L'immigrato non è un estraneo ma un cittadino

 

Luigi Manconi  Valentina Brinis 
La sentenza emessa ieri dal Tribunale di Modena segna un punto davvero importante nella storia giudiziaria italiana in materia di immigrazione e, in particolare, di immigrazione irregolare. Quella decisione ha finalmente chiarito che la condizione di extralegalità giuridica di una persona non coincide necessariamente con l’estraneità rispetto al sistema di relazioni sociali in cui quella stessa persona si trova inserita. Insomma, la sua integrazione sociale, quando c’è, deve risultare “più forte” della sua mancata regolarizzazione. 
La sentenza ha così stabilito che, chi nasce in Italia da genitori stranieri, pur se privo di documenti, non può essere considerato un immigrato irregolare: dunque, la sua destinazione mai potrà essere il Centro di identificazione e di espulsione.
La storia dei due fratelli interessati dalla sentenza del Tribunale di Modena, simile a quella di molti altri trattenuti nei Cie, si rivela utile per capire come nella “applicazione perfetta” della legislazione che regola l’immigrazione, vengano trascurate le reali condizioni della persona e la sua biografia e venga ignorata la sua identità sociale. Andrea e Senad rischiavano di essere rimpatriati in uno Stato mai conosciuto, la Bosnia, tra l’altro ignoto ai loro stessi genitori nella attuale configurazione geo-politica di paese indipendente, dal momento che essi emigrarono da quella che all’epoca era ancora la Repubblica federale di Jugoslavia. L’aspetto grottesco è che la permanenza al Cie non si sarebbe potuta concludere con l’espulsione perché, appunto, i nomi dei due giovani non compaiono in alcun registro anagrafico bosniaco. E, probabilmente, la loro uscita dal centro sarebbe avvenuta alla scadenza del termine che oggi, ahinoi, è di un anno e mezzo. 
Un provvedimento, quest’ultimo, che è andato ad inasprire l’attuale normativa (legge Bossi-Fini). Così che si è arrivati a prevedere come fattispecie penale, con relativa pena detentiva, ingresso e  presenza irregolari sul territorio italiano. Ne deriva una smisurata e incontenibile facoltà di penalizzare e punire. Una tendenza che si esprime in maniera intensa quando si parla di immigrati e che sembra trovare soddisfazione quando si tratta di immigrati irregolari, assimilati né più né meno che a criminali.
Ma la questione più importante e drammatica che questa vicenda rivela è, ancora una volta, legata a quella legge sulla cittadinanza la cui mancata riforma il Capo dello Stato ebbe a definire “una follia”. L’attuale normativa, infatti, non è in grado di rispondere in maniera idonea all’odierna composizione della società italiana, alla realtà dei flussi migratori degli ultimi trent’anni e ai processi di integrazione (certo faticosi, ma comunque spesso consolidati) cui hanno dato luogo. La legge in vigore non prevede la concessione della cittadinanza alle persone che, come Andrea e Senad, sono nate in Italia, se non a condizioni molto rigide.  In particolare, al compimento dei diciotto anni, quanti sono stati sempre regolari e sempre residenti sul territorio, entro i dodici mesi successivi, possono presentare la domanda di cittadinanza. Ma sono in pochi a saperlo – e dunque a presentare tempestivamente la richiesta - perché com’è noto i privilegi sono per i privilegiati.
l'Unità 23 marzo 2012
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