Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

Anche gli incrociano le braccia
Oggi è il d-day: ventiquattro ore senza migranti.  Uno sciopero «proiettivo», è stato detto. Una
provocazione culturale, un'idea forte, un atto creativo. Nessuno però si aspetta di tirare le somme, stasera, stilando le cifre di chi si sarà astenuto dal la-voro oppure no.
Egle Santolini
La Stampa, 1 marzo 2010

Il senso dell'iniziativa sta inve¬ce nel rendere visibile quello che finora è stato dato per scontato: come sarebbe la nostra vita senza le badanti moldave, le tate peru-viane, le colf filippine,   gli   operai africani in fonderia, ma anche gli imprenditori   migranti,     sempre più numerosi? Secondo  gli  ultimi dati Istat disponibili,   i   cittadini stranieri residenti in Italia al primo gennaio 2010 erano oltre quattro milioni, pari al 6,55 % del totale dei residenti. Per quanto riguarda l'integrazione nel lavoro degli stra¬nieri e dei naturalizzati italiani, l'Istat cita il dato del secondo trime¬stre 2008, evidenziando che nella popolazione di riferimento fra i 15 e i 74 anni, pari a 2.678.000 unità per gli stranieri e a 311 mila unità per i naturalizzati, «7 persone su 10 con cittadinanza straniera dichiarano di partecipare al mercato del lavoro avendo un impiego o cercando¬lo». Se si aggiunge il dato così diffi¬cile da calcolare del sommerso, quel che si delinea è un esercito che ha cambiato la fisionomia del no¬stro Paese.

Il movimento è nato in Francia («24 heures sans nous», 24 ore sen¬za di noi, con l'astensione dei mi¬granti dal lavoro e dai consumi) sulla scorta di un analogo sciopero lanciato negli Stati Uniti quattro anni fa da lavoratori ispanici, è rimbalzato in Italia, è cresciuto su Facebook in proporzioni non pre-vedibili, ha finito per affacciarsi in

Grecia e in Spagna e si prepara a sbarcare in Belgio, Regno Unito, Germania. Il tutto in pochissimi mesi, secondo le opportunità «vira¬li» offerte dalla Rete.
È soltanto novembre quando co¬mincia  a  coagularsi  in  Francia l'idea di celebrare il primo marzo 2010, quinto anniversario dell'en¬trata in vigore del «codice per l'in¬gresso e il diritto di asilo», con una forma di protesta insieme antica e nuovissima. A intercettarla da noi un gruppo di quattro donne: Stefania Ragusa, italiana, giornalista di «Gla¬mour», Daimarely Quintero, cubana, sindacalista Cisl, Nelly Diop, senega¬lese, che lavora nel catering, e Cristi¬na Sebastiani, pure lei italiana, del¬l'Arci.   Ricostrui¬sce Ragusa, presi¬dente del Comita¬to Nazionale Pri¬mo Marzo: «Su Facebook    abbiamo cominciato a tesse¬re un network di comitati territoria¬li, ma sono stati gli eventi di Rosarno a   far   deflagrare l'iniziativa: le ade-sioni sono arrivate a 47 mila e rotti. Poi sono arrivati anche i sabotaggi. E infatti per un po' abbiamo reso segre¬to l'account, tornando allo scoperto solo alla vigilia della manifestazio¬ne». Ragusa racconta delle adesioni «all'inizio supertiepide e sostanzial¬mente tentennanti» da parte dei sin¬dacati, con qualche ripensamento nel corso delle settimane, e di quelle più franche dei partiti della sinistra («Ma anche di Giuliano Cazzola del Pdl: i politici prestano orecchio al fat¬to che il voto dei migranti non sareb-be a senso unico»). Tiene soprattutto a sottolineare la natura «meticcia» dell'iniziativa, che aspira a raccoglie¬re immigrati e italiani insieme, a con-

trastare l'infida saldatura fra razzi-smo istituzionale e razzismo dei co¬muni cittadini, a denunciare il fatto che, se vengono meno i diritti per gli extracomunitari, è solo questione di tempo prima che tocchi a quelli di tutti, a cominciare dagli italiani pove¬ri. Un movimento che comincia in sordina ma che per Otto Bitjoka, im¬prenditore camerun-milanese da più di trent'anni in Italia, presidente del¬la Fondazione Ethnoland, «potrebbe diventare un nuovo '68, mettendo l'accento, come fa, sul tema chiave della mobilità globale. Che è ormai superiore alla crescita demografi-ca». L'anno prossimo si replica, su scala europea.



Perchè quelle tradizioni rivivono in Occidente.

Renzo Guolo
La Repubblica, 1 marzo 2010
Spose bambine, un fenomeno radicato nelle comunità immigrate che provengono da alcune aree geografiche. Sintomo della difficoltà, per alcuni, di mutare improvvisamente norme, simboli, valori, credenze: in poche parole la cultura in cui gli individui si sono socializzati. Cultu¬ra che si tende a riprodurre anche nell' esperienza mi¬gratoria. Nella spaesante esperienza del migrare ci si avvinghia alla tradizione originaria, nel tentativo di avere punti fermi, consuetudini, stili di vita usuali, in frangenti in cui tutto appare estraneo e, talvolta, ostile.
Così non è infrequente che qualche migrante spo¬si un'adolescente del paese d'origine, magari durante un frettoloso ritorno dopo che le famiglie hanno contrattato il matrimonio, e che la nuova coppia si "trapianti" in Europa continuando a vivere come se nonfosse in Europa. Una prospettiva che non può che tradursi in una dimensione segregazionista, spaziale e sociale, per quelle ragazze. E che le condanna a una sofferta sottomissione o alla ribellione, entrambe di¬sperate, entrambe laceranti; tanto da sfociare spesso nella violenza. Talvolta giustificata persino dalle famiglie delle ragazze, in particolare da parte di padri e fratelli, che vedono messe in discussione strategie matrimoniali che hanno lo scopo di alleggerire il carico economico del nucleo originario, accrescere lo scarso reddito familiare, allargare la rete parentale. Come se il corpo sociale maschile ricomponesse la sua unità sull'imbrigliamento di quello femminile.
Un fenomeno favorito dal proliferare dinicchie comunitarie, etniche e religiose, tipiche di società ine¬vitabilmente sempre più multiculturali. Esito non  solo di dinamiche comunitariste  ma anche di un'Euro¬pa che tende a blindare i confini interni dopo che quelli esterni si  sono mostrati esili. Poligamia di fatto, spose-bambine, uso della giurisprudenza sharaitica all'interno di  un diritto parallelo di famiglia che viene amministrato di fatto in alcune nicchie delle comunità islamiche, sono solo alcune delle problematiche accentuate dalla mancata integrazione o dalla scarsa interazione tra società europee e montante comuni-tarismo etnico e religioso. Una separatezza che riproduce un multiculturalismo ispirato più che al plurali-smo che trova un terreno comune d'incontro, da  una logica di chiusura di gruppo.
Nel nostro paese queste chiusure identitarie, che fanno riferimento più  a usanze e pratiche tradiziona¬li che al  solo sostrato religioso, coinvolgono immigrati egiziani, marocchini, pakistani, bengalesi. Un percorso di ritradizionalizzazione che, fuori dal control¬lo normativo del paese d'origine ma ben dentro a quello sociale, soffocante, della comunità o della rete etnica di appartenenza, assume talvolta dimensioni ancora più stringenti di quelle che avverrebbero nei paesi d'origine, ad esempio in Marocco. Nel paese nordafricano, dal quale è originaria la comunità di immigrati musulmani  più numerosa in Italia, la rifor¬ma del codice di famiglia, la moudawana, tutela più che in passato la condizione della donna, limitando la poligamia e proibendo il matrimonio con minori. Ma parte degli  immigrati  marocchini in Europa ten¬de a ignorare la nuova legislazione, non è ancora divenuta senso comune nella loro esperienza e ai loro occhi dotata di insufficiente legittimazione culturale e religiosa. Da qui la riproposizione, nella dimensione migratoria, di vecchie e oppressive consuetudini. Un processo, quello di ritradizionalizzazione etnica o religiosa, che talvolta la stessa azione degli Stati europei incoraggia più o meno consapevolmente. Disin¬teressarsi di quanto avviene tra  gli immigrati  perchè occuparsene significherebbe porsi il problema della loro integrazione culturale, riproduce, infatti, quell'esito. Servirebbero politiche capaci di scardinare o di trasformare una coesione comunitaria dai tratti chiusi e sessisti. Ma questo, almeno nell'Italia odierna, resta una mera illusione.






Immigrati oggi in sciopero: «Senza di noi l'Italia si ferma»

Il Messaggero, 1 marzo 2010

ROMA - Oggi il primo «sciopero nazionale» degli stranieri, proclamato per rendere «visibili» gii immigrati che vivono e lavorano in Italia e per lottare contro il razzi¬smo. Colore predominan¬te sarà il giallo, scelto dagli organizzatori della prote¬sta, che nasce dalla Francia e si allarga anche ad altri paesi europei, oltre che al¬l'Italia. Sessanta le piazze tinte di giallo, «per sostenere l'impor¬tanza dell'immigrazione per la tenuta socio-economica del Paese», come ha annunciato il comitato Primo Marzo 2010: «Una giornata senza di noi e l'Italia si ferma».



Mio nonno era extracomunitario

I bambini "3G": alla scoperta della terza generazione di "stranieri"
LA STAMPA, 1 marzo 2010
ELENA LISA
Tra i nipoti della prima «ondata»
Non sono sbarcati su una carretta del mare. Non hanno superato il confine nascosti nel sottofondo di un tir. Non sono arrivati con la mamma mentre il papà, qui, si arrabat¬tava da tempo. In Italia ci so¬no nati, come gran parte dei loro genitori. Eppure sono stranieri lo stesso: li chiama¬no stranieri «3G», di terza ge-nerazione. Sono i nipoti dei primi arrivati, nati mentre an-cora il Paese si spacca su co¬me affrontare i problemi dei lo¬ro padri e delle loro madri.
Se i «2G» na¬vigano tra cul-ture diverse, i loro figli cresco-no immersi nel-

le  abitudini  e nelle tradizioni italiane.   Sono venuti al mon-do a migliaia di chilometri dal¬le terre d'origine e ad anni lu¬ce dalle usanze che già i loro genitori hanno ereditato sol¬tanto in parte. Per questo la sfida, piuttosto urgente anche alla luce delle tensioni viste in Francia e Gran Bretagna, è la costruzione di una rete d'inte¬grazione priva di falle. Perché i più grandi dei «3G» vanno a scuola    sentendosi   italiani «senza se e senza ma».
La loro età media ricalca i flussi migratori che, di anno in anno, hanno coinvolto un Paese dopo l'altro. A Milano, ad esempio, i più «anziani» -sette, otto anni - sono nipoti dei primi immigrati mediorientali arrivati tra gli anni 60 e 70. Molti frequentano le ele¬mentari nella città dove i loro nonni (spesso perseguitati poli¬tici) si sono stabiliti formando le comunità più numerose di si¬riani, giordani, iraniani e libane¬si. I più piccoli sono nipoti e figli degli stranieri che hanno dato origine all'ondata migratoria più massiccia, quella degli anni 90 che ha coinvolto tutta l'Ita¬lia. Sono nati da poco e hanno nonni marocchini, egiziani, al-gerini, sudanesi.

«Sono moltissimi anche i su¬damericani "3 G" - spiega il so¬ciologo Maurizio Ambrosini, professore di Politiche Migrato-rie alla Statale di Milano - In gran parte vivono a Genova. Le loro nonne, oggi poco più che quarantenni, sono ragazze arri-vate sole negli anni del boom dell'immigrazione, dall'Ecua¬dor e dal Perù . Donne che, do¬po aver trovato lavoro come colf e badanti, si sono ricongiun¬te ai figli: ragazzi che oggi han¬no più o meno vent'anni e sono diventati a loro volta genitori».
Per  loro,  lo Stato    italiano, applica le norme dello ius sangui¬nisi concede la cittadinanza so¬lo se uno dei ge-nitori l'ha già ot¬tenuta. Senza ec-cezioni: una pro¬posta   di  legge del Pd per garantire il passa¬porto ai «3G», come succede in quasi tutti i Paesi europei, è fer¬ma da un anno in Senato.
Una situazione di stallo che alla lunga potrebbe creare pro-blemi non solo sul fronte dei di-ritti e dell'uguaglianza, ma an¬che su quello della sicurezza. In Gran Bretagna sono stati prò-

prio i musulmani di terza gene-razione a diventare terra di con-quista per l'estremismo islami-co. «Un integralismo di ritorno per ricostruirsi un'identità», spiega Paola Briata, studiosa di fenomeni immigratori che al Po-litecnico di Milano insegna «Progetti di sviluppo territoria-le». Perché se gli immigrati ap¬pena arrivati sono assorbiti da problemi pratici, come trovare una casa e un mestiere, i loro fi-gli studiano e lavorano per emanciparsi e prendere, alme¬no formalmente, le distanze dai paesi d'origine. «Ma  per le terze generazioni la questione è anco¬ra diversa - continua Paola Briata - Sono persone che si sentono parte del Paese in cui vivono, ma continuano a subire discri¬minazioni, nonostante abbiano acquisito per nascita la lingua e la cultura del posto. Non a caso, dopo gli attentati del 2005, Lon¬dra sta cercando di sviluppare una politica sociale che coinvol¬ga esclusivamente i 3G».
Da noi è ancora tutto fermo. «Siamo all'inizio del fenomeno, ma i presupposti non sono i mi-gliori - avverte Oliviero Forti, responsabile nazionale dell'Uf-ficio immigrazione della Cari-tas - perché manca una politica nazionale sull'immigrazione. La scommessa con le terze ge-nerazioni si può vincere, ma so-lo se ci si muove subito».










Immigrati in fila per le case popolari
Torino innalza a 5 anni il vincolo della residenza, Brescia vorrebbe portarlo a 10

il Sole 24 Ore, 1 marzo 2010
Carlo Giorgi
L'integrazione degli stranie¬ri si costruisce un mattone (pub-blico) dietro l'altro. Nelle grandi città, infatti, sta aumentando il numero degli immigrati che ot¬tengono un alloggio di edilizia re¬sidenziale pubblica: a Milano, il 17,2% delle case popolari asse¬gnate, ad oggi, ha un titolare stra¬niero. Valore tanto più significativo considerando l'incidenza de¬gli immigrati residenti sul totale della popolazione della provin¬cia, che arriva "solo" al 9,4 per cento. A Brescia, altra città di grande presenza immigrata, i ti¬tolari stranieri di alloggi popola¬ri per la prima volta hanno rag¬giunto il 12,5% del totale. Mentre più contenuta, pur se in crescita, risulta essere la loro percentuale a Bologna (9,2) e a Torino (7,4).
Per gli immigrati la medaglia dell'alloggio popolare però ha due facce opposte: da una parte costituisce il primo passo decisi¬vo verso l'integrazione. «Nei no¬stri quartieri ci sono sportelli pubblici, custodi sociali: l'inquili¬no anche immigrato trova qual-cuno a cui rivolgersi - spiega Lo¬ris Zaffra, presidente Aler Mila-no -. Se la strada della conviven¬za è quella dei quartieri con un

buon mix sociale, i nostri posso¬no essere un laboratorio. Una si-tuazione di emarginazione diffu¬sa come quella della zona di via Padova, a Milano, non si verifica. Tra i nostri migliori inquilini ci sono proprio gli stranieri: per lo¬ro riuscire a ottenere la casa è una conquista sociale. Se posso¬no, sono puntuali nel pagamento degli affitti».
Segnali di fragilità
Il crescente accesso degli immigrati immigrati alle case popolari è la spia della fragilità delle loro condizio¬ni economiche, accentuate dalla crisi. Secondo un rapporto sul¬l'integrazione di Orim, Osserva¬torio regionale per l'integrazio¬ne e la multietnicità, nel 2009 il 14,3% degli immigrati in Lombar¬dia viveva in condizioni di gran¬de precarietà alloggiativa, e l'11,3% poteva giovarsi solo di af-fitto condiviso con estranei. Co¬sì a Milano, il 56% delle richieste per alloggio popolare sono di cit¬ta di immigrati. Valore supera¬to solo da Brescia (59,8%) e che rimane consistente a Torino (41,2%) e a Bologna (44,1%).
Una pressione di richieste (e una concorrenza per gli affittua¬ri italiani) che le amministrazio¬ni cercano di contenere: il con-

siglio regionale del Piemonte il 9 febbraio ha approvato una leg-ge di riforma per l'assegnazio¬ne delle case popolari, indican¬do come requisito per un allog¬gio, la residenza continuativa di tre anni nel Comune del ban¬do. Provvedimento scritto sul modello dell'analoga legge lom¬barda del 2004, che pone il vin¬colo di cinque anni di residen¬za. Sbarramenti amministrativi che raggiungono il risultato di limitare soprattutto le doman¬de di cittadini stranieri di "re¬cente" immigrazione. Italiani e stranieri che chiedono un allog¬gio pubblico sono però molto diversi tra loro: una recente ri¬cerca sulle domande presenta¬te al comune di Bologna, rileva che quelle provenienti da perso¬ne sole (70,5%) o da genitori so¬li con prole (61,9%) sono in mag¬gioranza di inquilini italiani. Quelle di giovani coppie con o senza figli (72,9%), e di nuclei composti anche da più di cin-que persone (74,9%) provengo¬no invece da richiedenti stra¬nieri. Insomma, a contendersi gli alloggi sono, da una parte, an¬ziani italiani spesso soli e, dall'altra, giovani famiglie stra¬niere numerose.

In competizione
Italiani e stranieri sono utenti con necessità abitative molto di-verse, che rischiano di entrare in competizione, anche a causa del limitato patrimonio residenziale sociale. «A Brescia possiamo contare su circa 5mila alloggi -spiega Massimo Bianchini, asses-sore comunale alla Casa -, con i quali non riusciamo a soddisfare le esigenze degli italiani anziani e soli. Le nostre case sono state costruite in un'epoca in cui le fa¬miglie erano numerose; si tratta di appartamenti grandi che ven¬gono assegnati a nuclei stranieri, con molti figli, scavalcando gli italiani. Per questo stiamo pen¬sando a interventi di ristruttura¬zione degli alloggi e non sarem¬mo contrari a un limite di dieci anni di residenza minimo per fa¬re domanda».
«La presenza degli immigrati nel patrimonio delle case popola¬ri è destinata a crescere - spiega Pierluigi Rancati, segretario lom-bardo del Sicet, sindacato degli inquilini -. Da una parte perché gli stranieri hanno meno possibi¬lità economiche degli italiani; dall'altra perché, nonostante una richiesta crescente, l'offerta rimane limitata e non ci sono in-vestimenti significativi in nuove case popolari».



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