Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

31 ottobre 2013

Rivolta al Cie di Gradisca bruciati materassi e rotti vetri
Notte ad alta tensione al centro immigrati Non si registrano feriti
Il Piccolo, 31-10-2013
Al Cie di Gradisca d’Isonzo di nuovo forti disordini, divelto le reti, bruciato i materassi, rotto le vetrate.
Gli incidenti si sono verificati nella notte tra mercoledì 30 e giovedì 31 ottobre.
La situazione attualmente sarebbe sotto controllo.
Ne dà notizia sul suo profilo Facebook la deputata di Sel Serena Pellegrino.
I disordini sono stati confermati da fonti delle forze dell’ordine.
I trattenuti sostano nel campetto da calcio e nei corridoi. Cinque stanze su otto sono state dichiarate inagibili dai vigili del fuoco.
Non si registrano feriti.

 

"Noi derubati sulla nave militare" il giallo del furto ai profughi siriani
Dopo il soccorso, spariscono soldi e gioielli. Aperte due inchieste. In trenta hanno presentato una denuncia: "Scomparsi oltre 100 mila euro"
la Repubblica, 31-10-2013
ALESSANDRA ZINITI e FRANCESCO VIVIANO
AGRIGENTO - Il loro futuro, gelosamente custodito in buste e marsupi stretti al corpo, glielo hanno portato via sulla nave che li ha salvati. Dollari e qualche gioiello di famiglia, quel poco su cui contavano per costruirsi una nuova vita in Europa. E invece, dalla corvetta Chimera della Marina militare italiana, sono scesi a mani vuote o quasi, i sacchetti con il loro piccolo "tesoro" tagliati di netto e svuotati, altri spariti del tutto. Chi, nella notte tra il 25 e il 26 ottobre, ha messo le mani sulle buste in cui erano stati custoditi gli averi dei 95 profughi soccorsi nel Canale di Sicilia, si è impadronito di contanti e gioielli per più di 100 mila euro. Almeno così sostengono i migranti, quasi tutti siriani, che - appena sbarcati a Porto Empedocle - hanno chiesto di essere subito portati in questura. Una trentina le denunce per furto sottoscritte dai profughi che hanno dato vita a due inchieste, una della Procura di Agrigento, l'altra della Procura militare.
Derubati da chi li ha soccorsi, da chi - come hanno dimostrato nelle tante operazioni di questi giorni - con abnegazione e coraggio si tuffa in mare per salvare donne e bambini? Sembra incredibile ma così sostengono i migranti nei verbali sottoscritti negli uffici della squadra mobile. Denunce piene di particolari che hanno indotto la magistratura ad ordinare una perquisizione a bordo della corvetta che, però, nel frattempo, aveva lasciato Porto Empedocle per riprendere i suoi compiti di pattugliamento nel Canale di Sicilia nell'ambito dell'operazione "Mare nostrum". Quando, il giorno successivo, gli investigatori sono saliti a bordo della nave, tornata alla base militare di Augusta, dei soldi e dei gioielli spariti non è stata trovata alcuna traccia.
Ma l'ipotesi di reato resta in piedi e le denunce dei migranti sono ora al vaglio dei pm di Agrigento diretti dal procuratore Renato Di Natale e del procuratore militare di Napoli Lucio Molinari. "Quando ci hanno preso a bordo - ha raccontato uno dei profughi - i militari, dopo averci soccorso e riscaldato, ci hanno perquisito e passato al metal detector. Ci chiedevano di consegnare loro quello che avevamo indosso, ce l'avrebbero restituito appena sbarcati. Per ognuno di noi c'era un sacchetto con un numero. Ma quando ci hanno fatti scendere dalla nave, il mio sacchetto come molti altri era tagliato ed erano stati portati via quasi tutti i dollari e qualche piccolo oggetto in oro". Dai 3000 ai 5000 dollari a testa, più collane, bracciali, anelli. Tanto i profughi siriani, quasi sempre appartenenti a classi sociali medio-alte, hanno dichiarato di aver avuto portato via.
L'operazione di soccorso al centro delle indagini è quella avvenuta la sera del 25 ottobre trenta miglia a sud ovest di Lampedusa. E' una di quelle serate di emergenza continua. Il barcone dei siriani è alla deriva, a bordo si sbracciano per chiedere aiuto, sono tutti senza salvagente. Sono in 95, 48 uomini, 22 donne, 25 bambini. Il mare è calmo, tutti vengono presi a bordo della corvetta Chimera, riscaldati e rifocillati. Poi ad ognuno di loro vengono chiesti i dati per l'identificazione e la consegna di soldi e oggetti personali. La nave si dirige verso Porto Empedocle dove nella tarda mattinata di sabato sbarca i migranti. Quasi tutti gli uomini, prima di scendere, reclamano i loro averi. Alcuni dicono di aver avuto indietro i sacchetti tagliati e svuotati, altri di non aver avuto indietro nulla. Non c'è tempo per protestare. I profughi vengono condotti nella tensostruttura mentre la corvetta riprende il mare. Il giorno dopo la perquisizione disposta dalla magistratura dà esito negativo ma dal 25 ottobre per la Chimera quello è stato l'ultimo soccorso nel Canale di Sicilia.


«Noi, dimenticati da un mese a Lampedusa»
Tra i sopravvissuti del naufragio: «Non so dov’è sepolta mia moglie»
l'Unità, 31-10-2013
Flore Murard-Yovanovitch
Quasi un mese dopo, i sopravvissuti al naufragio del 3 ottobre sono ancora a Lampedusa. Nel cortile del centro di contrada Imbriacola giacciono su materassi, sotto tetti di plastica, senza accoglienza, malgrado la sfilata di politici italiani ed europei tra pianti e promesse.
Quasi un mese dopo, i sopravvissuti al naufragio del 3 ottobre scorso sono ancora a Lampedusa, sull’isola che ogni giorno ricorda loro il trauma vissuto, vicini al mare, da cui vorrebbero liberarsi per essere trasferiti al più presto sulla terraferma, lontani dalle onde. Nel cortile del centro di contrada Imbriacola, dove giungono nuovi migranti, i superstiti della tragedia collettiva giacciono su materassi sotto tetti di plastica, senza accoglienza, malgrado la sfilata di politici italiani ed europei tra pianti e promesse. Johannes mi chiede: «Perché siamo ancora qua, un mese dopo la strage? Perché non abbiamo ricevuto nessuna protezione da parte dell’Italia?». Si avvicina anche Petros, ma è solo nome di fantasia: «Vogliamo che sia fatta luce sulla dinamica dell’incidente dice Perché, dopo l’allarme, per due ore non siamo stati soccorsi anche se costeggiati da altri pescherecci?». Quei 108 superstiti rimasti chiedono di essere trasferiti al più presto tutti insieme, perché ormai sono legati da quell’esperienza drammatica, ma le loro richieste all’Ufficio Immigrazione sono rimaste finora senza risposta. Come il fax che avevano mandato alla Prefettura di Agrigento per partecipare ai funerali dei loro parenti, coniugi e fratelli il 21 ottobre scorso. Di fronte alla morte, lo Stato italiano non ha consentito a quegli uomini un ultimo saluto, potersi raccogliere sulle salme, seppellire i propri morti. È questa la vera storia di quei giorni: l’estrema violenza istituzionale che si è compiuta sulla pelle di quei migranti. La grottesca sceneggiata dei funerali di Stato senza bare né parenti, trattenuti sull’isola, o con bare spostate come pacchi all’insaputa dei parenti, o ancora l’oscena idea-beffa, per fortuna poi scartata, di un maxi-schermo in diretta... Dopo la protesta, loro hanno celebrato una cerimonia spontanea sulle rocce della Guitjia.
Gemal ha perso il fratello minore, sorridente nelle foto scattate a Khartoum, prima di affrontare il deserto, che fa scorrere sullo smart phone. Teklom, invece, della giovane moglie non ha nemmeno un ricordo, nulla, e ancora oggi non sa nemmeno in quale cimitero dell’Agrigentino sia stata seppellita. Soltanto se riuscirà a recarsi alla Questura di Agrigento potrà saperlo e cercare una tomba su cui piangere. Ma cosa avverrà agli altri se, come probabile, verranno reclusi nei centri di cosiddetta accoglienza sparsi in Italia?
Quei giovani adulti hanno incubi su quella notte in mare, ultimo dramma che si è aggiunto alle violenze subite in Libia. Molti di loro si svegliano di notte, il loro ciclo sonno-veglia è alterato. Lilian Pizzi psicologa lavora al centro ed è coordinatrice del progetto di Terre des Hommes «Faro3 progetto psicologico e psicosociale per i minori stranieri non accompagnati e le famiglie con bambini». «Permanendo nello stesso luogo della tragedia spiega il dolore si riattualizza e si inasprisce ogni giorno che passa. Sarebbe come vivere un mese nella stanza dove è morto la propria moglie o il proprio fratello, senza poterne uscire. È auspicabile che i sopravvissuti possano lasciare l’isola il prima possibile anche per questo. Nel loro caso la ferita ha una doppia valenza, una individuale e una collettiva. Per i superstiti non avere potuto partecipare ai funerali dei propri cari, rituale universalmente indispensabile, non ha consentito una giusta separazione dalla morte».
Lo stress passato riguarda anche l’incertezza dell’immediato futuro. La loro preoccupazione più grande è quella del prelievo delle impronte digitali, che significherebbe essere bloccati in Italia senza poter raggiungere i parenti nei paesi nord europei, Svezia, Norvegia e Gran Bretagna. Quasi tutti, uomini e donne, anche giovanissimi, sono ex soldati arruolati di forza per periodi illimitati di tempo, e raccontano della militarizzazione eccessiva che colpisce il tessuto della società eritrea, della paura, della mancanza di libertà.
Sognano la Svezia. Ma confessano che per arrivarci saranno costretti a migrare nascosti verso il Nord Europa, rischiare ancora, dopo il Mediterraneo, fuggire ancora e ancora. Nel frattempo, altri barconi arrivano nel porticciolo di pescatori di Lampedusa: eritrei che fuggono ogni giorno il regno del terrore che è diventato l’ex colonia italiana. Secondo l’agenzia per i rifugiati dell’Onu (Unhcr), nel 2012 sono fuggite dall’Eritrea 305.723 persone, e quelli che ogni mese
lasciano il paese sono tra i due e i tremila. Un esilio politico, la fuga di un popolo perseguitato, a cui si aggiunge il rinculo di una storia coloniale ancora tabù. Ma questa sporca coscienza italiana, malcelata da effimero sentimentalismo, non potrà a lungo nascondere che le traversate hanno ragioni e nomi, accordi italo-eritrei, complicità tra Stati, leggi migratorie: tutte cause politiche.

 

 

«Visto di protezione Ue» per strappare i profughi dalle mani dei trafficanti
Il direttore del Cir: chiederemo aiuto alla Farnesina
Avvenire, 31-10-2013
PAOLO LAMBRUSCHI
Avevano telefonato disperate poco dopo il disastro di Lampedusa a don Mosè Zerai, l'angelo dei profughi, per rac- contargli l'orrore dal carcere di Garabouli, a 60 miglia da Tripoli. Li 50 donne eritree erano sottoposte a stupri e torture quotidiane da parte dei secondini miliziani, senza riguardi per i 36 bimbi detenuti con le madri. Ora le hanno liberate e aspettano di salire su una carretta del mare: meglio rischiare la vita che tornare in carcere. Lo stupro integrava il pagamento di un riscatto alle guardie, che la scorsa settimana hanno portato via le prigioniere e i bambini nascosti sui land cruiser dopo il versamento di somme comprese tra i 1.000 e i 2.000 dollari.
Cronache ordinarie di migranti subsahariani nell'inferno libico che scoppia, dove, secondo stime ufficiose, ci sarebbero 20mila, eritrei e somali, quasi tutti con il diritto di venire in Europa a chiedere asilo. L'Alto com- missariato Onu per i rifugiati ha schedato in Libia 3.000 richiedenti asilo e rifugiati eritrei, 1.700 somali, 1.000 sudanesi, 500 etiopi: quattro volte di meno. Non ci sono solo loro. La novità, confermata dai dati di ottobre dell'Acnur, è l'arrivo di un flusso consistente di profughi siriani dall'Egitto. Ufficialmente solo 4mila sono stati registrati, ma sono molti di più, sparpagliati sulla costa in attesa di partire. In soli due mesi ne sono sbarcati in Italia 7mila, come gli eritrei. Poi c'è il crescente flusso mediorientale che ufficialmente conta anche 1.400 iracheni e 4.150 palestinesi. Dunque affari a gonfie vele per i trafficanti del Maghreb e viaggi della speranza senza fine verso le coste italiane.
«Con queste cifre l'emergenza umanitaria non si fermerà - ammette Cristopher Hein, direttore del Cir, che ha avviato una missione in Libia da 5 anni, - dalle informazioni raccolte solo nei centri di detenzione del ministero degli Interni libico ci sono 8mila subsahariani, soprattutto eritrei e somali, in condizioni inumane. Difficile avere il quadro dei centri gestiti dalle milizie. Poi c'è l'ondata di profughi medio orientali dall'Egitto». Migranti come merce per le bande armate, venduti per pagare le armi e mantenere i miliziani. Il quadro politico libico dal 10 ottobre, data del rapimento lampo dei premier Zeitan, sta infatti implodendo. Secca l'analisi del Financial Times: «Prima dominava una tribu, quella di Gheddafi, con una dittatura spietata. Ora tante tribu pretendono di comandare, c'è l'anarchia». Il rischio è la trasformazione della Libia in una Somalia mediterranea. È realistica la proposta fatta da organizzazioni e leader politici di creare da qui corridoi umanitari che portino in Italia e in Europa profughi e richiedenti asilo? «No - risponde Hein -, mancano le condizioni di sicurezza per aprire campi dove ospita-
re i migranti e censirli e da li farli partire attraverso i corridoi umanitari. Meglio puntare sull'Egitto per prevenire i viaggi in mare con relativi naufragi, almeno dei siriani». Pero un'alternativa ci sarebbe e secondo Hein la realizzazione dipende dalla volontà politica dell'Ue. «Si chiama visto di protezione, previsto dal trattato di Schengen che consente a ogni stato di rilasciare visti di ingresso validi solo per il paese emittente. È una proposta che chiederemo alla Farnesina di sostenere nel semestre di presidenza Ue». Tradotto, previo accordo tra i partner Ue sulle quote, un somalo o un eritreo provvisti di documenti o tessere Acnur potrebbero chiedere il visto per il Bel- paese o un altro stato Ue in una qualsiasi ambasciata e pagarsi poi il volo senza rivolgersi ai trafficanti. 
Ma per oral'unico punto su cui i 28 sono d'accordo è la sorveglianza delle frontière meridionali e marittime libiche. A maggio, su impulso della baronessa Ashton, responsabile della "politica estera" di Bruxelles, sono approdati in Libia oltre 100 funzionari civili con il compito di addestrare le guardie di frontiera sull'abc umanitario e in terra e in mare. Costo dell'operazione, denominata Eubam e di durata annuale, 30 milioni di euro. Per regioni di sicurezza finora ha raggiunto soprattutto il Sudovest.
Intanto la situazione nei centri di detenzione per migranti è drammatica. L'Acnur vi entra per progetti sanitari e registrazioni rilasciando tessere di rifugiato con partner come l'ong bergamasca Cesvi, che opera in una situazione difficile ed è presente dal 2011 anche in Cirenaica, dove ha distribuito cibo e generi di prima necessita. «Distribuzione che continua nei centri - spiega il presidente Giangi Milesi - e fuori, con 35 operatori libici e tre italiani. Abbiamo aiutato circa 5.800 profughi siriani». Visita spesso i centri di detenzione Massimiliano Tieggi, responsabile Libia dell'ong. La situazione e stata denunciata a giugno da Amnesty International che ha visto in 17 galere: celle sovraffollate, torture, malattie, stupri, minori incarcerati e traffico gestito dalle stesse guardie. Nulla è cambiato, anzi. «Eritrei e somali sono imprigionati anche per anni senza motivo - aggiunge Reggi - se non trovano il denaro per corrompere i secondini. La situazione cambia in fretta per i trasferimenti nei quali avvengono le finte fughe di massa, di chi ha pagato, organizzate dai miliziani». Nell'inferno ci si perde. Gli spostamenti di prigionieri e la mancanza di passaporti di somali ed eritrei, i cui governi non li rilasciano, ostacola l'Acnur nella registrazione e la segnalazione alle famiglie disperate. Chi poi, sempre di pelle scura, finisce nel lager di Sebha, nel Sahara, finanziato dall'Ue lo scorso decennio e famoso per le celle interrate e la violenza, sparisce nel nulla.



Niger, ritrovati i resti di 87 migranti. Morti nel deserto, tra loro 48 bambini
I cadaveri - oltre ai bambini, 7 uomini e 32 donne - sono stati individuati dall'esercito a una decina di chilometri dalla frontiera algerina. Dello stesso gruppo facevano parte anche le cinque donne e bambine ritrovate senza vita giorni fa. Il loro viaggio era iniziato a fine settembre
la Repubblica.it, 31-10-2013
NIAMEY - I cadaveri di 87 migranti sono stati scoperti oggi nel deserto del Niger a una decina di chilometri dalla frontiera con l'Algeria. Le vittime - 7 uomini, 32 donne e 48 bambin - si aggiungono a cinque corpi dello stesso gruppo scoperti giorni fa dall'esercito nigerino. Sono tutti morti a inizio ottobre, nel corso di un viaggio verso l'Algeria iniziato a fine settembre, secondo una fonte della sicurezza di alto grado.
"I corpi - ha raccontato Almoustapha Alhacen, responsabile dell'Ong "Aghir In'man" ("Scudo umano" in lingua tuareg, ndr) che si è recato sul posto - sono decomposti, è orribile. Li abbiamo trovati sparsi nel raggio di 20 chilometri, divisi in piccoli gruppi. Sotto gli alberi o sotto il sole. A volte madri con i figli, altre bambini completamente soli".
I migranti, un centinaio, erano partiti dal Niger, prima da Agadez e quindi da Arlit, a bordo di due vecchi camion, con passaggi pagati a caro prezzo, almeno per loro. La destinazione finale era Tamanrasset, città dell'Algeria meridionale, dove già c'è un piccola comunità di nigerini che vivono, tra stenti e disperazione, chiedendo l'elemosina lungo le strade o, più spesso, davanti alle moschee.
Lunedì scorso le autorità di Niamey avevano annunciato la morte di altri 35 migranti, per la maggior parte donne e bambini, uccisi dalla disidratazione mentre cercavano invano anche loro di raggiungere l'Algeria. Le stesse fonti avevano riferito che 21 persone erano sopravvissute, tra cui un uomo che era riuscito a percorrere a piedi 83 chilometri fino ad arrivare alla città mineraria di Arlit, e una "donna portata fino a questa città da un automobilista che l'ha incontrata in pieno deserto". Altri diciannove altri migranti erano stati condotti a Tamanrasset, centro a sud dell'Algeria, prima di essere rimpatriati in Niger.
Il Niger è uno dei paesi più poveri al mondo, in preda a ricorrenti crisi alimentari e per questo interessato da una forte emigrazione. Ma la strada per l'Algeria, tuttavia, non è così battuta come quella che porta in Libia, dove l'ufficio di coordinamento degli Affari umanitari dell'Onu a Niamey ha stimato siano emigrati illegalmente in circa 30mila tra il marzo e l'agosto del 2013 passando da Agades, la metropoli a nord del Niger.



I bimbi annegati lasciati in pasto ai pesci L'Europa rinvia: se ne parla fra otto mesi
l'Espresso.it, 30-10-2013
Fabrizio Gatti
Le foto e i nomi delle decine di minori siriani morti nel barcone affondato l'11 ottobre a 60 miglia da Lampedusa. La protesta dei familiari. Che lanciano una petizione: "Recuperate i corpi e aprite un'inchiesta". Ma i capi dei governi Ue hanno deciso di rimandare la discussione a giugno 2014
L'Espresso ha raccolto le fotografie e i nomi dei bambini, dei loro genitori e degli altri profughi siriani che l'Europa ha abbandonato in pasto ai pesci. I capi di Stato e di governo dell'Unione Europea, riuniti a Bruxelles il 24 e il 25 ottobre per i lavori del Consiglio europeo, non hanno dedicato nemmeno una dichiarazione al fatto che, dei 268 morti nel naufragio dell'11 ottobre a 60 miglia a Sud di Lampedusa, soltanto 26 corpi sono stati recuperati durante i soccorsi ai sopravvissuti: le altre 242 salme di padri, madri e bimbi, alcuni di pochi mesi, sono state lasciate in mare con il relitto, nella totale disperazione dei loro familiari, molti dei quali hanno la cittadinanza o la residenza nell'Ue.
Tutte le fotografie e i nomi nel blog Undercover
Per la maggioranza dei capi di Stato e di governo europei non è urgente nemmeno la circostanza che nei primi undici giorni di ottobre in Europa siano complessivamente annegate 646 persone, tra cui una sessantina di bambini siriani e sedici bimbi eritrei. E non lo è la coincidenza che tutti loro avessero diritto di richiedere asilo in base alle convenzioni internazionali che gli Stati rappresentati a Bruxelles hanno firmato, ma non avessero trovato altro passaggio se non quello offerto dalla mafia degli scafisti. Il Consiglio europeo, chiusi i lavori del 24 e 25 ottobre, ha infatti deciso di prendere tempo. E di rinviare soltanto a giugno 2014 una "riflessione di lungo termine sulle politiche dell'immigrazione". Cioè tra otto mesi, dopo le elezioni di maggio per il rinnovo del Parlamento europeo. Una vergognosa furbizia politica per non scontentare il proprio elettorato. E sarà soltanto una riflessione di lungo termine. Non una decisione.
Al di là delle parole di rito, l'ultimo vertice europeo è stato l'ennesima dimostrazione di cinismo e indifferenza. Ola Izoli nel naufragio dell'11 ottobre ha perso il fratello di 19 anni, Mohamed Jafar. E nella sua email a l'Espresso inviata da Dubai, Ola descrive la sua disperazione: «La Croce rossa italiana mi ha detto di avere pazienza. Ma fino a quando? Se mio fratello è ancora sott'acqua, come farò a riconoscere il suo corpo dopo tutto questo tempo?». Per assistere i familiari come Ola Izoli i governi europei, l'Italia in testa, non hanno istituito nessuna unità di crisi. Nemmeno un numero telefonico dove cercare informazioni attendibili. Al contrario, le dodici famiglie sopravvissute che le operazioni di soccorso avevano separato sono ancora divise tra l'Italia e Malta. Fra di loro alcuni bambini, dai nove mesi ai tre anni. I ministeri dell'Interno e degli Esteri italiano e maltese stanno seguendo la procedura ordinaria di ricongiungimento che richiede mesi. L'Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati sta cercando una soluzione più rapida. Sono famiglie scampate alla guerra civile in Siria. Poi all'inferno del naufragio. Ma dopo tre settimane quei bambini sono ancora in Sicilia. I loro genitori a La Valletta. Una lontananza disumana. E meno male che sia l'Italia, sia Malta fanno parte dell'Unione Europea.
I figli Kenda, 12 anni, Marwa, 14, e... I figli Kenda, 12 anni, Marwa, 14, e Aldin, 9 anni
Gli argomenti che i governi europei dovrebbero affrontare urgentemente non mancano. A cominciare dalle ridicole regole dell'assistenza in mare, la cui applicazione nel Mediterraneo è responsabile negli anni di centinaia di morti. Basta il naufragio dell'11 ottobre a denunciarne tutta la loro pericolosità. Il primo intervento è infatti partito da Malta, ad almeno 230 chilometri di distanza. E non da Lampedusa, a 110 chilometri, circa 60 miglia, la metà del tempo necessario. Questo perché il punto in cui il peschereccio stava affondando ricade, secondo gli accordi internazionali, sotto la competenza di ricerca e soccorso di Malta, non dell'Italia. «Le navi militari sono arrivate sul posto dopo quasi due ore dalla prima chiamata di sos», racconta Racha Muhriz dalla Norvegia. Racha ha perso la sorella Taghrid, 31 anni, e la nipotina Cham, 5 anni, scomparse in mare, ma ha raccolto la testimonianza del cognato, sopravvissuto al naufragio con la figlia gemella e ora trattenuto con la piccola a Malta.
Mayar Lababidi, 6 mesi Mayar Lababidi, 6 mesi
Attraverso le carte nautiche del Canale di Sicilia, l'Espresso ha calcolato che il relitto con il suo carico di corpi rinchiusi nella stiva e nelle camere del ponte principale si sarebbe adagiato su un fondale tra gli 80 e i 100 metri. Una profondità accessibile ai sommozzatori: con l'impiego di una campana pressurizzata e, in superficie, di una camera iperbarica per la decompressione, secondo tecniche comunemente usate dai sub specializzati nella manutenzione delle piattaforme petrolifere, ma anche dalla Marina militare.
I familiari dei dispersi con una petizione chiedono il recupero delle salme. E che al più presto sia eseguita l'ispezione dello scafo affondato e la localizzazione dei corpi: operazione, questa, che la Marina potrebbe concludere nel giro di pochi giorni utilizzando le telecamere di "Pluto", il robot subacqueo teleguidato acquistato dal ministero della Difesa per le attività di sminamento. Un intervento senza alcun rischio per il personale. Sarebbe invece il primo importante passo di un'inchiesta per pirateria e terrorismo: il vecchio peschereccio con almeno 480 profughi a bordo secondo la testimonianza dei sopravvissuti sarebbe colato a picco per i colpi di mitragliatrice sparati da una motovedetta di Tripoli o, sostengono altri superstiti, da una imbarcazione inviata dalle milizie libiche, forse nel tentativo di rapinare i passeggeri. A bordo c'erano molti professionisti siriani, medici, ingegneri, con le loro famiglie, i bambini e qualche scorta di denaro per l'esilio. Oltre a un centinaio di profughi sub sahariani che erano stati chiusi a chiave nella stiva perché non fossero visti dai siriani durante l'imbarco. I trafficanti libici di Al Zuwarah che avevano venduto il viaggio verso Lampedusa, avevano promesso meno passeggeri del solito. Per questo hanno nascosto gli africani nella stiva. Così ai profughi fuggiti dalla Siria hanno potuto chiedere un prezzo più alto: tremila dollari a testa, invece di milleseicento.
Sempre secondo le testimonianze raccolte a Malta, il vecchio peschereccio era stato affidato a quattro scafisti, tre tunisini e un libico. Con loro anche un passatore siriano di Aleppo: l'uomo che aveva contattato le famiglie e che con la sua presenza a bordo aveva garantito sulla sicurezza. Durante la traversata, il livello dell'acqua sempre più alto nello scafo ha invece spento il motore diesel. A quel punto uno dei tre tunisini è andato a controllare ed è rimasto ustionato da un getto di vapore. Subito dopo sul ponte è scoppiata una rissa tra il passatore di Aleppo e gli scafisti. Alcuni testimoni riferiscono di una sparatoria tra di loro, mentre le famiglie ammassate con i bimbi nelle cabine e gli africani chiusi a chiave nella stiva gridavano disperati. Perché, racconta un papà che ha perso in mare la figlia e la moglie, «ormai era evidente a tutti che saremmo affondati».



Tre donne sole: “Fuggite dalla Siria, siamo costrette a fidarci di criminali”
Corriere.it, 31-10-2013
Alessandra Coppola
All’ultimo tratto del viaggio, dopo mesi di violenze e sacrifici, proprio qui all’aeroporto, «mi si è fermato il cuore». Le due figlie ventenni sono passate ai controlli del volo per Amburgo, la mamma è stata bloccata al check-in. E ha avuto un malore. I volontari dei Giovani musulmani l’hanno trovata pallida e sfinita, ieri mattina, in stazione Centrale, assieme alle ragazze che con lei non si sono imbarcate e son tornate alla casella di partenza. Persi 800 euro di biglietti, ma soprattutto sfumata la speranza di poter fare almeno l’ultimo percorso senza pericoli. Tre donne sole, «chiunque può esserci amico o farci del male…». Da sei mesi sono in cammino, la Siria, l’Egitto, Lampedusa, adesso Milano, domani il Nord Europa. «In Italia il massimo che possono darci è un pezzo di carta: non serve a coprire la testa nè si può mangiare — parla la madre —. Altri Paesi, invece, ci aiutano. La Germania, la Svezia ai rifugiati danno una casa e un sostegno per ricominciare. È quello che ci serve: un piccolo aiuto per riprendere a vivere».
Le sue figlie, ora sedute sulle brandine del centro di accoglienza di via Aldini, hanno studiato, sono laureate in Economia, a Damasco già lavoravano. La più grande 24 anni, l’altra 23. Il papà è morto, il fratello è stato inghiottito dalla guerra ed è scomparso, in Siria era diventato impossibile restare. In primavera, le tre donne hanno raccolto poche cose e tutti i risparmi, preso un volo per Il Cairo, e cercato di sopravvivere, finché hanno potuto. «Ma in un Paese con una disoccupazione altissima era praticamente impossibile trovare un impiego — racconta la più grande —: con i lavori arrangiati che facevamo non riuscivamo neanche a pagare l’affitto». Non è la questione economica, però, che le convince a ripartire. Anche lì la situazione si è fatta insicura: raggiungono allora Alessandria e s’imbarcano. Il viaggio per Lampedusa è drammatico, come riportano tutti: sette giorni di onde alte, duecento persone strette, una donna che addirittura dà alla luce una bambina in mezzo al mare. I soccorsi, i centri d’accoglienza, il treno.
    E proprio qui, quando il peggio sembrava superato, un nuovo ostacolo: le frontiere europee.
Ormai le storie che si raccontano nelle stanze di via Aldini e di via Novara sono tante, 500 le persone finora accolte: qualcuno riesce a passare, a volte manda un sms per dire «ce l’ho fatta», qualcun altro viene bloccato a Ventimiglia, al Fréjus, spesso al Brennero. Una famiglia entrata illegalmente in Austria ha dovuto pagare una «multa», dicono, di 1500 euro, c’è una ricevuta a provarlo. L’assessore milanese alle Politiche sociali, Pierfrancesco Majorino, da settimane chiede a Roma e a Bruxelles di definire un permesso che lasci queste famiglie libere di muoversi senza rischi. «Siamo giunti al punto di non poter più soccorrere se non pochissime persone»: i posti sono esauriti. Soprattutto, «l’immobilismo del governo spinge i siriani verso le braccia della criminalità organizzata».
    «Lo so che è sbagliato passare le frontiere illegalmente — dice ancora la madre siriana —, e me ne vergogno. Ma non avevo alternativa: o morivo nel mio Paese o mettevo in pericolo le mie figlie in Egitto. Siamo riamaste sei mesi in balia di delinquenti, è terribile pensare adesso di doverci affidare di nuovo a qualcuno di loro».



Amnesty accusa: ai rom vietate le case popolari
il manifesto, 31-10-2013  
Domenico Romano    
ROMA -Discriminati nell'assegnazione di una casa popolare perché rom. Accade un po' in tutta Italia, ma in modo particolare a Roma dove una circolare della passata amministrazione Alemanno ancora oggi nega alle famiglie di etnia rom la possibilita di accedere alle graduatorie per l'assegnazione di un alloggio pubblico, costringendole cosi a vivere confinate in campi spesso fatiscenti e isolati.
La denuncia arriva da Amnesty international che sulla condizione abitativa dei rom ha preparato un rapporto significativamente intitolato «Due pesi e due misure. Le politiche abitative dell'ltalia discriminano i rom «Il comune di Roma sta tenendo migliaia di rom ai margini della società», spiega John Dalhuisen," direttore del Programma Europa e Asia centrale di Amnesty. «Ciò avviene con la tacita complicità del governo italiano che a livello nazionale non sta garantendo uguale accesso agli alloggi pubblici per tutti».
Sono 4.000 i rom che nella capitale vivono in campi autorizzati. E non certo per loro volontà.
Aldilà dei luoghi comuni che li vorrebbero restii ad abbandonare baracche e roulotte, alla stragrande maggioranza di loro non dispiacerebbe affatto vivere in una casa come tutti, permettendo ai loro bambini di frequentare una scuola. «Etichettati come 'nomadi' dalle autorita, sono collocati in questo sistema alloggiativo separate, pensato unicamente per loro», denuncia il rapporto. Ê che siano gli unici a essere trattati cosi non ci sono dubbi. Chiunque altro si trovi à non avere un tetto sopra la testa, infatti, sia italiano che immigrate, può contare sulla possibilità di essere ospitato in un dormitorio o in un centro di accoglienza gestito dal Comune. Tutti tranne i rom «Un container prefabbricato o una roulotte all'interno di un campo segregate, circondato da recinzioni, lontano dai quartieri abitati e dai servizi essenziali è l'unica opzione abitativa messa a loro disposizione», dice ancora Amnesty.
Una sorta di apartheid, anche se mai nessunp l'ha dichiarato ufficialmente, O quasi. Vivere in una città per un rom non è mai stato facile, ma nella capitale le cose sono cominciate a peggiorare nel 2008, quando sempre la giunta del sindaco Gianni Alemanno decise di affrontate «l'emergenza rom soprattutto sotto i profilo dell'ordine pubblico. Seguirono una serie di sgomberi dei campi abusivi e il trasferimento forzato di circa mille rom quasi tutte famiglie con bambini al seguito. Del tutto inutili le domande presentate da alcuni di loro per avere un alloggio popolare. Negli Ultimi 13 anni il Campidoglio ha pubblicato due bandi generali per l'assegnazione di case popolari, nel 2000, la cui graduatoria si è chiusa nel dicembre del 2009, e uno più recente che si è aperto a dicembre del 2012. Nel 2.000 si decise di privilegiare le famiglie che avevano subito uno sfratto. Scelta giusta, ma che di fatto tagliò fuori i rom visto che gli sgomberi forzati non venivano considerati equivalent! a uno sfratto. Il bando di dicembre del 2012 sembrò invece aprire una possibilità. Tra icriteri fissatí questa volta si è deciso infatti di dare la priorità alle famiglie in grave disagio abitativo e non solo agli sfrattati. «Decine di famiglie rom residenti nei campi hanno presentato domanda di alloggio. Per molte di loro questa era la seconda o terza volta», prosegue sempre Amnesty.
L'illusione però è durata poço. Il 18 gennaio del 2013 il dipartimento politiche abitative pubblica una circolare in cui si precisa che le case saranno assegnate a turno a coloro che si trovano in testa alla vecchia graduatoria, ancora un vigore, e a quella nuova. Specificando perdipiü che i campi nomadi non possono considerarsi come una situazione di grave disagio abitativo (come dormitori, centri di raccolta ecc.) in quanto strutture permanenti. E il 30 gennaio di quest'anno l'allora vicesindaco Sveva Belviso precisa: «Per sgomberare il campo da equivoci, mi vedo costretta a dover ribadire e sottolineare che questa amministrazione, fin dall'inizio dei suo mandato e ancora oggi, non ha previsto alcuna corsia preferenziale o accesso diretto alla casa per i Cittadini rom"
La speranza è che ora la nuova amministrazione guidata dal sindaco Ignazio Marino cambi indirizzo. Le premesse perché ciò avvenga ci sono: a settembre l'assessore alle politiche sociali Rita Cutini ha promesso di voler integrare i rom puntando soprattutto su quattro frontí: istruzione, casa, lavoro e salute. Un buon inizio. Peccato però, denuncia sempre Amnesty, che intanto anche la giunta di centrosinistra continui con gli sgomberi forzati dei campi.



Nel campo senza acqua potabile, 4 bagni per 200 rom, c’è pure la «tassa» sulla luce
Denuncia dell’Associazione 21 Luglio: il proprietario del terreno impone a ogni famiglia di pagare 50 euro al mese. Il Comune: «Pagamenti non dovuti e la convenzione è scaduta»
Corriere.it, 29-10-2013
ROMA - Un campo rom che è terra di nessuno, gestito da una società privata incaricata dal Comune di Roma che, con una spesa di 26 mila euro al mese (si legge nel contratto del 2009) è incaricata di gestire e controllare gli ingressi e le uscite delle persone e dei parenti delle famiglie ospitate. Senza acqua potabile e spesso senza elettricità. E’ il «villaggio attrezzato» di via della Cesarina, tra via Nomentana e il raccordo anulare. Dove le somme pagate da Roma Capitale per il mantenimento del campo sembrano non bastare a soddisfare le pretese del proprietario del terreno, che impone ad ogni famiglia il pagamento di una retta mensile di 50 euro per l’elettricità: una spesa non prevista nell’accordo col Campidoglio. «Il contratto non è più valido» fa sapere l’Ufficio Nomadi del Comune di Roma che boccia l’attuale gestione del campo , mentre l’Associazione 21 Luglio denuncia le condizioni di vita e la «gestione poco trasparente» dell’insediamento.
GESTIONE CONTESTATA - Non possono ricevere visite le famiglie del campo di viale della Cesarina, 2. Una donna anziana sfoga la sua rabbia: «E’ come stare in carcere», ma sa bene che in carcere le visite si possono fare e più volte. Alcune famiglie raccontano di pagare 50 euro al mese al «padrone del campo» per coprire le spese della corrente elettrica e il ritardato pagamento della somma costringe molte di loro a restare al buio per giorni. Pare che la mensilità pagata però, non sia prevista nella convenzione stipulata dal Comune di Roma con l’ente gestore nel 2009, come conferma l’Ufficio Nomadi del Comune di Roma.
IL COMUNE: «ACCORDI CESSATI» - Quell’accordo ad oggi è cessato, non valido - fa sapere l’Ufficio Nomadi - ma stabiliva comunque il cambio d’uso dell’ex «Camping Nomentano» in un nuovo insediamento per famiglie rom: la convenzione mensile di 26.400 euro stipulata a favore della società Fi.Pi.Da.Bi srl e dell’attuale legale rappresentante, C.G., 80 anni, prevedeva «il servizio di guardiania del Villaggio della Solidarietà» a via della Cesarina. Nessuna portineria all’ingresso del campo, niente operatori sanitari né tantomeno volontari.
STOP AI CURIOSI - Il proprietario del campo in effetti vigila dalla finestra della sua casa all’ingresso de La Cesarina, ma lo fa a modo suo: blocca i curiosi, a suo dire «come da contratto». Il Comune di Roma lo chiama «Villaggio della Solidarietà» ma sembra l’ingresso di una discarica abusiva. Cinquemila metri quadrati per circa 200 abitanti e molti bambini. Famiglie bosniache e rumene vivono in condizioni disumane, disperate per il futuro dei loro figli. Alcune persone affermano di sentirsi «mosche in prigione» perché al campo della Cesarina «c’è chi comanda». Nel campo ci sono 4 bagni chimici e 4 docce con l’acqua calda che scorre solo poche ore al giorno e non tutti i giorni. C’è chi giura di non lavarsi con l’acqua calda da tre anni. Il basso voltaggio elettrico non consente a nessuno di utilizzare stufe elettriche per riscaldarsi. Solo bombole di gpl e nessun sistema antincendio tra le baracche sotto i rami secchi che si spezzano sulle loro teste.
PAURA E SENSAZIONE DI RICATTO - Tra queste povere abitazioni è facile percepire la paura e la sensazione di essere sottoposti a un ricatto. Una donna ricorda il funerale del marito effettuato enza parenti, perché i congiunti potevano solo aspettare oltre il cancello, fuori. «Il padrone del campo mi ha detto di portare il morto in strada e cosi ho fatto» conclude la donna. Nella tradizione rom il funerale di un parente è una celebrazione lunga quaranta giorni e prevede la presenza della salma in casa. Nel campo della Cesarina però, anche il funerale diventa un momento di tensione fra gli abitanti e il gestore. «Bisogna superare la logica dei campi rom» sottolinea Carlo Stasolla, Presidente di 21 Luglio che ha spiegato gli effetti psicologici (e fisici) negativi da «segregazione» dei rom: stati depressivi, dermatiti anche sui bambini e problemi respiratori, sono all’ordine del giorno.
70 BAMBINI A SCUOLA - Il servizio di scolarizzazione è fornito dalla Casa dei diritti sociali-Focus e coinvolge circa settanta bambini regolarmente iscritti a scuola. Di certo non aiutano le distanze tra il campo e le scuole. «Non tutti i miei compagni di classe sanno che vivo in un campo» esclama senza esitare una ragazzina. Non ha problemi a raccontare cosa proprio non le va giù del campo: «Il padrone non fa entrare i nostri amici e i nostri parenti qui dentro, fa un casino!». Decide lui insomma. La ragazzina ha poco più di 14 anni e frequenta la scuola media lontano dal campo. Anche lei come tanti altri arriva a scuola ogni giorno in ritardo ed esce un’ora prima. Salta sempre le ore di matematica ma non ha altra scelta per consentire al pulmino in servizio di fare il giro di tutti gli istituti in orario. «L’Opera Nomadi non può più entrare» continua la ragazzina che da mesi fa i compiti per strada con i volontari, cui è vioetato l’accesso nel campo. «L’ha deciso il padrone del campo» termina la ragazzina, che ha provato a chiedere spiegazione al proprietario ma senza risultato.
L’EX CARTIERA DI VIA SALARIA - La situazione non è poi diversa al centro di raccolta rom di via Salaria 971. Sotto tre enormi capannoni in cemento di un’ ex cartiera vivono oltre 380 persone e molti bambini. Nei bagni sporchi e maleodoranti mancano i tubi dell’acqua ai lavandini ed è impossibile lavarsi. Sono famiglie rumene costrette a vivere in camerate suddivise da divisori mobili per 12 metri quadrati a stanza. La struttura accoglie le famiglie dal novembre 2009 e sostiene costi di gestione pari a 2,5 milioni di euro con una spesa pro capite di 18 euro al giorno conferma 21Luglio. L’ingresso è vigilato pure all’ex cartiera e non è facile entrare. Non lo è stato nemmeno per i senatori Francesco Palermo (Gruppo per le Autonomie) e Daniela Donno (Movimento 5 Stelle) della Commissione Straordinaria per diritti umani in Senato che si sono recati in «visita a sorpresa» giorni fa con una delegazione di giornalisti e 21Luglio.

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