comunità di Pontedera, Mohammed Alì riesce a regolarizzarsi, trovare lavoro e a divenire un cittadino italiano, dopo aver sposato una ragazza siciliana. Ovviamente al primo incontro importante – in quelli in cui l’arbitro dà inizio alla sfida con un “vinca il migliore” - conquista il titolo italiano, arrivando presto anche a gareggiare per la nazionale italiana. Dopo diverse soddisfazioni decide di passare al professionismo, nella speranza di guadagnare qualche soldo in più (visto che nella vita di tutti i giorni lavora come giardiniere per conto del Comune). Che la classe non è acqua lo dimostra conquistando la corona mondiale Ibf. Quando gli ho chiesto, quanto si sente italiano, lui mi ha risposto sorridendo che prima di tutto lui si sente di Pontedera, perché è stato lì che lo hanno accolto, gli hanno dato la possibilità di dimostrare cosa sapesse fare e di realizzare il suo sogno/destino, ed è verso quella comunità che si è sempre sentito in debito di riconoscimento, che ha provato a ricambiare vincendo sul ring o anche curando i giardini comunali.

Share/Save/Bookmark
 


 

Perchè Italia-Razzismo 


SPORTELLO LEGALE PER RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO

 

 


 

SOS diritti.
Sportello legale a cura dell'Arci.

Ospiteremo qui, ogni settimana, casi, vertenze, questioni ancora aperte o che hanno trovato una soluzione. Chiunque volesse porre quesiti su singole situazioni o tematiche generali, relative alle norme e alle politiche in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza nonché all'accesso al sistema di welfare locale da parte di stranieri, può farlo scrivendo a: immigrazione@arci.it o telefonando al numero verde 800905570
leggi tutto>

Mappamondo
>Parole
>Numeri

Microfono,
la notizia che non c'è.

leggi tutto>

Nero lavoro nero.
leggi tutto>

Leggi razziali.
leggi tutto>

Extra-
comunicare

leggi tutto>

All'ultimo
stadio

leggi tutto>

L'ombelico-
del mondo

Contatti


Links