Karim non deve partire

 

Raffaella Cosentino 
Un forte accento milanese, una voce giovane, agitata, che parla da dentro il Cie di Ponte Galeria, il più grande d’Italia. È sempre più frequente ormai incontrare nei centri di detenzione amministrativa per stranieri senza permesso di soggiorno, persone italiane di fatto, anche se irregolari dal punto di vista del soggiorno sul territorio italiano. Karim ha 24 anni, vive in Italia da quando ne aveva sei, ha il passaporto egiziano, ma lui l’Egitto non sa neanche com’è fatto. 
“Poco dopo l’arrivo in Italia mio padre è morto e sono stato affidato a una donna marocchina che considero come mia madre – racconta – in Egitto non ho nessuno”. Ma soprattutto Karim ha una ragione per volere restare a Milano. La sua fidanzata Federica, italiana, è incinta di pochi mesi. Lei ha già una bambina di 3 anni che considera Karim come suo padre. Con un figlio in arrivo, determinato a non farsi separare dalla sua famiglia che vive tutta in Italia, Karim si è opposto al rimpatrio in Egitto. 
“Ieri mattina – racconta – mi hanno detto di prendere le mie cose perchè sarei uscito e che avevano già avvisato la mia ragazza. Invece, dopo avere oltrepassato tutti cancelli della zona in cui sono rinchiuso, mi hanno detto che sarei partito subito su un aereo per l’Egitto. Mi hanno mentito. Quando mi sono opposto, mi hanno risposto che allora sarebbe venuta a prendermi la scorta di agenti e sarei partito per forza”. Così Karim, nella disperazione più cupa, è stato riportato in gabbia, dietro le inferriate della sezione maschile del Cie di Ponte Galeria. In attesa di una partenza alla quale, dice, avrebbe preferito la morte. È tornato nella camerata che condivide con altri. In quella parte del centro che lo scorso 18 febbraio è andata bruciata in una rivolta. La ribellione è nata proprio dal tentativo di rimpatriare con la forza un giovane nigeriano che opponeva resistenza, davanti agli occhi di tutti i reclusi. La struttura, in gran parte annerita dal fumo, porta ancora i segni di quella giornata. 
Karim ha una storia difficile alle spalle. Crescere senza un padre non è semplice, e già molto giovane il ragazzo ha iniziato a fare uso di stupefacenti, diventando tossicodipendente. Poi tre anni di comunità di recupero e un percorso terapeutico andato a buon fine. Nel suo passato, anche un anno di carcere. “Perché lo Stato italiano ha pagato per farmi stare tre anni in comunità e ora mi vuole mandare in Egitto? Non ha senso!” – dice al telefono. Vuole una seconda opportunità e la possibilità di una nuova vita con il figlio che nascerà a Milano. Non si può descrivere la forza delle sue parole e la determinazione a non farsi sconfiggere da ciò che sembrava ormai inevitabile: il rimpatrio in un Paese per lui straniero. Perché la prassi è che niente può fermare un rimpatrio. Le associazioni ricevono le chiamate disperate dei parenti, degli amici. “Lo hanno messo sul volo, non risponde più al telefono, l’hanno mandato via senza soldi, come facciamo a sapere a che ora arriva?”. Sono gli interrogativi che restano spesso senza risposta. Perché nel momento in cui si parte scatta il black out informativo. 
Ma Karim ha avuto la fortuna di incontrare, due giorni prima, una delegazione di A Buon Diritto e della campagna LasciateCIEntrare. Luigi Manconi e Gabriella Guido lo hanno conosciuto a Ponte Galeria e si sono interessati subito del suo caso. Certo è difficile intervenire quando gli eventi corrono. Troppo veloci anche per l’avvocato di Karim, che non aveva il tempo materiale di presentare ricorso. Così Karim stava per partire. 
Una famiglia ha rischiato di essere separata per forza. Un bambino che ancora non si è formato del tutto nel grembo materno, già poteva non avere vicino il padre, spedito a migliaia di chilometri di distanza, in un altro continente. L’intervento delle associazioni ha però permesso di intavolare un dialogo con l’ufficio Immigrazione della questura. E, sembra, che per ora Karim non verrà rimpatriato. Ma quanti altri come lui si trovano in questo momento nei 13 Cie italiani e non hanno incontrato nessuno che possa aiutarli a fare valere i loro diritti? Karim e Federica forse hanno vinto. Anche se niente è mai certo quando una persona è reclusa nel Cie, e Karim lo è ancora. Ma la partita noi l’abbiamo persa tutti, nei Cie muore ogni istante la nostra amata democrazia. 
Italiarazzismo.it 24 aprile 2013
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