Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

Menù

 

"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

08 febbraio 2011

Indice
08 febbraio 2011
Pagina 2

ROMA - Il sindaco della Capitale Gianni Alemanno ha dichiarato per mercoledì il lutto cittadino per commemorare i 4 bambini morti domenica in un campo rom sulla via Appia. Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, lo ha comunicato all'uscita dall'obitorio di piazzale del Verano dove, insieme al capo dello Stato, Giorgio Napolitano, oggi ha visitato le salme dei quattro bimbi rom morti ieri in un campo abusivo della capitale. E dove ha incontrato i loro genitori. Questi ultimi, ha spiegato il sindaco, «sono ospitati in una nostra casa di accoglienza e sono assistiti fino a mercoledì» quando «le salme ritorneranno in Romania». Il sindaco ha garantito che «tutte le spese saranno a nostro carico per evitare altri drammi a queste persone. Assicuriamo la massima solidarietà e vicinanza della città a questa famiglia». Intanto la procura di Roma procede, per ora contro ignoti, per abbandono di minori.
L'OMAGGIO DEL PRESIDENTE - Il capo dello Stato è giunto all'obitorio dell'Istituto di medicina legale, di fronte al cimitero monumentale del Verano, accompagnato dal segretario generale del Quirinale, Donato Marra. Il presidente della Repubblica ha reso omaggio alle piccole vittime del rogo. All'interno dell'obitorio il presidente Napolitano si è intrattenuto una ventina di minuti, incontrando anche i famigliari dei piccoli. «È stata una tragedia che pesa dolorosamente su ciascuno di noi e che ci rende ancor più convinti della necessità di non lasciare esposte a ogni rischio comunità che da accampamenti di fortuna, degradati e insicuri, debbono essere tempestivamente ricollocate in alloggi stabili e dignitosi. Le autorità locali e nazionali non possono non sentirsi impegnate ancor più fortemente a dare soluzione a un problema così grave in termini umani e civili», afferma il capo dello Stato, che sottolinea: «Ai genitori e alla superstite sorella dei quattro bambini rom orrendamente periti nel rogo del precario rifugio in cui vivevano, ho voluto esprimere il sentimento di umana solidarietà che con me oggi provano tutti i romani e gli italiani».
UE: «INTEGRAZIONE ROM SIA PRIORITÀ» - «La tragedia di ieri a Roma dimostra che l'integrazione dei Rom deve restare in cima alle priorità dell'agenda politica», questo il commento della vicepresidente della Commissione europea, Viviane Reding, responsabile per la giustizia e protagonista la scorsa estate di un duro scontro con il presidente Nicolas Sarkozy sulle espulsioni dei Rom dalla Francia, accusata di «discriminazione razziale». «Per la Commissione la questione dei Rom è molto più di una semplice storia estiva. Stiamo lavorando con gli stati membri per migliorare la situazione dei Rom in Europa».
IL PADRE DEI BIMBI - «Qualcuno dice che non abbiamo accettato accoglienza, non è vero. Il Comune e nessun altro ce lo ha mai proposto. Inoltre siamo stati sgomberati più volte. Ora vogliamo solo riportare le salme in Romania: spero che succeda presto, nei prossimi giorni». Queste le parole di Mirca Erdea, il padre di tre dei quattro bimbi morti nell'incendio di una baracca di un insediamento abusivo a Roma ieri sera. I genitori dei bimbi non hanno specificato dove si trovano in queste ore.
TRASFERIMENTI A BREVE - In mattinata si era tenuta una riunione, presenti il prefetto Giuseppe Pecoraro, lo stesso sindaco, l'assessore ai Servizi Sociali Sveva Belviso, il questore Francesco Tagliente e il responsabile della Protezione civile comunale Tommaso Profeta, in cui si è discusso della possibilità di accelerare gli ultimi sgomberi previsti dal Piano Nomadi: a cominciare dalle baracche del campo dove è avvenuta la tragedia, che saranno vuotate a abbattute nelle prossime ore. «Gli sgomberi dei microcamopi inizieranno immediatamente - ha annunciato Alemanno -. Chiederemo aiuto alla Protezione civile e al ministero della Difesa. Ai primi per costruire tendopoli vigilate e con assistenza continua; al ministro La Russa perchè metta a disposizione caserme sul territorio di Roma e provincia dove portare gli sgombrati dei microcampi».
2400 DA RICOLLOCARE - Il Campidoglio calcola che in questi microcampi siano ancora 2400 i nomadi da ricollocare in nuove strutture. Quanto ai minori, «se venissero accertate situazioni in cui i genitori non siano in grado di garantire la sicurezza dei figli - ha detto il sindaco - lancio un appello al Tribunale dei minori, affinché collabori per togliere loro l'affidamento dei bambini».
FIORI SULLA CENERE - Intanto sull'Appia, accanto ai resti della baracca da cui solo lunedì mattina sono stati rimossi i corpi dei piccoli, qualcuno ha deposto dei fiori. E mentre infuriano le polemiche, anche il sindaco di Bari, Michele Emiliano, ha proclamato il lutto cittadino per la morte dei quattro bambini a Roma: «I Comuni italiani non possono essere lasciati soli dallo Stato».
RUSPE E NUOVI INVESTIMENTI - «Dobbiamo reagire, dobbiamo dare una risposta adeguata a quel che è successo - ha poi detto Alemanno -: basta con la cultura del no. Il Pian Nomadi ha dato alcuni risultati: finora 310 microcampi abusivi sono stati sgomberati 5 grandi campi abbattuti». Sono in corso i lavori di adeguamento in 5 dei 7 vecchi campi, ma «non abbiamo potuto completare alcune cose per una serie di problemi burocratici e ricorsi al Tar, come accaduto proprio nel caso del campo nomadi della Barbuta», un insediamento a soli 6 chilometri al luogo della tragedia di domenica in via Appia.
TRASLOCHI E NUOVI POTERI - Secondo Alemanno, «Se il campo della Barbuta fosse stato ultimato per tempo, magari questa famiglia si sarebbe trasferita e non avrebbe subito questa tragedia». Invece da un anno e 3 mesi la ristrutturazione del campo sull'Apia è ferma «perché la sovrintendenza ha trovato una tomba romana». Altri 3 mesi di ritardo nello stesso campo sarebbero imputabili «a 4 ricorsi al Tar di cui uno del Comune di Ciampino».
Sindaco e prefetto di Roma hanno firmato insieme una lettera inviata a Viminale e Governo; nella missiva congiunta chiedono maggior poteri speciali per i prefetti (in questo caso a quello di Roma) e tra questi il potere di saltare la Conferenza dei servizi «in modo da non dover chiedere i parari a tanti enti prima di cominciare i lavori nei campi rom».
La autorità capitoline chiedono poi al Governo maggiori risorse: «Avevamo progetto di fare 3 campi nuovi, ma probabilmente saranno 5 (dato l'alto numero di nomadi nei microcampi abusivi), inclusa la Barbuta». Le aree sono tutte già individuate «ma servono 30 milioni di euro in più» rispetto ai 32 già ottenuti (e 20 sono già stati spesi) per il Piano Nomadi da Regione, Comune e Provincia nel complesso.
IL PRECEDENTE DELL'AGOSTO 2010 - La Capitale ha un piano nomadi che nell'autunno scorso era stato presentato da Gianni Alemanno al ministro dell'Interno Roberto Maroni. Il progetto prevede la creazione di 10 nuovi campi regolari per dare accoglienza a circa 6 mila persone. Nel corso del 2010, il piano del Campidoglio ha dato il via a numerosi sgomberi forzati di insediamenti abusivi, specie dopo che nel campo rom abusivo della Muratella c'era stato un altro tragico precedente: la morte di un bimbo di tre anni nel rogo della sua baracca.
310 MICRO ACCAMPAMENTI - Primo obiettivo del piano entrato nel vivo nell'estate 2010: sgomberare i 310 microaccampamenti abusivi presenti alla periferia di Roma. In seguito dovrebbero essere completate le aree mancanti dei campi autorizzati - che dai 1o ipotizzati sembrano poter diventare 15-16 -, ai quali si devono aggiungere due strutture d'accoglienza. Nei campi, una volta completate le strutture, verranno ospitate le 6mila persone inizialmente censite e i 2400 ancora stanziati nei microcampi abusivi.
Alle strutture attrezzate già esistenti, andranno dunque aggiunti nuovi campi che verranno realizzati su terreni privati trovati grazie a un bando di gara pubblicato dal Prefetto di Roma in qualità di commissario straordinario del Governo.
I tempi, già stretti, si riducono ancora alla luce della tragedia di domenica sull'Appia: non c'è scadenza certa, ma l'obiettivo è quello di arrivare entro dicembre 2011 alla chiusura di tutti i campi abusivi e tollerati - come avvenuto al Baiardo e a Tor Dè Cenci - in aree come Tor Di Quinto, Foro Italico, Arco di Travertino, Ortolani (Acilia), Monachina, Salviati, Settechiese.
IL MINISINDACO: «IL PIANO VA RIVISTO» - «Non si può continuare a sballottare famiglie con bambini, sgomberandole senza offrire loro proposte alternative e non si può far finta di non sapere in che situazione quelle famiglie si trovavano», obietta la presidente del IX Municipio di Roma, Susi Fantino, intervistata da Radio Città Futura all'indomani del rogo. Fantinom, che domenica sera aveva litigato con Alemanno sul luogo del disastro, insiste che «il Piano Nomadi del Comune di Roma va rivisto, perchè prevede di costruire i campi lontano dal contesto cittadino e da tutti i servizi: se l'idea è quella di creare delle situazioni isolate, non si dà a queste persone, che ormai non è più corretto chiamare nomadi, la possibilità di inserirsi, di lavorare, di mandare i figli a scuola». «Il sindaco chiede poteri speciali ma ce li ha già - conclude -: è il sindaco che in Italia ha più poteri di tutti e ha il dovere di fare delle proposte che partano delle persone e dai loro bisogni reali».
IL SINDACO DI BARI - «La morte dei bimbi riempie il cuore di rabbia e di dolore» e «siamo tutti responsabili di questa tragedia a causa delle sgangherate modalità con le quali affrontiamo il fenomeno dei popoli nomadi», osserva il sindaco di Bari Michele Emiliano. «La circostanza che alcune di queste comunità - spiega - ospitino sfruttatori di bambini, non attutisce i nostri errori, nè ci esenta da responsabilità. Anzi le aggrava». Emiliano auspica «una nuova strategia, a cominciare da un decreto legge urgente che assegni ad ogni Comune le risorse per operare una legalizzazione definitiva dei campi Rom dettando norme per assicurare ai bambini ed alle donne Rom gli stessi diritti delle donne e dei bambini di ogni luogo civile del mondo. Soprattutto il diritto all'istruzione, al lavoro e a non essere sfruttati dagli uomini e dagli adulti».



Le vite dietro un cellophane dei quattro piccoli fantasmi

Pochi giochi, niente scuola: così si cresce nelle baracche
Corriere della sera, 08-02-2011
Goffredo Buccini
ROMA — C’è l’orsetto rosso di Raoul, c’è la finta Barbie di Patrizia. Dettagli buttati su un materasso sopravvissuto alle fiamme, in mezzo al prato stento e al fango secco, sotto il sole del mattino che da queste parti illumina di contraggenio persino quando risplende. Sempre ci sono, in ogni strage, bambolotti e peluche per i taccuini, a raccontare in due righe e una foto com’era la vita dei bambini morti. Ed è così anche qui, anche oggi, in fondo all’Appia Nuova, dietro un recinto verde sbarrato dalle catene, in una campagna che fu deposito Stefer e poi Cotral, trasporti e oblio ai bordi di periferia e ai confini della buona coscienza dei romani che s’offusca un po’ oltre il civico 800, accanto al concessionario Volkswagen e di fronte al green di un esclusivo campo da golf. È così pure per queste vite e per questi bambini: benché fossero nascoste da tende di cellophane e tettoie d’amianto, le vite; benché fossero poco più che fantasmi, i bambini; e benché stavolta il racconto dell’orsetto e della bambola suoni falso, «taroccato» come un’istantanea di pietà tardiva. Nella notte un disperato delle baracche accanto ringhia ai cronisti cruda rabbia e nuda verità, «venite adesso che bimbi bruciano, bastardi, prima ve ne fregavate!» , per poi sparire nel nulla perché con tanti sbirri nei paraggi non si sa mai. E in effetti pure al mattino continua l’assurdo balletto sui nomi e le storie dei quattro piccoli ammazzati dall’incendio della loro catapecchia: chissà se Raoul era il figlio o il nipote di mamma Liliana, chissà se la bambina si chiamava Patrizia o Elena, chissà se Fernando e Eldeban sono lo stesso ragazzino di sette anni col nome tradotto o storpiato, chissà se Sebastian coi suoi undici anni è il fratello maggiore di Raul o un suo giovanissimo zio; tra questura, Nono municipio e associazioni, nonostante le migliori intenzioni di tutti, il rompicapo di identità e parentele sta lì a raccontare ciò che nessuno dice: che a dispetto di censimenti e regolarizzazioni promesse, di questi spettri infossati nella campagna di Roma sud nessuno sa e sapeva un accidente. Sicché le vite dei bambini, quelle degli adulti, le esistenze di sette gruppi familiari, venti o venticinque persone stipate quaggiù nella borgata di Tor Fiscale, in mezzo al parco dell’Appia e a una manciata di metri dall’acquedotto romano e dai tesori archeologici della zona, bisogna svelarle per immagini. Quella della Barbie e dell’orsetto è vera per metà, perché i bambini non erano bambini come i loro coetanei fuori dalle baracche, il gioco era forse un angolo dove nascondersi dagli incubi. «Li mandavano in giro a chiedere l’elemosina» , dice una voce malevola e da prendere con cautela perché per certa gente tutti i bambini rom vanno a chiedere l’elemosina, e questa può essere un’infamia postuma. Però la vita era dura. «Non andavano a scuola» , racconta Susi Fantino, la vendoliana presidente del municipio che ha duellato l’altra notte con Alemanno davanti alla scena dell’orrore. Ora di quella scena resta un largo spiazzo dopo il cancello verde e gli uomini della Scientifica chini tra i reperti: sullo stendino di plastica bianca, un giaccone, un vestito da donna, forse di mamma Liliana; una sedia e una bombola col tubo ancora attaccato; gli strumenti di sopravvivenza in cucina, un bacile, due pentole di ferro, una teglia, un flacone di detersivo, una grande brocca. Non c’era luce e per scaldarsi si riempivano d’alcol scatole di tonno e s’accendeva la fiamma. Non c’era acqua e il bagno è un riquadro di assi di legno smangiucchiate con un buco in mezzo e un’altra tenda di cellophane a simulare mura inesistenti. Qui le baracche ci sono sempre state da quarant’anni, sono cambiati gli occupanti e tutti se sono infischiati. Vecchi capannoni sono stati abbattuti come per esorcismo, dopo una storiaccia di pedofilia. Tanti disperati di un tempo hanno adesso la casetta abusiva in zona, si intuisce una specie di assurdo ascensore sociale in questi viottoli dove officine, casupole e vestigia della Roma antica si mescolano ciabattando sciatte come solo nella Roma postmoderna è possibile. I tuguri anche adesso s’assomigliano tutti — quattro travi, due tende da campeggio comunicanti, un po’ di eternit per tettoia, sacchi a pelo e materassi, bagni rifiuti: sicché, dodici ore dopo il rogo e la strage, ci si affaccia nella baracca di Mia, la vicina, a nemmeno cento metri, per sbirciare senza pudore brandelli della vita degli altri, di quelli che non possono più raccontare. Mia è gentile, spaventata, parla male l’italiano, meglio il romanesco. Dice che per l’acqua c’è il «nasone» due vicoli qua dietro. Dice che si campa svuotando cassonetti, «rovistiamo, puliamo e rivendiamo al mercatino» : e ci fa vedere un lampadario sgarrupato che per cinque euro verrebbe via. Dice che i volontari di Madre Teresa di Calcutta le portano da mangiare ogni settimana, la sede sta proprio vicino al «nasone» dell’acqua, la più antica aperta in Europa da Madre Teresa che coi suoi occhi da santa capiva e vedeva prima di chiunque. Di assistenti sociali o vigili, quaggiù, «manco l’ombra» . E anche adesso, mentre telecamere, poliziotti e carabinieri rivoltano zolla per zolla il terreno della strage qui accanto, nessuno degna Mia e la sua baracca di un’occhiata: si resta invisibili fino alla morte in certe vite. Della sua vita, metà sta fuori dalla tenda, la dispensa è un ammasso di pacchi di pasta e barattoli di pomodoro sotto un ombrello viola sdrucito. Per traslocare basta un carrello. Per morire basta una scintilla che schizza dalla scatola del tonno. Mia sospira: «Quattro bambini piccoli, non ho dormito, stanotte... poveretti, quattro bambini» . Poi giura di non conoscerne i genitori: «I bambini erano abituati a stare soli» . Venivano da lontano Raoul e la sua famiglia disgraziata. Dal sud della Romania alla Roma della Caffarella, altro rifugio, altro ghetto, altro incubo fino agli sgomberi e alla storiaccia di uno stupro che nel 2009 fece traballare l’immagine della città. Ancora sballottati, appresso a quelli di Action al Regina Elena occupato, di nuovo alla Caffarella e infine fuori, a Colleferro: «Volevamo stare in campagna ma ci hanno cacciato anche da quella casa perché eravamo troppi» , ha detto ieri piangendo disperata mamma Liliana. In certe vite si è sempre troppi, in certe vite si fugge sempre. Di queste vite restano infine due grandi dalie, una arancione e una rosa, nella rete di recinzione. Ma deve averle infilate lì qualche fotografo furbo per ricavarne un bello scatto: chi amava Raoul e i suoi è già scappato lontano e forse non aveva il tempo per deporre fiori.



Non è solo indifferenza

il manifesto, 08-02-2011
Annamaria Rivera
In fondo che ne sappiamo, di queste rivolte?», obietta l'amico, un vecchio compagno di solito ben orientato. «Come andranno a finire? Non scordiamoci dell'Iran e dell'abbaglio che prendemmo allora! Forse è meglio la stabilità attuale, per quanto non ci piaccia, che il rischio del caos e dell'islamismo». Replico con ogni argomentazione possibile, gli oppongo dati e analisi. Obietto che non tutte le insurrezioni sono finite in modo disastroso, che in Spagna, in Portogallo, in certi paesi dell'America Latina in fondo non è andata troppo male. Concludo che comunque ogni popolo ha diritto alla ribellione e che non si può preferire la dittatura, la repressione, l'ingiustizia al disordine. Niente da fare: rimane saldamente aggrappato ai suoi pregiudizi e alle sue paure.
È la sera del 6 febbraio. Ho appena saputo del rogo che ha ucciso quattro bambini rom, nella miserrima baraccopoli romana in fondo all'Appia Nuova. Attendo invano segnali di vita da almeno una delle tante mailing list antirazziste. Poi decido di telefonare a qualche attivista. È domenica: lì per lì cade dalle nuvole, ignorava la notizia. L'indomani mattina presto, ugualmente, tutto tace. La morte atroce delle quattro creature per il momento sembra non avere eco nel movimento antirazzista. Per fortuna verso la fine della mattinata i segnali arrivano.
Obiezione scontata: che c'entra la rivoluzione araba, o comunque la si voglia chiamare, con la morte dei piccoli rom? Risposta altrettanto scontata: la prima e la seconda reazione sono dettate dall'indifferenza. Ma la spiegazione è insufficiente, non coglie la radice dell'analogia. E poi sarebbe davvero ingiusto sostenere che gli attivisti antirazzisti siano di solito indifferenti. Forse c'è qualcosa di più profondo che le lega: forse è la tendenza a rimuovere la sofferenza altrui, ad allontanare i corpi e la loro vulnerabilità. Così che quando la politica s'incarna in esseri umani uccisi dalla discriminazione e dal pregiudizio o spinti alla rivolta da un'oppressione intollerabile, incisa nelle loro vite, la prima reazione difensiva può essere l'esitazione e l'imbarazzo, nel primo caso, il cinismo travestito da realismo politico, nel secondo. L'uno e l'altro riflesso avranno qualcosa a che fare con la troppo citata morte del desiderio e la depressione collettiva conseguente, ovvero con l'umore nazionale prevalente? Penso proprio di sì. L'infelice paese nel quale ci è dato vivere rischia di diventare un deserto in cui si aggirano morti viventi che non sanno di essere morti. Hanno smesso di desiderare il cambiamento, cioè la vita. Non sanno più immaginare ed emozionarsi, perciò restano abbarbicati alla fragile certezza della loro vita fittizia. Ci vorrebbe qualche pazzo desiderante come Mohammed Bouazizi, fra quelli di noi ancora in vita. Non auspico un suicidio, ovviamente, ma un gesto politico collettivo: tale in fondo è stato quello del piccolo ambulante tunisino che, immolandosi col fuoco, ha acceso la miccia della rivolta. Un atto che d'improvviso accendesse la luce del desiderio di un altro paese possibile. Dove i bambini rom non siano uccisi dai roghi dell'apartheid, i lavoratori non siano decimati dallo sfruttamento, le donne non siano massacrate dal delirio maschile e il despota sia costretto ad andare in pensione con la sua corte di nani e ballerine.



Lezione di cinese ai bimbi italiani

Paga tutto Pechino
La Stampa, 08-02-2011
FABIO POLETTI
In Veneto scuola gratuita per 64 bambini delle elementari Il progetto finanziato dall'Istituto Confucio: "E solo l'inizio"
La conoscono tutti «Frà-Mar-ti-no-cam-pa-na-ro...». Sessantaquattro bambini della scuola primaria dell'Istituto comprensivo Lendinara nel mezzo del Polesine, la sanno pure in cinese. E cantano «Due-tigri-correvano-velo-cemente», come se niente fosse. «Bravissimi, hanno una capacità di apprendimento che noi adulti nemmeno immaginiamo», spiega Pierluca Benini, docente di cinese moderno in questa scuola, l'unica in Italia dove insieme ai pri mi rudimenti di inglese viene insegnata ai bambini pure la lingua di Pechino. «Ci è stata data un'opportunità. L'abbiamo presa al volo. I cinesi sono 1 miliardo e 300 milioni. La loro economia tira nel mondo. In questo mondo globalizzato è meglio imparare a farsi capire pure da loro», racconta Lucio De Sanctis, direttore di questa scuola in centro al paese, tre piani per mille allievi di tutta la zona tra scuola primaria elementare e media, dove all'ingresso sventolano il tricolore e la bandiera azzurra d'Europa ma dentro batte un cuore tutto cinese.
A Lendinara ci sono 12 mila abitanti tra italiani e stranieri, duecento sono immigrati dalla Cina. Una volta lavoravano nello zuccherificio, nelle fabbriche dove ancora si tesseva la juta. Adesso sono impiegati nelle piccole e medie aziende - scarpe e confezioni soprattutto - dove il made in Italy combatte sul mercato globale. Alcune aziende lavorano già nell'Est Europa, altre sono arrivate fino in Cina. E la Cina adesso gli è arrivata in casa grazie all'Istituto Con-; fucio di Padova, una specie di Istituto Dante Alighieri per promuovere nel mondo la lingua e la cultura cinese. E siccome sono cinesi, fanno le cose velocemente e assai in grande.
Wang Fusheng è il direttore dell'Istituto Confucio di Padova. Uno dei quattrocento nel mondo, destinati a diventare duemila entro la fine del decennio. L'istituto lavora alle strette dipendenze dell'ambasciata a Roma, sotto il controllo diretto del governo di Pechino. Deve solo promuovere la cultura e la lingua, non fa politica, non promuove alleanze commerciali. Wang Fusheng sogna in grande: «Ci piacerebbe prendere contatti con il vostro ministero della Pubblica Istruzione. Per noi è molto importante. I corsi vengono pagati direttamente dal nostro istituto. Gli istituti Confucio nel mondo, per questo hanno un budget di 4,5 miliardi di dollari».
Tolte pure le spese per le sedi e per il personale, sono comunque tre miliardi e trecento milioni di euro più gli spiccioli che il ministro Mariastella Gelmini se li sogna di notte.
I corsi nella scuola di Lendinara sono gratuiti e aperti a tutti i bambini delle terze e quarte elementari. Più piccoli non avrebbero le capacità grammaticali per apprendere un'altra lingua. L'idea è che l'insegnamento del cinese vada avanti fino alla fine delle medie, con un percorso didattico di sei anni. Un'ora alla settimana per adesso. Al pomeriggio nell'area di insegnamento extrascolastico. Su sessantaquattro bambini si sono iscritti in sessantaquattro. Pure due bambini originari del Marocco. «In un anno imparano le frasi più semplici. In sei anni sono in grado di sostenere già una conversazione e di scrivere correttamente», assicura l'insegnante di cinese mentre racconta che la difficoltà di apprendere una lingua così diversa dalla nostra, è solo uno stimolo maggiore per tutti i bambini.
Se i piccoli alunni sono entusiasti, i genitori non sono da meno. Andrea Paio, professione commercialista, ha una figlia iscritta in questa scuola: «Io sono contento che i nostri bambini imparino un'altra lingua come il cinese. Non è solo per completare un processo di integra-zione culturale. Ma so che così i no-
stri figli in futuro avranno una marcia in più. Io sono commercialista. Mi capita di lavorare con i cinesi. Quando parlano tra di loro ovviamente capisco nulla...». Potenza di questo Nord Est che guarda alle nuove sfide e si arrende mai. Potenza di questo Polesine laboratorio di nuove sperimentazioni didattiche. Vincenzo Milanesi, presidente dell'istituto Confucio ed ex docente all'Università a Padova, in questo progetto crede molto: «La Cina Popolare sta facendo grossi investimenti sulla cultura. E questo è un vantaggio per tutti perchè la conoscenza tra i popoli favorisce la cooperazione».
Il sindaco di Lendinara Alessandro Ferlin, eletto con una lista civica che tiene insieme centrodestra e centro-sinistra - bella sfida pure quesa - fa l'entusiasta: «Che i nostri figli imparino l'inglese è scontato. Il cinese è oramai un obbligo. Il nostro è un proget¬to pilota destinato a continuare speria¬mo che anche le istituzioni capiscano l'importanza di queste cose». Maria Fernanda Barile, responsabile dell'ufficio provinciale scolastico di Rovigo raccoglie la sfida: «Esperienza positiva. Sarebbe bello trovare altre disponibilità nel territorio». E magari pure oltre, che i cinesi ci mettono un bel po' di dollari solo per farsi capire meglio.



Sarkozy ha capito che una società del XXI secolo si costruisce con il rispetto ferreo della legalità
Multiculturalismo, la risposta francese
Avanti, 08-02-2011
Andrea Verde
L'avanzare di movimenti xenofobi in tutta Europa, obbliga le autorità politiche ad affrontare in maniera nuova i problemi dell'integrazione degli immigrati. A ragion del vero, Nicolas Sarkozy, rimettendo in discussione il modello francese già da qualche tempo, era stato l'antesignano di un nuovo approccio verso Islam e immigrazione. La Francia ha conosciuto una grande ondata migratoria negli anni Cinquanta ad opera di persone provenienti dall'ex colonie del Maghreb e dell'Africa sub-saharianna. Nonostante il «modello repubblicano» prevedesse l'integrazione degli immigrati attra-verso l'assimilazione, contrariamente a quanto avveniva in Inghilterra e Germania, sono sorti molti problemi con gli individui appartenenti alla «seconda generazione». Questi figli di immigrati, per lo più nati in Francia, con la nazionalità francese, non sempre sono riusciti a integrarsi e ultimamente, molti tra essi, hanno subito il richiamo di tentazioni identitarie, grazie al dilagare dell'estremismo all'interno della comunità islamica. Un dato allarmante lo forni nel 2007 l'Insee, quando rese noto che quasi la metà dei detenuti nelle carceri francesi era di origine magrebina e africana.
Nicolas Sarkozy, figlio pure lui di immigrati ungheresi, prese a cuore il problema sin dal 2005, quando, come rninistro degli Interni, represse in maniera dura la rivolta delle «banlieus» e dichiarò guerra all'estremismo islamico. Sui principi Sarkozy non ama transigere, ma al tempo stesso ha dato dei segnali di apertura, che prima di lui nessun presidente - Mitterand incluso -aveva osato immaginare. Come leggere altrimenti l'ingresso, nel 2007, nella compagine governativa di dorme come Rachida Dati, Rama Yade e Fadela Amara, simboli di quella Francia che spesso si è sentita esclusa?
Sarkozy ha anche inventato la "laicità positiva" che implica un equilibrio di rispetto, di tolleranza e di dialogo tra il piano spirituale e quello politico. La separazione tra Stato e Chiesa, formalizzata in Francia dalla costituzione del 1905, non implica il rifiuto e la negazione delle religioni, ma stabilisce una netta di¬stinzione tra ciò che è il aedo con il suo corollario e il funzionamento delle istituzioni. Di conseguenza, se è vero che esiste una riflessione morale ispirata da convinzioni religiose, è anche vero che esiste una morale umana indipendente dalla morale religiosa. Ma perché Sarkozy insiste sulla «laicità positiva»? Perché per la Francia, che si considera storicamente il Paese dei diritti dell'uomo, questa laicità deve contribuire all'uguaglianza di tutti i francesi da¬vanti alla legge? La «laicità positiva» è una diretta conseguenza della legge Stasi, promulgata ai tempi di Chirac che vieta l'ostentazione dei simboli religiosi nelle scuole e nei luoghi pubblici: questa legge, meglio conosciuta come legge antivelo, fu osteggiata dalla parte più intransigente della comunità musulmana che minacciò di ritirare le ragazze dalle scuole pubbliche davanti al divieto di indossare il velo.
Sarkozy è andato oltre; ha voluto un registro degli imam, ha preteso che questi predicassero in francese nelle moschee, ha mostrato tolleranza zero verso ogni forma di xenofobia e di anti-semitismo, ha isolato gli estremisti nella comunità islamica, ha preteso di conoscere l'origine dei finanziamenti delle moschee e ha dichiarato guerra al burqa, considerato come un segno di «sottomissione e di umiliazione della donna» e pertanto non gradito sul suolo francese. Sarkozy ha capito, meglio di ogni altro, che una società multiculturale si costruisce con il rispetto ferreo della legalità e con il controllo delle tentazioni identitarie, che possono divenire molto pericolose in periodi di crisi economica. Non è un caso che la Francia abbia intensificato la sua azione per il rispetto dei diritti dell'uomo, anche a livello internazionale, presentando lo scorso anno una mozione all'Orni contro le discriminazioni (che prendeva di mira i Paesi musulmani) e promuovendo iniziative contro pratiche barbare come l'infibulazione, la poligamia e la lapidazione delle donne adultere; si noti che la Francia è stata in prima linea nella richiesta, al governo di Teheran, di salvare Sakineh dalla lapidazione e che di recente ha subito pesanti minacce da parte di Al Qaeda.
Nel nostro Paese prima di parlare di cittadinanza breve, bisognerebbe capire quale modello di integrazione voghamo adottare, non scordandoci che, di recente, il ministro degli Interni francese, Brice Horte-feux, ha proposto che la cittadinanza possa essere revocata a chi sì macchia di gravi reati contro le forze dell'ordine.



Affossando il multiculti, Cameron risistema Londra (e Clegg) nel mondo

Il Foglio,08-02-2011
Antonio Gurrado
Londra. Il più evidente effetto collaterale delle parole rivolte dal premier britannico, David Carneron, alla platea della Security Conference di Monaco, è la ricollocazione quasi prepotente della Gran Bretagna nel quadro delle potenze occidentali, Il primo ministro ha definito "the opposile of truth" il sospetto che la strategia difensiva del Regno Unito potesse portarlo a ritirarsi da un ruolo attivo sullo scenario internazionale, e non soltanto ha ribadito il proprio sostegno alla missione della Nato in Afghanistan, ma l'ha messo in diretta correlazione con la necessità per tutta l'Europa di non limitarsi ad agire contro il terrorismo islamico soltanto al di fuori dei confini patrii. Tutta l'impostazione del discorso gravitava attorno a come l'esperienza britannica possa tornare utile a un'Europa "che ha bisogno di svegliarsi". Cameron ha citato il terrorismo repubblicano nell'Irlanda del nord, dandovi lo stesso peso dato a quello anarchico in Germania, Italia e Grecia. Ha poi gettato uno sguardo speranzoso ai tumulti di Tunisi e del Cairo, s'è impegnato nella gestiti ne della questione palestinese e ha ribadito interesse per il riformismo in medio oriente. Forte di quest'ampia prospettiva globale, ha detto che l'esperienza inglese fornisce "una lezione generale" per tutti gli altri stati e ha concluso con la promessa dì porre la Gran Bretagna all'avanguardia delle nazioni "genuinely liberal".
Intanto, in Inghilterra, strilli d'incontrollata indignazione; si sono levati a sottolineare la concomitanza temporale fra il suo discorso e il piti massiccio corteo mai organizzato dalla English Defence Lea gue Mentre il primo ministro ammetteva che cospicui settori di immigrati islamici non rispettano i valori basilari della società britannica, e prometteva che d'ora in poi il suo governo mirerà a evitare che gruppi e associazioni sospettate di fomentare l'autosegregazione culturale ottengano appoggio o finanziamenti, per le strade di Luton sfilavano tremi la sostenitori dell'Edi. Questa lega, fondata nel 2009, è considerata la faccia presentabile dell'ariti islamismo: a differenza del British National Party, l'Edi ha da subito aperto le; iscrizioni a membri di ogni razza e ha dichiarato di non schierarsi solo contro l'islam ma contro ogni tipo di fanatismo.
Ciò non ha impedito ai suoi membri di intonare cori poco cortesi nei confronti della fede islamica e di rivendicare il fatto che Cameron si sia alfine schierato con loro; così come l'area sinistrorsa della società britannica è insorta contro il premier che - stando al ministro ombra della Giustizia Sadiq Khan col discorso di Monaco ha fornito un inatteso endorscment ai coloriti slogan dell'Edi. Questo non rende giustizia a Cameron, che ha esplicitamente condannato "l'estrema destra che ignora la distinzione fra islam e fondamentalismo islamico" e ha respinto la convinzione che "occidente e islam siano inconciliabili".
Si potrebbe sospettare che Cameron intendesse piuttosto regolare qualche conto all'interno della coalizione che lo sostiene, ristabilendo precisi rapporti di forza. Le sue parole hanno anzitutto stornato l'attenzione dal ritardo con il quale il governo varerà la Prevent strategy, il piano di prevenzione del terrorismo che doveva essere pronto per gennaio ma che, secondo le ultime previsioni, non verrà partorito prima dell'estate. Inoltre, i titoloni guadagnati da Cameron nel fine settimana hanno messo in difficoltà la baronessa Sayeeda Warsi, da tempo sua stretta collaboratrice e convinta fautrice dell'apertu¬ra dialogante ad ampie frange islamiche dalle attività non sempre cristalline. La giovane Lady Warsi è stata via via politicamente sterilizzata - le sono stati assegnati un seggio vitalizio alla Camera dei Lord, che le impedirà di candidarsi per la politica attiva, e la presidenza del partito, ruolo poco meno decorativo di un berretto a sonagli - e già in ottobre Cameron le aveva impedito di partecipare a una conferenza pro multiculti ritenuta troppo outré. Il discorso di Monaco sembra essere la definitiva sconfessione delle ultime infuocate dichiarazioni della baronessa, che aveva severamente criticato "Fanti islamismo da salotto" diffuso nelle fasce più rispettabili della società britannica scatenando l'ostilità dello zoccolo duro dei Tory.
Ma la vera vittima delle parole di Cameron sembra Nick Clegg. Sempre più indifeso di fronte all'emorragia di voti a sinistra, il vicepremier ha fatto un cavallo di battaglia liberal-democratico dell'amnistia per gli immigrati irregolari, in larga parte musulmani. Notando invece come un'ampia parte di costoro violi i fondamenti della società liberale e richiamando a "un liberalismo più attivo e muscolare", il leader dei conservatori ha forse pregustato la cannibalizzazione di un partito in caduta libera: per questo ha impostato la ricezione interna del suo discorso di Monaco sul sottinteso che ormai il vero difensore dei valori liberali della Gran Bretagna non sia più Clegg ma solamente lui.



CONTRO LATOLLERANZA PASSIVA

Il Foglio ,08-02-2011
di David Cameron
Il premier inglese dice: questi sono i nostri valori, se volete stare nella nostra società dovete crederci
Pubblichiamo il discorso tenuto dal premier britannico sabato 5 febbraio alla conferenza di Monaco sulla sicurezza.
Oggi voglio fare alcune riflessioni sul terrorismo, ma prima permettetemi di chiarire un punto. Secondo alcuni, rimettendo in discussione i temi della sicurezza e della difesa strategica, la Gran Bretagna sta in qualche modo rinunciando a un ruolo attivo nel mondo. Questa affermazione è esattamente l'opposto della verità: sì, stiamo facendo i conti con un buco nel nostro bilancio, ma ci stiamo anche assicurando che le nostre difese siano forti.
La Gran Bretagna continuerà a rispettare il limite minimo per le spese della Difesa, fissato al 2 per cento dalla Nato. Continueremo ad avere il quarto bilancio militare al mondo per grandezza. Allo stesso tempo, stiamo facendo fruttare meglio i soldi spesi, concentrandoci sulla prevenzione dei conflitti e costruendo un esercito più flessibile. Non è una ritirata, è un atto di realismo. Ogni decisione che prendiamo deve rispettare tre obiettivi: continuare a sostenere la missione Nato in Afghanistan; rinforzare la nostra capacità militare effettiva; assicurarci che la Gran Bretagna sia protetta dalle minacce che dobbiamo fronteggiare, nuove e molteplici. La minaccia più grave è rappresentata dagli attacchi terroristici, alcuni portati a termine da nostri cittadini. E' importante chiarire come il terrorismo non sia legato esclusivamente a una religione o a un gruppo etnico, ma dobbiamo riconoscere che in Europa questa minaccia viene principalmente da giovani che seguono un'interpretazione dell'islam distorta e perversa, che li rende pronti a farsi esplodere e a uccidere i loro concittadini. Oggi il mio messaggio sulla sicurezza è duro ed essenziale: non sconfiggeremo il terrorismo soltanto con quello che facciamo fuori dai nostri confini. L'Europa ha bisogno dì svegliarsi per quanto riguarda ciò che sta succedendo nei suoi paesi. Dobbiamo andare alla radice del problema, e dobbiamo essere chiari su quale sia l'origine di questi attacchi terroristici: l'esistenza di un'ideologia, l'islamismo radicale. Bisogna essere molto chiari anche su cosa significhi questa espressione, e distinguerla dall'islam, che è una religione professata in maniera pacifica da oltre un miliardo di persone. L'islamismo radicale è un'ideologia politica portata avanti da una minoranza, ai cui estremi ci sono quelli che si servono del terrorismo per raggiungere il loro obiettivo definitivo: un regno islamico, governato secondo l'interpretazione della sharia. Se ci si muove lungo questo spettro, si trovano persone che in linea di massima sono contrarie alla violenza, ma che accettano buona parte del pensiero degli estremisti, inclusa l'ostilità verso le democrazie occidentali e i valori liberali.
La distinzione tra ideologìa politica e religione è fondamentale. La gente le mette sullo stesso piano, pensando che quanto più uno è osservante, tanto più sarà estremista. Ma si può benissimo essere un musulmano devoto e non essere un estremista. Dobbiamo essere chiari: l'estremismo degli islamisti e l'islam non sono la stessa cosa. L'estrema destra, da una parte, ignora la distinzione tra islam e islamisti radicali, e si limita a dire che islam e occidente sono inconciliabili, che c'è uno scontro di civiltà. Da questo ne conclude che dovremmo tagliare i rapporti con questa religione, a costo di ricorrere ai rimpatri forzati o al divieto di costruzione di nuove moschee, co me viene suggerito in molte parti d'Europa. Questa gente diffonde l'islamofobia, e io rigetto completamente le loro ragioni. Se volessero un esempio di come i valori occidentali e l'islam siano compatibili, dovrebbero guardare a cosa sta accadendo nelle ultime settimane nelle strade di 'Amisi o del Cairo: centinaia di migliaia di persone che chiedono il diritto universale a elezioni libere e alla democrazia. Il punto è questo: l'ideologia estremista è il problema, l'islam non lo è nella maniera più assoluta, Combattere con quest'ultimo non ci sarà di aiuto per combattere il primo.
Dall'altra parte, anche quelli della sinistra ignorano questa distinzione. Mettono tutti i musulmani insieme, compilando una lista di lagnanze e sostenendo che se solo ì governi rispondessero alle loro rivendicazioni, gli allaccisi terroristici si fermerebbero. Insistono sulle condizioni di povertà in cui molti musulmani vivono e dicono: "Fatela finita con questa ingiustizia e il terrorismo finirà". Ma ignorano il fatto che molti di quelli che sono stati condannati per terrorismo in Gran Bretagna e nel resto del mondo sono laureali e spesso appartengono alla classe media. Accusano i leader mediorientali che governano senza essere stati eletti e dicono: "Se la smetterete di appoggiare queste persone non creerete più le condizioni su cui gli estremisti prosperano". Ma se il problema è la mancanza di de mocrazia, perché molti di questi estremisti stanno in società libere e tolleranti?
Ora, non sto dicendo che le questioni della povertà e del malcontento sulla politica estera non siano importanti. Certo, dobbiamo affrontarle entrambe. Quanto all'Egitto, la nostra posizione deve essere chiara: vogliamo vedere la transizione a un governo a base più ampia, che abbia in sé
i presupposti essenziali di una società libera e democratica. Non posso accettare che si ponga una scelta obbligata tra due sole opzioni: o uno stato di sicurezza oppure uno stato islamista, Ma non dobbiamo illuderci. Anche so riuscissimo a risolvere tutti i problemi che ho menzionato, il terrorismo continuerebbe a esistere, lo credo che la radice del problema stia nella presenza di questa ideologia estremista, E ritengo che uno dei principali motivi per cui così tanti giovani musulmani ne sono attratti sia in sostanza una questione di identità.
Nel Regno Unito, alcuni giovani hanno difficoltà a riconoscersi nell'islam tradizionale seguito dai loro genitori nei paesi d'origine. Ma questi giovani hanno altrettante difficoltà a riconoscersi nella Gran Bretagna, pache noi stessi abbiamo permesso che si verificasse un indebolimento della nostra identità collettiva. Con la dottrina del multiculturalismo abbiamo incoraggiato le diverse culture a vivere in modo sepa-ralo, sia l'una rispetto all'altra sia rispetto a quella principale. Non siamo stati capaci di offrire una visione della società alla (quale possano desiderare di appartenere.
Così, quando una persona di razza bianca esprime opinioni inaccettabili, come ad esempio teorie, razziste, noi, giustamente, la critichiamo e la condanniamo. Ma quando opinioni altrettanto inaccettabili sono espresse da una persona di razza diversa, siamo estremamente cauti, per non dire timorosi, nei condannarla. Un esempio concreto? Non aver saputo affrontare in modo concreto la crudeltà del matrimonio coatto. Questa nostra indifferente tolleranza è servita soltanto a rafforzare l'impressione che non ci siano valori realmente condivisi. E questo lascia alcuni giovani musulmani con la sensazione di essere privi dì radici. E la ricerca di qualcosa in cui riconoscersi e in cui credere può spingerli ad aderire a questa ideologia estremista. Ora, senza dubbio, non si trasformano automaticamente in terroristi; ma ci troviamo comunque di fronte a un processo di radicalizzazione, come si può facilmente vedere in parecchi paesi europei.
Ora, qualcuno potrebbe dire: "Finché non fanno male a nessuno, qual è il problema?", Ve lo spiego subito. Man mano che si scopre il retroterra culturale delle persone condannate per atti terroristici, appare chiaro che molti di essi sono stati inizialmente influenzati dai cosiddetti "estremisti non violenti" e solo successivamente hanno ulteriormente estremizzato le loro idee fino ad abbracciare la violenza. E io penso che questo sia come un'accusa all'atteggiamento che abbiamo mantenuto in passato su questi problemi. Perciò, se vogliamo davvero sconfiggere la minaccia terrorista,



Multiculturalismo troppo debole con l'Islam radicale

il Riformista, 08-02-2011
ENRICO BELTRAMINI
Ammetto che non avevo capito. Quando GW Bush se ne venne fuori con l'idea che i problemi del Medio Oriente e del terrorismo islamico si sarebbero risolti importando in Iraq - e poi nell'intera area — i valori della democrazia, pensavo si trattasse di un esempio isolato di estremismo ideologico neoconservatore. Mi sbagliavo. Avrei dovuto prestare attenzione all'altro co-protagonista della missione, il primo ministro inglese Tony Blair. Il quale non è un neoconservative, e che tuttavia diceva le stesse cose.
E ammetto che neppure l'intervento del can-celliere tedesco Angela Merkel, quattro mesi fa, mi aveva aperto gli occhi. La Merkel aveva parlato di fallimento dell'approccio multiculturale. Un fiasco, il tentativo di creare in Germania una società multiculturale. C'è bisogno degli immigrati come mano d'opera in Germania, ma questi devono integrarsi e adottare la cultura e i valori tedeschi. Al centro delle polemiche era in particolare la comunità musulmana, quattro milioni di persone, tre dei quali originari della Turchia. La Merkel aveva parlato così: «Siamo un paese che nei primi anni Sessanta ha accolto lavoratori ospiti. Ora questi vivono con noi, e noi abbiamo mentito a noi stessi per diverso tempo, dicendoci che non sarebbero rimasti e che un giorno se ne sarebbero andati via. Questa non è la realtà. Quest'approccio multiculturale del 'viviamo fianco a fianco e ne siamo felici' è fallito, completamente fallito». Avevo tuttavia interpretato le sue parole in un'ottica elettorale, in un atto di riposizionamento del suo partito - la Cdu - all'interno della coalizione di governo. Proprio il giorno prima del discorso della Merkel, il presidente della Csu, l'ala bavarese della Cdu, Horst Seehofer, aveva solennemente dichiarato che «noi, in quanto partito, siamo per una cultura tedesca dominante e contro il multiculturalismo, il Multikulti è morto!» I conservatori cavalcano il dibattito sull'Islam, nel momento in cui uno studio rivela che il 58 per cento dei tedeschi è in favore di limitazioni alla libertà religiosa dei musulmani.
Ma il recentissimo discorso di David Cameron a una conferenza sulla sicurezza a Monaco di Baviera ha compiuto il miracolo. Il leader conservatore ha preso nettamente le distanze dal mul-ticulturalismo: «Sotto la dottrina del multiculturalismo di Stato abbiamo incoraggiato culture dif¬ferenti a vivere vite separate, staccate l'una dall'altra e da quella principale. Non siamo riusciti a fornire una visione della società alla quale le minoranze etniche o religiose sentissero di voler appartenere. Tutto questo ha permesso che alcuni giovani musulmani si sentano sradicati». La soluzione, secondo Cameron, è riaffermare che la società britannica si è formata e ancora sussiste intorno a certi valori chiave come la libertà di parola, l'uguaglianza dei diritti e il primato della legge. «Francamente è venuta l'ora di chiederci: questi gruppi credono nei diritti umani universali, inclusi i diritti delle donne e quelli di persone di altre fedi?», si è domandato Cameron. «Credono nell'eguaglianza di tutti davanti alla legge? Credono nella democrazia?» Adesso è chiaro anche per me: la democrazia è meglio del multiculturalismo per prevenire e combattere il fondamentalismo islamico.
Ovviamente, la democrazia di cui parlava Bush e quella di cui parla Cameron sono diverse. Il primo era un born again, un evangelico. La sua democrazia doveva all'illuminismo meno di quello che doveva alla Riforma. La sua democrazia metteva al centro il portato implicito della «nazione cristiana»; la sua democrazia era una missione; e questo era tanto vero che la Chiesa Cattolica, che in Iraq manteneva una presenza importante e che conosce la storia del cristianesimo meglio dell'ex presidente, aveva invitato alla cautela. I cristiani sono in Iraq dal I secolo. Risultato: la popolazione cristiana in Iraq è diminuita negli ultimi dieci anni. La democrazia a cui pensa Cameron è probabilmente più illuminista. Ma il punto sembra lo stesso in entrambi: contro il relativismo dei valori, il primato di certi valori. In entrambi i casi, il problema è lo stesso: l'islam. Il multiculturalismo è fallito perché non è riuscito a spegnere la fiammella del radicalismo islamico. Non protegge la società britannica (o americana, o tedesca) dal fondamentalismo religioso mussulmano. Cameron è stato chiaro su questo punto: occorre tornare ad un «liberalismo attivo, muscolare», perché «un Paese davvero liberale (...) crede in certi valori e li promuove attivamente». Il governo britannico ritiene che la risposta all'islam riposi in una riaffermazione di certi valori di base che inevitabilmente non possono che essere quelli nazionali: cioè britannici. Un'identità nazionale forte sembra anche la risposta del governo tedesco. Annette Schavan, ministro dell'istruzione tedesco, ha spiegato: «Intendiamo formare il maggior numero possibile di imam in Germania, perché siamo convinti che gli imam siano gli architetti dei ponti fra i fedeli della moschea e la città dove si trova la moschea stessa». Quindi, un islam nazionale.
In America si dice che se abbaia come un cane, è probabile che sia un cane. Se tre capi di stato cristiani - protestanti, e per la precisione Metodista (Bush), Luterano (Merkel) e Anglicano (Camerari) - ritengono l'islam una minaccia di tale gravità da spingerli a rimettere in discussione per-sino il patto sociale interreligioso degli ultimi decenni, dovremmo credere loro. O quanto meno dovremmo credere che qualcosa sta cambiando nelle narratizioni usate dai leader politici quando parlano di sicurezza contro il terrorismo. Avevamo pensato che l'estremismo fosse tale, appunto annidato agli estremi delle nostre società occidentali. E ora scopriamo che invece esso si nasconde proprio al suo centro, e che nostra è la colpa, perché non siamo stati abbastanza prudenti, perché siamo stati troppo tolleranti. Perché siamo stati troppo poco americani, tedeschi, inglesi.



ISOLA DI G0REE- DAKAR
UNA CARTA PER UN MONDO SENZA MURI
Alex Zanotelli
Oggi sono stato testimone di un evento che assume un significato simbolico molto forte: il World migranti forum. Si tratta di un incontro di migranti, soprattutto africani, riuniti in assemblea per elaborare una Carta mondiale per i loro diritti, partendo dallo slogan: «Una carta per un mondo senza muri». Provocatoriamente hanno indetto questa loro assemblea (2-3-4 febbraio) nell'isola di Gorée, a Dakar, da dove sono partiti milioni di schiavi per le Americhe, in quella vergognosa tratta Atlantica. Con un gruppo di comboniani e comboniane abbiamo assistito al dibattito di questi immigrati, iniziato nel 2006 dai sans papìers di Marsiglia, continuato in questi anni nei vari continenti, per concludersi a Gorée, con l'approvazione della Carta mondiale dei migranti. Carta che verrà poi presentata al Forum sociale mondiale (Dakar 6-11 febbraio).
È la prima volta che visito quest'isola (patrimonio dell'umanità), che ha visto gli orrori, durati tre secoli, che hanno portato decine di milioni di schiavi oltreoceano. Sono rimasto profondamente scioccato da questo luogo che parla, un vero luogo teologico che interpella tutta l'umanità. Soprattutto l'Occidente. Gorée è l'Auschwitz dell'Africa, una delle tragedie più immen¬se del popolo nero. E sono rimasto molto turbato del clima festaiolo e turistico che ho visto. Un luogo sacro come Gorée richiede silenzio, riflessione e contegno. Noi bianchi dovremmo andarci semplicemente per chiedere perdono. Come comboniani ci ritorneremo nei prossimi giorni proprio con questi sentimenti: con la richiesta di perdono per il crimine che abbiamo commesso contro il popolo nero. Chi oggi, invece, incarna per me lo spirito di Gorée è quel centinaio di migranti africani riuniti che riprendono la parola per chiedere con forza la tutela dei loro diritti.
«I migranti sono presi di mira da politiche ingiuste», afferma il preambolo della Carta. «Queste a scapito dei diritti universalmente riconosciuti a ogni essere umano. Queste politiche sono imposte da sistemi che cercano di mantenere i privilegi dei pochi, sfruttando la forza lavoro dei migranti». Ripenso alla drammatica situazione degli immigrati in Italia, usati come manodopera a basso prezzo, e, quando non servono più, rispediti al mittente, come impone la legge Bossi-Fini. Ripenso al razzismo del Decreto sicurezza del ministro Maroni, che impedisce a un'immigrata che partorisce in ospedale di riconoscere il proprio figlio. Siamo arrivati a un razzismo di Stato. Ripenso ai respingimenti nel Mediterraneo, con la tragica conseguenza di migliaia di morti nel deserto. È Gorée che si ripete. Ma non solo in Italia. «Se i nostri immigrati soffrono indicibilmente in Europa», grida Diouf durante il dibattito, «soffrono anche quando sono costretti a emigrare in altri paesi d'Africa e diventa una catastrofe quando sono obbligati a migrare nei paesi nord africani». È incredibile che questo avvenga proprio agli africani, che, come diceva uno dei partecipanti al Forum, «sono stati in questi ultimi 500 anni deportati come schiavi, colonizzati e schiacciati dall'imperialismo».
In questo dibattito ho sentito un'Africa con una voglia matta di rimettersi in piedi, riprendendo in mano la sua storia.Un buon auspicio per il Forum sociale mondiale, che per la seconda volta si tiene in Africa.

Share/Save/Bookmark


 


 

Perchè Italia-Razzismo 


SPORTELLO LEGALE PER RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO

 

 


 

SOS diritti.
Sportello legale a cura dell'Arci.

Ospiteremo qui, ogni settimana, casi, vertenze, questioni ancora aperte o che hanno trovato una soluzione. Chiunque volesse porre quesiti su singole situazioni o tematiche generali, relative alle norme e alle politiche in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza nonché all'accesso al sistema di welfare locale da parte di stranieri, può farlo scrivendo a: immigrazione@arci.it o telefonando al numero verde 800905570
leggi tutto>

Mappamondo
>Parole
>Numeri

Microfono,
la notizia che non c'è.

leggi tutto>

Nero lavoro nero.
leggi tutto>

Leggi razziali.
leggi tutto>

Extra-
comunicare

leggi tutto>

All'ultimo
stadio

leggi tutto>

L'ombelico-
del mondo

Contatti


Links