A Roma, in manette e ceppi

Ernesto Maria Ruffini
Siamo ad agosto e il caldo di Roma è particolarmente torrido. In aula indossiamo tutti le nostre toghe di raso e velluto nero, giudice, cancelliere, pubblico ministero e avvocati. Ci guardiamo con la solita aria disillusa di attori di una messa in scena dal finale già scritto. Da pochi giorni è entrata in vigore la normativa che aveva introdotto il nuovo reato di immigrazione clandestina. Un ragazzo nigeriano è tra i primi ad essere fermato e portato davanti al giudice per essere giudicato. Era in Italia e non aveva il permesso per restare. Era stato fermato all’interno del giardino di una casa privata, dopo che la proprietaria, spaventata dell’intrusione, aveva chiamato i Carabinieri. Il suo arrivo in aula è aspettato con curiosità ed ansia da tutti gli attori protagonisti di quel processo che stava per essere messo in scena.

Dopo l’arresto, infatti, il ragazzo aveva messo a soqquadro gli uffici del Comando dove era stato portato e ad aveva menato le mani contro chiunque gli fosse capitato sotto tiro, ferendo anche alcuni Carabinieri. Alla fine erano dovuti intervenire i paramedici del 118 per sedarlo. Per questi crimini sarebbe stato processato dinanzi al Tribunale penale. Per l’accusa di immigrazione clandestina, invece, si sarebbe dovuto difendere davanti al Giudice di Pace penale e da quell’accusa lo avrei dovuto difendere io. Lo aspettavamo in aula, ma all’orario previsto per il suo arrivo di lui non c’erano notizie. Anzi, le notizie si susseguivano con ritmo incalzante. Nonostante fosse stato sedato, continuava ad agitarsi e ad urlare. Era difficile anche avvicinarlo e sembrava essere questo il motivo di quell’insolito ritardo. Lo aspettavamo la mattina verso le 9 e 30 ed è arrivato in aula solo verso le 15.30. Con lui anche alcuni militari della Polizia Penitenziaria che erano alla ricerca dell’avvocato di quel ragazzo. Mi faccio avanti: «sono io». «Avvocato, non vuole uscire dal furgone e si è spogliato nudo. Veda se riesce lei a farlo ragionare». Scendo, entro nel furgone e trovo un ragazzo più giovane e più minuto di me, con le manette ai polsi e i ceppi ai piedi scalzi, con le sole mutande addosso, dietro le sbarre della zona detenuti del furgone. Da quell’angolo arriva un fetore nauseabondo. Mi avvicino e scopro che il ragazzo, dagli occhi vivi e spaventati, anzi terrorizzati, se l’era fatta addosso. Chiedo agli agenti di aiutarlo a vestirsi, anzi ad indossare la sua maglietta ormai lurida. Così, con addosso solo le mutande e la maglietta, a piedi nudi e con ancora manette e ceppi lo accompagniamo dentro l’edificio e poi fino all’aula d’udienza. Chiedo al Giudice di concedere all’imputato la possibilità di togliere manette e ceppi, ma gli agenti di Polizia penitenziaria ritengono di non poter garantire il sereno svolgimento del processo e così quel ragazzo dovrà affrontare il processo costretto in quel modo. Chiedo al Giudice di poter non indossare la toga, ma mi viene risposto che avrei dovuto indossarla per una questione di rispetto. Così inizia il processo in un’atmosfera surreale. Lui mezzo nudo, noi con la toga. Il Giudice mi concede qualche minuto per parlare con lui. Arriva l’interprete. Gli domandiamo «perché sei in Italia?». Mi guarda con aria a sua volta interrogativa, come se la sua condizione non fosse già evidente senza la necessità di umiliarlo ancora per fargli chiedere anche a voce “aiuto”. Guarda l’interprete e poi, rivolgendosi nuovamente a me, mi dice: «sono venuto in Italia per chiedervi aiuto, per mangiare e per vivere la mia vita». Rimaniamo tutti ammutoliti. Provo a fare presente al Giudice che ci trovavamo di fronte ad uno di quei casi in cui, con ogni probabilità, lo straniero potrebbe richiedere asilo. In fondo, a suo modo, è questo quello che ci stava chiedendo. Le cose non andranno così. E’ stato condannato, anche perché la domanda di asilo occorrerebbe farla quando si arriva in Italia e non durante il processo. Lui non l’aveva presentata. Da quello che ci ha raccontato era scappato dal centro di accoglienza di Lampedusa e da quel momento aveva continuato a scappare, fino al giorno in cui ci siamo conosciuti in aula. Lui mezzo nudo e incatenato, io con la toga di raso e velluto nero addosso.

Articolo Tre 29 settembre 2010

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