Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

08 novembre 2013

Uno degli organizzatori del viaggio tragedia individuato fra i migranti a Lampedusa
Arrestato un somalo di 24 anni, riconosciuto da 8 eritrei. Dopo la prima denuncia, un magistrato della Direzione distrettuale antimafia di Palermo e una squadra della polizia si sono trasferiti in gran segreto a Lampedusa per indagare sulla tratta di esseri umani fra il Sudan e l'Italia. I racconti delle vittime, fra sequestri e stupri
la Repubblica.it, 08-11-2013
SALVO PALAZZOLO
LAMPEDUSA - Si nascondeva fra i naufraghi, al centro di accoglienza. Fingendo di essere anche lui uno dei disperati scappati dalla sua terra d'Africa. Ma la settimana scorsa, è stato notato da alcuni superstiti dell'ultima tragedia del mare che ha fatto 366 vittime. Uno di loro ha avvertito la polizia: "Quel somalo fa parte dell'organizzazione che abbiamo pagato per portarci in Italia -  ha denunciato - Lui è uno dei capi, è responsabile di sequestri e stupri". E subito sono partite le indagini. Mercoledì mattina, a Lampedusa, sono arrivati in gran segreto gli investigatori della sezione Criminalità organizzata della squadra mobile di Palermo, con i colleghi della squadra mobile di Agrigento e del servizio centrale operativo. Con loro, c'era il sostituto procuratore Geri Ferrara, della direzione distrettuale antimafia di Palermo. In due giorni sono state raccolte otto preziose testimonianze di migranti eritrei, che inchiodano il somalo, un giovane di 24 anni che faceva parte di un gruppo di miliziani armati. Ieri sera, il pm Ferrara ha firmato un provvedimento di fermo per quello che viene ritenuto uno dei presunti organizzatori dell'ultimo drammatico viaggio: è accusato di gravissimi reati, dal sequestro di persona a scopo di estorsione all'associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento della immigrazione clandestina, dalla tratta di persone alla violenza sessuale. Il provvedimento porta anche la firma del procuratore aggiunto di Palermo Maurizio Scalia.
Il giovane fermato è stato trasferito ieri sera in aereo a Palermo, ed è stato poi rinchiuso nel carcere di Agrigento, dove sarà interrogato dal giudice delle indagini preliminari che dovrà convalidare il fermo ed emettere un'ordinanza di custodia cautelare. Rischia fino a 30 anni di carcere.
Le otto denunce ripercorrono il drammatico viaggio dall'Eritrea verso Lampedusa, passando dal Sudan. Fino a quel terribile giorno di ottobre, era il 3, quando un barcone carico di migranti prese fuoco al largo dell'ultima tappa, per una coperta in fiamme che doveva attirare l'attenzione dei soccorritori. Non ci fu nulla da fare. Quel barcone si trasformò presto in una bara in fondo al mare.
Ora, nei verbali della Procura di Palermo, riemergono le storie di chi ha subito violenze inaudite già ancora prima di salire su quella barca della speranza. Storie di ragazzine violentate, di donne e uomini sequestrati per giorni in attesa del pagamento dell'ultima rata per il viaggio. Uno degli organizzatori dei ricatti sarebbe stato proprio il somalo fermato dalla Procura di Palermo: non è ancora chiaro perché avesse deciso di venire anche lui in Italia, gli investigatori sospettano che dovesse diventare un terminale dell'organizzazione per altri traffici di esseri umani.
Nel corso delle indagini è stato fermato a Lampedusa anche un palestinese: avrebbe organizzato un altro recente sbarco di immigrati siriani.



La verità sul naufragio di Lampedusa ''Così l'Italia ci ha lasciati morire'
Dal barcone naufragato l'11 ottobre erano partite tre telefonate di soccorso alle autorità italiane. Ma la centrale operativa ha perso due ore. E alla fine ha risposto: 'Chiamate Malta'. Così sono annegati 268 siriani in fuga dalla guerra, tra cui 60 bambini
l'Espresso, 08-11-2013
Fabrizio Gatti
La morte di 268 profughi siriani, annegati l'11 ottobre a largo di Lampedusa, poteva essere evitata. Un'inchiesta de “l'Espresso” ricostruisce l'incredibile comportamento delle autorità italiane e l'effetto dei regolamenti europei. Ci sono state tre chiamate di soccorso via satellite ignorate. Due ore di attesa in mare. Per poi scoprire che l’Italia non aveva mobilitato nessun aereo, nessuna nave della Marina, nessuna vedetta della Guardia costiera. Anzi, dopo due ore, la centrale operativa italiana ha detto ai profughi alla deriva a 100 chilometri da Lampedusa che avrebbero dovuto telefonare loro a Malta, lontana almeno 230 chilometri. Due ore perse: dalle 11 alle 13 di venerdì 11 ottobre. Se gli italiani si fossero mobilitati subito o avessero immediatamente passato l’allarme ai colleghi alla Valletta, la strage non ci sarebbe stata.
Il peschereccio aveva a bordo tra i 100 e i 150 bambini, sul totale di almeno 480 siriani in fuga dalla guerra: la notte precedente, le raffiche di mitra sparate da una motovedetta libica avevano forato lo scafo che, alle 17.10, si è rovesciato ed è affondato. Un elicottero ha raggiunto il punto alle 17.30, sei ore e mezzo dopo la prima chiamata di emergenza. La prima nave militare maltese alle 17.51. Quelle due ore perse avrebbero permesso all’elicottero di arrivare alle 15.30, alla nave militare alle 15.51. E ai soccorritori partiti da Lampedusa, su un veloce pattugliatore della Guardia di Finanza, di essere operativi già poco dopo le 13 e non dopo le 18.30. Ci sarebbe stato insomma tutto il tempo per concludere il trasferimento dei passeggeri e metterli in salvo.
“L’Espresso” ha rintracciato l’uomo che con un telefono satellitare ha dato l’allarme alla centrale operativa italiana. È lui a denunciare il ritardo. Si chiama Mohanad Jammo, 40 anni. Ad Aleppo in Siria, una delle città distrutte dalla guerra civile, era il primario dell’Unità di terapia intensiva e anestesia dell’Ibn Roshd Hospital, un ospedale pubblico, direttore del servizio di anestesia e anti rigetto del team per i trapianti di rene, oltre che manager della clinica franco-siriana “Claude Bernard”. Nel naufragio il dottor Jammo è sopravvissuto con la moglie, ex docente universitaria di ingegneria meccanica, e la loro bimba di 5 anni. Ma ha perso i figli Mohamad, 6 anni, e Nahel, 9 mesi, i cui corpi non sono stati ritrovati.
La denuncia è confermata da altri due testimoni. Il primo è Ayman Mustafa, 38 anni, chirurgo di Aleppo. Il dottor Mustafa era partito con la moglie, Fatena Kathib, 27 anni, ingegnere ambientale, e la figlia Joud, 3 anni, scomparse in fondo al mare. L’altro testimone è Mazen Dahhan, 36 anni, neurochirurgo all’ospedale dell’Università di Aleppo. Anche lui è l’unico sopravvissuto della sua famiglia; la moglie Reem Chehade, 30 anni, farmacista e i figli Mohamed, 9, Tarek, 4, e Bisher, 1, sono formalmente dispersi. I tre medici sperano che la magistratura italiana apra un’inchiesta: «Noi», dicono a “l'Espresso”, «anche per questo imperdonabile ritardo, abbiamo perso le nostre famiglie. Non ha senso restare in silenzio e correre il rischio che la tragedia si ripeta».
Il dottor Jammo spiega: «Ho chiamato il numero italiano prima delle 11 del mattino. Ha risposto una donna. Mi ha detto in inglese: dammi esattamente la posizione. Le ho dato le coordinate geografiche. Le ho detto: “Per favore, siamo su una barca in mezzo al mare, siamo tutti siriani, molti di noi sono medici, siamo in pericolo di vita, la barca sta affondando”. Se hanno una registrazione, sentiranno esattamente queste parole: “Stiamo andando verso la morte, abbiamo più di cento bambini con noi. Per favore, per favore, aiutateci, per favore”».
Per un’ora e mezzo non accade nulla: «Richiamo il numero, sono circa le 12.30. Ripeto chi sono. È la stessa donna. Mi risponde: “ok, ok, ok” e chiude. Ma non succede nulla. Nessuno ci richiama. Richiamo io dopo mezz’ora. Ormai è l’una del pomeriggio. La donna mi mette in attesa e dopo un po’ risponde un uomo. Mi dice: “Guardate, siete in un’area sotto la responsabilità delle forze maltesi”. Dovete chiamare la Marina maltese. L’ho supplicato: “Per favore, stiamo per morire”. E lui: “Per favore, potete chiamare le forze maltesi, adesso vi do il numero...”. Dalla mappa vedevamo che Lampedusa era a soli 100, 110 chilometri. Malta ad almeno 230 chilometri. Per questo avevamo chiamato gli italiani».
Il dottor Jammo aggiunge che l’uomo non gli ha detto il nome, il grado o il ruolo: «Ma per colpa della centrale di soccorso italiana abbiamo perso due ore fondamentali. Era rimasto davvero poco tempo per noi. È l’una e comincio a chiamare e richiamare i maltesi. Alle tre del pomeriggio mi assicurano che in 45 minuti sarebbero arrivati. Alle quattro mi dicono: “Ok, siamo sicuri della vostra posizione, ma abbiamo ancora bisogno di un’ora e dieci minuti per raggiungervi”. Dieci minuti dopo le cinque tutti i nostri bambini sono annegati e non è arrivato nessuno».



16 Novembre - In corteo verso il CIE di Gradisca perché non riapra mai più
Appello della Rete FVG contro i CIE per un corteo il 16 Novembre a Gradisca d’Isonzo
Melting Pot Europa, 08-11-2013
Una fortezza come il CIE è intollerabile.
Dieci anni di denunce, inchieste, attivismo, interrogazioni, rapporti di ogni tipo hanno reso evidente, se potevano esserci dubbi, che si tratta di un luogo di tortura e ingiustizia oltre ogni immaginazione.
Un luogo di totale assenza di diritti che non è possibile tollerare in alcun modo.
Ora il CIE di Gradisca subisce una battuta di arresto, grazie all’ennesima rivolta dei migranti che ne hanno messo in ginocchio la capacità operativa bruciandolo e distruggendolo dall’interno.
Il CIE è ingestibile ora – o, meglio, lo sono i migranti che si ribellano alla privazione della libertà – e Prefettura e Viminale hanno optato per svuotarlo, spostando o espellendo i migranti rimasti.
È un segno importante, la vittoria dei conflitti materiali contro la Bossi-Fini, la clandestinità e i suoi apparati praticati in primo luogo da coloro che ne sono vittime.
Chi sta fuori del CIE ma dentro un’idea di mondo aperto e globale, dove i diritti e la libertà degli esseri umani non possono dipendere dalla casualità della nascita, non può e non vuole essere da meno.
Non è chiaro se il CIE, come pare probabile, subirà in realtà un riammodernamento e una (impossibile) “umanizzazione”: questa ipotesi non deve avere il minimo spazio e deve invece affermarsi senza alcuna riserva la decisione per cui il CIE non riapra mai più.
Come per tutti i CIE e la Bossi-Fini c’è una sola opzione possibile: chiusura e cancellazione.
È il momento in cui le posizioni espresse da tutte le istituzioni locali, dalla Regione al Comune di Gradisca, devono divenire realtà concreta.
A Trieste, nel 1998 fu chiuso il primo CPT in seguito a una mobilitazione ampia, determinata e radicale.
Il 16 Novembre, troviamoci tutti alle ore 14.30 in piazza a Gradisca per partire in corteo verso il CIE e chiudere definitivamente anche questo, perché non c’è alternativa possibile.
Rete FVG contro i CIE



Milano nella testa di Bushra, Nuri e Murat: i migranti mappano la città
Corriere.it, 08-11-2013
Alessandra Coppola
Milano nella testa di Bushra è una percorso in discesa tra «casa abbandonata» dentro lo scalo di Porta Romana, dove ha passato la notte, e «San Francesco», la mensa dei poveri che gli ha dato da mangiare: quadratini neri collegati da un omino verde che si sposta a piedi. Sudanese, 36 anni, maschio: in 24 mesi di permanenza precaria della città ha un’immagine frammentata. Murat, invece, che ha 26 anni ed è venuto dalla Turchia per studiare, colloca al centro il Duomo e il Castello, ha un’idea abbastanza precisa di cerchie e circonvallazioni, frequenta i Navigli e sa bene dove si trova Cadorna, disegna anche l’ago e il filo, perché il suo mezzo di trasporto è la metropolitana, linea verde. Nuri, 39 anni, siriano in breve tempo ha cambiato quattro appartamenti diversi, sempre condivisi con altri coinquilini, e ha una topografia tutta sua che collega Gorla a piazzale Cuoco, Loreto a piazza Napoli. Ogni migrazione ha un arrivo, uno spazio all’apparenza stabile che proprio per il passaggio degli «abitanti in movimento» risulta trasformato.
Architetto e urbanista, Nausicaa Pezzoni è partita da questa intuizione per consegnare a cento migranti arrivati in città in tempi recenti un foglio di carta e delle matite colorate. Li ha cercati nei luoghi di «primo approdo», spiega, mense, centri aiuto, associazioni, punti di ritrovo. Ha selezionato un campione il più eterogeneo possibile per provenienze (41 nazionalità), genere ed età. E ha chiesto loro di disegnare il posto in cui ora sono.
    Ako, 31 anni, dal Togo compone un insieme di palazzi grigi con la macchia verde del «parco di Porta Venezia», il blu della «Questura», il giallo della «Stazione centrale» in cima a tutto. Tumur, 30 anni, dalla Mongolia, conosce quattro dormitori ma anche la «biblioteca Sormani» dove va a leggere e «l’Informagiovani per usare Internet». Anna, 48 anni, dalla Bulgaria si muove con il «bus 54», a Zara prende «il tram» e su viale Sarca segna «supermercato». Margaret, 34 anni, dal Kenia, della città conosce solo un parallelepipedo a cinque piani con una scala interna che porta alla sua stanza: la Casa di accoglienza di via Sammartini.
«Nell’abitare in movimento emergono differenze, rispetto all’abitare stanziale — spiega Pezzoni —, nei modi di relazionarsi agli spazi urbani, nei tempi di permanenza in essi, nelle forme di un’appartenenza non più univoca rispetto ai diversi luoghi» Il risultato complessivo dell’indagine è nel volume «La città sradicata», sottotitolo «Geografie dell’abitare contemporaneo. I migranti mappano Milano», edizioni O barra O, che viene presentato oggi in Triennale alle 18. Il paesaggio a cui siamo abituati viene scomposto e reinventato. Sulla cartina compaiono luoghi imprevedibili, spesso invisibili, spazi di inclusione o di emarginazione, confini malleabili e più o meno estesi.
    L’esercizio, spiega la ricercatrice, serve al migrante per «appropriarsi» dello spazio che abita (senza necessariamente stabilirsi). Ma è prezioso soprattutto per il «planner», il pianificatore, colui il quale dovrà disegnare lo sviluppo di quartieri sempre più attraversati da una «popolazione in movimento». La città che verrà tracciata anche da chi l’ha appena scoperta.



Non i migranti, ma noi per primi stiamo sfasciando il Paese

la Stampa, 08-11-2013

Mario Calabresi
Gentile Direttore, apprezzo molto il suo giornale con i suoi servizi, poi sono particolarmente interessato alla rubrica «Lettere e commenti» con la parte riservata alle «lettere al direttore» e le sue risposte che spesso incontrano il mio ampio favore. Purtroppo debbo rilevare che contrariamente al solito la sua risposta al sig. Marco Casetta, pubblicata nell’edizione del 1° novembre scorso, non mi è piaciuta per niente e quindi non mi ha convinto. A mio avviso non è possibile porre sullo stesso piano, come lei scrive, l’immigrazione italiana di due secoli fa, soprattutto verso le Americhe, con quella attuale dei Paesi africani verso il nostro Paese. La prima era volta a costruire con il nostro contributo alla formazione di un grande Paese come l’America del Nord che con il nostro lavoro e la nostra cultura è diventato grande, questa invece porterà sicuramente, come dice il sig. Casetta, alla distruzione dei nostri valori, l’imposizione delle loro culture e delle loro religioni. Dove sono i posti di lavoro in Italia per gli immigrati clandestini quando vediamo che da noi il tasso di disoccupazione è a livelli inquietanti e fino ad ora non percepiamo, nonostante gli sforzi del governo, ad una soluzione a breve termini?
Lei è irritato per la definizione data dal lettore di «genocidio» per il fenomeno attuale, si può usare un altro termine meno grave, però il problema devastante rimane.  
Ci accorgeremo presto delle conseguenze negative che avranno i nostri figli e i nostri nipoti; sicuramente al massimo entro poche decine di anni.
Luigi Bardelli, Livorno
La ringrazio per la passione con cui segue questa rubrica e mi fa piacere tornare sull’argomento: esiste di certo una differenza tra l’immigrazione italiana del secolo scorso (siamo entrati negli Stati Uniti a ondate nei primi decenni del Novecento) e quella attuale ed è rappresentata dallo spazio e dalle possibilità che l’America aveva allora. Era un Paese in espansione, non in crisi e nemmeno bloccato come il nostro. Detto questo non raccontiamoci che portavamo cultura ed eravamo bene accetti: mi sono appassionato al tema dopo una visita a Ellis Island e ho scoperto che eravamo considerati pericolosi, ignoranti, portatori di malattie e in un certo senso bestie da soma.  
Non eravamo per nulla ben visti in una nazione che temeva corrompessimo i loro costumi di anglosassoni protestanti con i nostri comportamenti familistici, cattolici e spesso di clan. Non dimentichiamoci che insieme ai nostri migranti esportammo anche la mafia negli Stati Uniti. Eppure, come ci racconta da ultimo l’elezione del nuovo sindaco di New York, siamo diventati parte di quel Paese ed è accaduto perché non ci hanno escluso ma perché ci hanno integrato, perché erano convinti della loro cultura e dei loro modelli e sono stati capaci di proporli a tutti.
Il mio non è buonismo, ma semplice pragmatismo, vada in una scuola elementare e osservi i bambini nati da genitori stranieri, bambini di nazionalità marocchina, romena, senegalese o cinese e vedrà la voglia che hanno di essere come i loro compagni di classe, ascolti il loro accento e i loro pensieri e capirà che non di genocidio si tratta ma di qualcos’altro e che sta a noi difendere il nostro Paese e i nostri costumi, perché siamo i primi ad averli sfasciati e dileggiati in questi anni.


Tra razzismo e risorsa La ricchezza britannica? L’immigrazione
il fatto, 08-11-2013
Caterina Soffici
Londra La battaglia è sugli immigrati. E quindi alla fine, anche sulla società multiculturale, vanto e orgoglio del Regno Unito. Davvero gli immigrati adesso fanno paura? Davvero l’isola non è più in grado di assorbire e integrare nuovi flussi? Ieri l’istituto di statistica ha detto che nei prossimi 25 anni, da qui al 2037, la popolazione del Regno Unito aumenterà di 10 milioni e il 60 per cento è dovuto all’immigrazione.
Su questi sentimenti di paura fanno leva movimenti razzisti come la English Defence League: arrabbiati, violenti, teste calde oltre che rasate, ce l’hanno con tutti gli stranieri, ma principalmente contro gli islamici. Ma soprattutto su questo terreno cresce la popolarità dell’Ukip, il partito indipendentista e anti-europeista di Nigel Farage, che continua a salire nei sondaggi e costringe i conservatori a spostarsi a destra per non perdere voti.
Quindi, mentre i giornali vicini ai Tory strillano ogni giorno che il turismo della salute minaccia i conti del Servizio Sanitario Nazionale (Nhs), che dietro ogni angolo c’è uno straniero pronto a fregare il lavoro a un nativo inglese e che dal primo di gennaio l’isola sarà invasa da orde di bulgari e romeni in cerca solo di case popolari e assistenza gratuita, i dati fotografano una realtà completamente opposta. Due studi indipendenti, pubblicati dal Financial Times, arrivano alle stesse conclusioni e confermano che i migranti sono un bene per l’economia britannica .
“Gli immigrati di ultima generazione sono più istruiti, pagano più tasse e chiedono meno aiuti statali rispetto ai nativi britannici”, si legge in una ricerca del Centro di Ricerca e Analisi delle Migrazioni dell’University College London.
LO STESSO SOSTIENE il rapporto dell’Istituto Nazionale per la Ricerca Economica e Sociale, secondo cui “le industrie con quote elevate di lavoratori migranti hanno avuto maggiore produttività del lavoro. Ogni nuovo immigrato porta a un aumento della produttività del lavoro dello 0,06-0,07 per cento”. Secondo la Ucl tra il 1995 e il 2011, gli immigrati provenienti dall’Ue hanno contribuito per 8,8 miliardi di sterline in più di quanto hanno ricevuto in benefici, mentre il salasso viene principalmente dai britannici, che hanno pesato sulle finanze pubbliche (in sussidi e altro) per 604,5 miliardi.
Per gli extracomunitari il contributo è più modesto: hanno immesso nel sistema fiscale britannico solo il 2 per cento in più di quanto hanno preso, ma il saldo rimane positivo. Nello stesso periodo invece, i nativi britannici hanno succhiato più di quanto hanno versato, coprendo solo l’89% di quanto costano.
Questi sono i dati. Ma ieri il Daily Express continuava a raccogliere firme per limitare il numero degli accessi di stranieri.

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