Omar, malato senza diritti in carcere e nel Cie

Italia-razzismo
L’associazione Medici per i Diritti Umani da qualche mese sta monitorando la situazione sanitaria dei centri di identificazione ed espulsione (Cie). Nel corso di questa attività sono arrivate molte segnalazioni, tra cui quella di un trentenne africano, raccolta dal dottor Alberto Barbieri e qui raccontata. Si tratta di una storia di richieste inascoltate e di malasanità. Il tutto ha inizio in carcere, quando Omar «nota una piccola tumefazione al braccio sinistro.

Segnala subito il problema ai medici del penitenziario». Avrebbe bisogno di fare «degli accertamenti fuori dall’istituto di pena» ma non è facile, e il Servizio Sanitario Nazionale ha lunghe liste di attesa. E così passano ben quattro mesi prima che Omar venga sottoposto a un’ecografia.
Il referto dell’esame è tranquillizzante e depone per un probabile vecchio ematoma, si consiglia comunque l’esecuzione di una biopsia. Dovrà attendere però diversi mesi in cella, esattamente cinque, con la tumefazione che cresce e il dolore che aumenta. Il responso non è allarmante: una forma di tumore benigno. Ma si nota una discrepanza tra la diagnosi e la malattia, infatti la massa continua crescere.
Dopo oltre undici mesi dall’insorgenza dei primi sintomi Omar finisce di scontare finalmente la sua pena. Ma succede qualcosa che non aveva previsto: viene trasferito nel Cie di Ponte Galeria. Ciò è accaduto perché è una persona irregolare, ossia senza validi documenti per rimanere in Italia. Sono molte le persone straniere che vengono tradotte dal carcere al Cie perché nel periodo della detenzione non hanno avuto la possibilità di rinnovare il titolo di soggiorno, o perché – e questo è il caso di Omar – in carcere non si è provveduto alla loro identificazione. Una volta nel Cie «espone il proprio problema ai medici che sono solleciti nel richiedere una visita chirurgica specialistica da effettuarsi in un centro ospedaliero esterno».
La possibilità di fare questa visita è davvero esigua perché gli «ospiti» (così definiti dal ministero dell’Interno), per poter uscire devono essere accompagnati dalla polizia, non sempre disponibile per mancanza di personale. E così Omar salta il primo appuntamento e arriva con molto ritardo al secondo ripiegando sulla visita al pronto soccorso. Il medico allarmato cerca di predisporre un ricovero ma senza alcun risultato. Omar torna al centro e solo dopo due mesi riuscirà a essere sottoposto a una risonanza magnetica. Nel frattempo la malattia degenera e gli analgesici fanno sempre meno effetto. Dopo trenta giorni viene ricoverato e operato. Sono passati ben 13 mesi dall’insorgenza dei primi sintomi e il referto dell’esame istologico è chiaro: si trattava di un tumore maligno aggressivo, con alta frequenza di recidiva. E così è stato. Nei mesi successivi la situazione non migliora, quell’intervento doveva essere diverso, più radicale, ma non è stato autorizzato dallo stesso Omar che, per problemi linguistici: non aveva capito. Dopo essersi rivolto a un’altra struttura sarà operato altre due volte. Questa è la storia di Omar ma è anche la storia di molti reclusi rimasti senza voce.

l'Unità, 20-09-2012

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